di Giancarlo Livraghi* -
03.02.2000
Non è facile cercare un po' di chiarezza nella vexata quaestio dei
cosiddetti "incentivi" - o, in senso un po' più ampio, di quali
interventi possono o debbono fare le autorità pubbliche del nostro paese per
aiutarci a essere più competitivi nell'uso delle nuove tecnologie di
comunicazione. Ma credo che se si riuscissero a definire in modo un po' più
preciso alcuni criteri generali potremmo almeno - come opinione pubblica, come
cittadini e come persone più o meno "esperte" nell'argomento -
suggerire qualcosa di più preciso alle nostre autorità e ai nostri
"grandi poteri" economici. Che (come tutti sappiamo ma non sempre
abbiamo la sfacciataggine di dire) sono ancora molto ignoranti e confusi in
questa materia e spesso influenzati dalle visioni, abbastanza miopi e meschine,
di alcuni grossi interessi settoriali.
Non condivido il "grido di dolore" di chi piange, sic et
simpliciter, sulla mancata attuazione delle molte promesse che il governo
aveva fatto. Prima di lamentarci dovremmo chiederci se quei provvedimenti
fossero utili e ben concepiti. Se (come credo) non lo erano, è meglio che non
si sia sprecato il denaro dei contribuenti, o impegnate le risorse del
"sistema paese", in direzioni sbagliate.
Non condivido neppure la posizione, espressa anche da alcune
"autorevoli" voci del nostro mondo economico, secondo cui le imprese
(grandi e piccole) non possono fare nulla se non sostenute da sussidi pubblici.
In un paese già strangolato da un infernale intrico di norme e di
"provvidenze" mal congegnate, dovremmo smettere una volta per tutte di
ricorrere a "mamma Stato" per evitare di impegnarci e di pensare.
Anche perché chi invoca quegli interventi spesso ha in mente il suo particulare;
cioè spera (o sa) di poterli orientare a suo privato beneficio.
Ciò non significa che le pubbliche autorità possano o debbano ignorare un
problema di così grande importanza. Ma dovrebbero finalmente applicare i
princìpi tanto spesso dichiarati quanto poco attuati: non distribuire
"provvidenze" ma agevolare e incoraggiare l'iniziativa dei cittadini
e delle imprese.
Come? Credo che se ne possa utilmente discutere. Ma, per cominciare, ecco alcuni
criteri che mi sembrano degni di approfondimento.
1. Rimozione di ostacoli
Abbiamo avuto qualche segno incoraggiante di "non intervento".
Per esempio l'Italia non ha posto e non pone limiti all'uso della
crittografia. Non ha imposto vincoli burocratici all'uso della firma digitale,
se non nel caso di attività riguardanti la pubblica amministrazione o
determinati atti di rilevanza legale. Nonostante le campagne terroristiche
sostenute dai mass media, non ha (almeno finora) né imposto né
incoraggiato interventi di censura o di "filtraggio" o altre forma di
restrizione della libertà di espressione.
Ma rimangono molti impicci burocratici, in parte derivanti da vecchie norme
che dovrebbero essere eliminate o semplificate, in parte da nuove regole spesso
concepite senza capire quale sia la reale funzione e utilità della
comunicazione telematica. Senza entrare nei dettagli (che lascio a persone più
esperte di me in questa materia) si tratta dello stranoto (quanto irrisolto)
problema del lacci e lacciuoli e delle complicazioni normative che non
solo soffocano la nostra economia ma favoriscono i disonesti, (o comunque gli
esperti in cavilli burocratici), a scapito delle imprese e delle persone capaci
di produrre autentici valori di qualità e di servizio.
Insomma, prima di pensare a "provvidenze" occorre eliminare le
restrizioni inutili, semplificare e chiarire quelle (poche) norme che servono
davvero ed evitare di accumulare nuovi intralci normativi o burocratici su una
situazione già troppo intricata.
Non è l'unico, ma è tipico l'esempio della legge sulla protezione dei
dati personali (vulgo "privacy") che si conferma
inefficace nel raggiungimento del suo obiettivo, nociva per le inutili
tortuosità che contiene e applicata con esasperante lentezza - vedi il caso
di una decisione del Garante emessa nel
gennaio 2000 su una denuncia presentata nel luglio 1999.
Non è l'unico, ma è tipico il caso della naming authority italiana
che ha reso sempre più difficile, macchinosa e costosa la registrazione dei domain
.it e ha mantenuto fino a poco tempo fa alcune regole assurde, come quella che
impediva a un "privato cittadino" di registrare un domain - o
a un'azienda o un'organizzazione (che non fosse un'impresa di
telecomunicazioni) di registrarne più di uno. Quando quest'ultima regola è
stata rimossa, il 15 dicembre 1999, c'è stato un (più che prevedibile)
affollamento di richieste che ha colto l'authority completamente
impreparata - a tal punto che un mese e mezzo dopo molti dei domain
richiesti non sono ancora stati assegnati. E stendiamo un pietoso velo sul fatto
che l'Italia è di gran lunga il meno efficiente dei paesi europei nel fornire
dati aggiornati e significativi di hostcount, come è evidente a chiunque
esamini con un po' di attenzione le statistiche pubblicate da RIPE. (Per un
approfondimento su questo tema vedi le osservazioni nel numero 40 e successivi
della rubrica online Il mercante in
rete).
