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Per quale libertà si combatte questa guerra?
di Manlio Cammarata - 27.09.01

Nelle prime ore i generali avevano coniato l'infelice slogan "giustizia infinita", ora la guerra si chiama "libertà duratura", secondo la maldestra traduzione giornalistica del nuovo slogan Enduring Freedom: la frase italiana non è solo un po' cacofonica, ma soprattutto non rende lo spirito dell'espressione originale. Infatti, come informa il dizionario Ragazzini, enduring significa non solo "durevole, duraturo, permanente", ma anche "paziente, resistente, tenace". E il primo significato del verbo to endure è "sopportare, resistere, soffrire". La distinzione non  è  secondaria, se si considera che l'arma più efficace finora impiegata in questa singolare rappresentazione bellica è costituita dai mass media, di cui gli slogan costituiscono la linfa vitale.

E' una guerra psicologica globale quella che l'America sta già combattendo, manovrando con perizia i mezzi di informazione, influenzando l'opinione pubblica come forse non era mai accaduto prima d'ora. Giornali e TV ripetono ossessivamente le stesse formule, seminando diffuse inquietudini. L'America userà armi nucleari? I terroristi attaccheranno con le armi chimiche o biologiche? La paura si diffonde, l'arma mediatica colpisce nel segno.
La rivista Newsweek ha commissionato un sondaggio alla Princeton Survey Research Associates. La domanda posta tra il 13 e il 14 settembre a un campione di adulti americani era più o meno questa: "Oggi le telefonate e la posta elettronica sono spesso cifrate per proteggere privacy e riservatezza. Sareste favorevoli all'indebolimento di queste protezioni per facilitare le attività di controllo dei sospettati di attività terroristiche da parte di FBI e CIA, anche se questo dovesse violare la privacy individuale e creare problemi alle attività economiche?".

In quei giorni più della metà degli intervistati si era dichiarata favorevole all'indebolimento delle protezioni. Se il sondaggio fosse ripetuto oggi, dopo il continuo susseguirsi degli allarmi mediatici, probabilmente la percentuale salirebbe non di poco. Se la domanda fosse completata da un inciso del tipo "sapendo che non serve a nulla", il responso cambierebbe?
Ma non chiediamo troppo ai sondaggisti (che forniscono quasi sempre i risultati che il committente si aspetta) e anche ai giornalisti che ne riportano i vaticini. Quello che oggi conta è la perfetta intonazione del coro, guai a chi non segue con un occhio lo spartito e con l'altro la bacchetta del direttore.

Eppure la realtà è sotto gli occhi di tutti, su quegli stessi giornali e in quegli stessi notiziari televisivi che diffondono l'allarme: il grande orecchio (echelon) non ha sentito nulla, i terroristi non hanno usato la posta elettronica. Qualcuno ha straparlato anche di messaggi steganografici nascosti in immagini accessibili da chiunque sul web, dimenticando che è abbastanza facile per  i tutori della legge scoprire se in un file jpeg c'è nascosto qualche elemento estraneo, e senza violare la riservatezza di nessuno.
E comunque, come riporta Massimo Mantellini su Punto Informatico, un'accurata ricerca svolta su due milioni di immagini (due milioni!) pubblicate da eBay non ha trovato alcuna traccia di messaggi nascosti.

Inutili divagazioni. In tutte le occasioni si continua a prospettare la necessità di "limitare in qualche misura" la riservatezza della posta elettronica per garantire la sicurezza di tutti, si risfoderano le proposte di crittografia "indebolita", di key escrow e key recovery (vedi "Key escrow", una questione molto delicata  - novembre 1996) .
Dunque il dilemma è "privacy contro sicurezza", come tentano di farci credere in questi giorni?
Al contrario, come ci ricorda Andrea Monti (vedi Indebolire la riservatezza aiuta i delinquenti e uccide il business), i due termini non sono affatto antitetici.

Possiamo trovare una conferma di questo principio facendo  un passo indietro, lungo più di sei anni, per rileggere Non c'è privacy senza sicurezza di Guido M. Rey, allora presidente dell'Autorità per l'informatica nella pubblica amministrazione. In un contesto lontanissimo da quello di oggi, e con ben diversi obiettivi, Rey dimostrava che sicurezza e privacy costituiscono un binomio inscindibile (qualche riflessione potrebbe farsi anche sul titolo di quella prima discussione giuridica sul nascente  web italiano, nell'ormai lontano 1995: Comportamenti e norme nella società vulnerabile)...

Intanto il Garante italiano fa sentire la sua voce, anzi le sue voci (Privacy e sicurezza, parlano i componenti del Garante): per Rodotà "La privacy non è nemica della sicurezza. Anzi può essere uno strumento di tutela per rendere meno facile il lavoro di chi vuole organizzare azioni terroristiche". Ma il vicepresidente Santaniello è meno categorico: "Solo per una limitata fascia della privacy si pone quindi la questione di introdurre misure di emergenza parzialmente modificative della tutela attuale della privacy".
Mentre per Rasi, componente nominato pochi mesi fa, "appare chiaro che il Garante si opporrà energicamente a che un malinteso diritto alla tutela della riservatezza costituisca un pretesto per la non collaborazione internazionale nel settore delle misure cautelari per la sicurezza".
Nel coro, chi è che stona?

Ma il fragore della guerra (per ora solo mediatica) copre le voci discordanti. Una guerra che si chiama, appunto,  Enduring Freedom. Si potrebbe correttamente tradurre "Libertà sofferta".