E naturalmente non possiamo dimenticare la stortura legislativa che tratta
come reato il possesso di software non registrato, e che si sta aggravando con
nuove norme concepite in favore di grandi interessi privati e contro la libertà
e la serenità dei cittadini; e che non è l'unica, ma la più frequente causa
di quelle ondate di sequestri che
hanno reso infame l'Italia nel mondo delle reti nel 1994 e continuano a
ripetersi in un impressionante numero di casi, terrorizzando
persone e famiglie, completamente innocenti o tutt'al più colpevoli di
piccole infrazioni, che si vedono trattate come pericolosi criminali.
2. Cultura e formazione
Non è compito solo della "funzione pubblica" diffondere
cultura e formazione professionale. Ma la scuola ha un compito insostituibile; e
la diffusione di una vera cultura della rete nella pubblica amministrazione è
una risorsa importante per tutto il "sistema paese".
Perché tutto questo funzioni, occorre capire la differenza profonda fra
cultura della comunicazione e "alfabetizzazione"
tecnica. Quando si parla di "nuovi posti di lavoro" che si possono
creare con le nuove tecnologie si pensa solo ai tecnici. Si dimentica che se si
usa la rete per vendere scarpe si creano posti di lavoro per i calzolai, se la
si usa per valorizzare l'artigianato si creano occasioni di lavoro per gli
artigiani - e così ad infinitum. Si dimentica, soprattutto, che la
rete è fatta di persone e che operare efficacemente in rete significa dare
lavoro a persone che sappiano comunicare. L'accento eccessivo sulle funzioni
tecniche significa moltiplicare la formazione di operai estremamente
specializzati (che cadono facilmente in obsolescenza con l'evoluzione delle
tecnologie) dimenticando che il loro lavoro è inutile se non c'è qualcun
altro che sa usare i loro strumenti. Quand'ero ragazzo, un bravo "cromista"
(cioè un tecnico di stampa a colori) guadagnava spesso più di un dirigente; ma
nessuno pensava che il suo lavoro servisse a qualcosa in assenza di persone
capaci di scrivere, redigere e impaginare un libro o una rivista.
La rete offre infinite possibilità di lavoro a persone di cultura umanistica.
È vero che una certa vecchia concezione italiana definiva le discipline umane
in modo arcaico, nozionistico, pedantescamente "letterario" o
"classico" - e così ha contribuito a rallentare la nostra capacità
di capire il mondo della scienza e delle nuove tecnologie. Cose che molte delle
nostre imprese sanno applicare con grande efficienza e successo, ma che il mondo
politico, giuridico e accademico fatica ancora a capire. Ma il fatto che le
scienze umane siano state distorte da certe nostre tendenze culturali non
significa che siano diventate meno importanti. La gestione efficace delle
tecnologie si basa soprattutto su una profonda comprensione dei valori umani, e
questo è particolarmente vero nel caso delle tecnologie di comunicazione.
Dobbiamo anche imparare a essere meno provinciali. A non subire la
"globalità" con una pedestre imitazione di una cultura dominante mal
capita, ma a diventarne attivamente partecipi. Da qualche anno abbiamo
finalmente capito che bisogna sapere l'inglese. Ma non siamo arrivati ancora a
concepire il globalese
non come una "lingua straniera" ma come la "seconda lingua"
indispensabile per tutti.
Dobbiamo anche tener conto di una nozione teoricamente diffusa, ma troppo poco
praticata. Le radici locali non si indeboliscono in un'economia globale, ma si
rafforzano. Un paese fortemente decentrato e con forti tradizioni locali, come l'Italia,
è avvantaggiato nella "competizione globale". Questo è uno dei tanti
motivi per cui non dobbiamo copiare ciò che fanno gli altri ma cercare le
nostre strade nel vasto e mutevole mondo della rete.
Sono questi, i valori su cui si concentra la formazione e l'impegno culturale?
O stiamo creando ostacoli, fatiche, diffidenze e deformazioni con una pedestre e
ostica "alfabetizzazione" tecnica?
3. Riduzione dei costi e delle incompatibilità tecniche
Ormai sta diventando sempre più difficile nascondere un fatto evidente:
la qualità delle tecnologie che stiamo usando è inaccettabile. Il 28 gennaio a
Milano l'ha detto perfino Nicholas Negroponte, noto come uno dei più accaniti
profeti della tecnologia a tutti i costi. Con sorprendente sincerità, ha
spiegato agli astanti che il software più diffuso è pessimo e continua a
peggiorare. Che è inutilmente complesso e farraginoso, infarcito di false
innovazioni che servono solo a renderlo più ingombrante e meno
efficiente.
Che funzionavano molto meglio i "personal computer" di quindici anni
fa. E che il costo del software, e dell'esagerato hardware necessario per
gestirne le inefficienze, è esageratamente alto.
Questo, ovviamente, è un problema grave per le "economie emergenti".
Ma non è un problema da poco neppure per noi. Se avessimo computer molto meno
costosi e molto meglio funzionanti (e se non fossimo costretti a sostituirli o
"aggiornarli" con incredibile frequenza per inseguire false e inutili
innovazioni) avremmo rimosso uno degli ostacoli alla diffusione dell'informatica
e della telematica.
L'altro problema, ovviamente, è quello della compatibilità.
Non so quanto ci sia di vero nella notizia che la Cina abbia deciso di vietare
nella sua pubblica amministrazione l'uso di Windows 2000 e di usare "Red
Flag", un sistema sviluppato da programmatori cinesi, basato su Linux. Ma
nel caso della Cina, almeno, se ne parla. E in alcuni pesi europei ci sono
iniziative che cominciano a incidere sulla realtà. Per esempio in Francia è
stata presentata una proposta di legge per l'introduzione di Linux nel sistema
scolastico e si sta lavorando sull'uso di sistemi opensource in altri
settori della pubblica amministrazione. Il governo tedesco ha finanziato lo
sviluppo di crittografia opensource (alternativa a PGP ma compatibile).
Eccetera. Perché l'Unione Europea e l'Italia dormono in piedi?
Infine... le tariffe. Il gran rumore sulla cosiddetta "internet
gratis" nasconde una giungla tariffaria complessa e inestricabile. La
moltiplicazione delle tariffe e delle "promozioni" ha creato una tale
confusione che nessuno è più in grado di capire quanto sta pagando o quale sia
la soluzione più conveniente (o meno esosa). L'unica cosa chiara è che
stiamo pagando troppo, per la telefonia come per la trasmissione dati. Non dico
che si debba eccedere in regolamentazione, ma si tratta di un servizio pubblico
e un po' di chiarezza ci vorrebbe. Come minimo, qualcuno dovrebbe occuparsi di
diffondere informazioni comprensibili, che rendano più trasparente e meno
oscuro il sistema delle tariffe e dei prezzi.
4. I servizi pubblici
È stato detto e ripetuto infinite volte; ed è profondamente vero. Un uso
intelligente dell'informatica e della rete può migliorare la qualità dei
servizi pubblici, attenuare le fatiche burocratiche per i cittadini, ridurre le
code e gli ingorghi di traffico, migliorare la qualità della vita. Sacrosanto.
Ma le "buone intenzioni" non bastano. Si è fatto e si fa troppo poco;
a parte qualche lodevole esempio (vedi il caso delle Camere di Commercio) e
qualche sporadico miglioramento di efficienza in alcune amministrazioni locali.
I molteplici dibattiti e "forum per la società dell'informazione"
sono sprofondati in una palude di chiacchiere inconcludenti. Il serio impegno di
alcune funzioni nell'amministrazione centrale si impantana nella viscosità
delle resistenze a tutti i livelli - o si perde nei meandri come il
"messaggio dell'imperatore" di Franz Kafka.
Prima di pensare a più o meno abborracciati "incentivi", non sarebbe
meglio concentrare le energie su come mettere davvero la pubblica
amministrazione al servizio dei cittadini?
5. L'esportazione
E infine... quella che forse è la considerazione più importante. L'Italia
rappresenta circa l'uno per cento dell'internet nel mondo. Se ne deduce che
il 99 per cento del mercato è all'esportazione.
Per quanto arretrati, siamo uno dei dieci paesi più sviluppati nel mondo per
diffusione dell'internet; e ormai siamo arrivati al punto in cui la
penetrazione della rete si sta davvero allargando, non è più un fatto di
élite, sta diventando una cosa "per tutti". Se gestiamo questa
situazione in modo passivo, o imitando le esperienze (e gli errori) altrui,
saremo inevitabilmente "colonizzati". Economicamente e culturalmente.
L'unica difesa è l'attacco. Specialmente per un'economia, come quella
italiana, la cui condizione fondamentale è "esportare o morire".
Dobbiamo andare alla conquista del mondo. Per un paese come il nostro, se non ci
fosse l'internet bisognerebbe inventarla. Se proprio dobbiamo pensare a
qualche "incentivo", meglio incoraggiare in tutti i modi possibili chi
porta nel mondo le nostre idee, la nostra cultura, i nostri prodotti e i nostri
servizi. Che non sono soltanto il "pecorino cheese" di quel mal
concepito, insultante e grossolano filmino incautamente diffuso dalla Presidenza
del Consiglio.