Alcuni lettori mi hanno chiesto di esprimere un’opinione
sulla discussa vicenda di mal concepite iniziative che dovrebbero servire ad
affermare nel mondo “l’immagine dell’Italia”. Ho esitato un po’,
perché l’argomento è fin troppo dibattuto. Ma forse può essere utile
cercare di mettere a fuoco quali siano i fatti e i problemi essenziali, dispersi
e confusi in un mare di polemiche spesso giustificate, ma non sempre coerenti.
Il 20 febbraio 2007 sono stati presentati, in pompa magna, un
cosiddetto “logo” che dovrebbe rappresentare l’Italia e un sito web il cui
compito dovrebbe essere “riportare l’Italia al posto che le spetta” nel
turismo internazionale.
Non è questa la sede per ragionare sul complesso problema di
quanti e quali “turisti” visitano l’Italia e di come possa migliorare, in
quel campo, la situazione del nostro paese – che, secondo i dati pubblicati
dall’Economist, è al quinto posto nel mondo per numero di visitatori e
al quarto per entrate dal settore.
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Nel grafico a sinistra milioni di
visite |
Nel grafico a destra milardi di dollari |
Quale sia “il posto che spetta” all’Italia può essere
opinabile, ma è evidente che ci sono grandi possibilità di sviluppo per una
risorsa importante non solo da un punto di vista economico, ma anche (o
soprattutto) come fatto culturale.
Che a questo obiettivo contribuiscano seriamente le due
iniziative presentate è molto improbabile. Visto il modo in cui sono state
realizzate, potrebbero avere l’effetto contrario.
Sembra che il governo e gli organizzatori di queste
discutibili imprese non stiano prestando alcuna attenzione all’ondata di
critiche che si è scatenata. Probabilmente perché sono altre le priorità su
cui si affanna il mondo politico. Ma anche perché, per cose di questo genere,
è inevitabile che ci sia qualche critica – e spesso si scatenano, su ogni
argomento, interessi di parrocchia, o le voci deluse di chi non ha beneficiato
dell’elargizione di somme esorbitanti investite in questo progetto. Quindi
qualcuno potrebbe fare spallucce e pensare «boh, sono i soliti interessi di
settore». Ma non è così – o lo è solo in parte. Molte critiche sono serie
e abbondantemente giustificate.
Quello che non c’è (e non se ne sente la mancanza) è il
dibattito di partigianeria politica. Fatto curioso, quando ogni frangia di
partito si sente perennemente obbligata a litigare su tutto, dai problemi più
gravi e importanti alle più banali sciocchezze. Ma la storia non è nuova. Si
è già verificato tante volte che, in queste materie, la distrazione, l’insipienza
e la superficialità sono diffuse in tutta la classe politica, di ogni
schieramento e ideologia – come in molti centri di potere, pubblico e privato.
Nel caso specifico, è difficile immaginare che un progetto
come questo sia stato realizzato in pochi mesi. Le notizie in merito non sono
chiare, ma sembra probabile che sia cominciato quando c’erano un altro governo
e un’altra maggioranza parlamentare. Quindi abbiamo un piccolo, ma non
irrilevante, esempio di incompetenza bipartisan, di “coalizione”
delle baggianate. Il problema, comunque, non è di “parte” politica, ma di
cattiva gestione di risorse e del denaro dei contribuenti – e di cattivo
servizio all’interesse nazionale.
Mi scuso per un’osservazione personale. Ma, poiché si può
sempre sospettare che qualcuno parli pro domo sua, forse è bene chiarire
che la mia opinione, per quello che vale, non è influenzata da alcun interesse
individuale o di categoria. Non sono un “grafico”, non disegno marchi né
altre immagini. Non offro e non vendo progettazione o gestione di siti web. Non
faccio parte di alcuna impresa, associazione o categoria professionale impegnata
in quei settori. Insomma non ho alcun motivo di invidia o di ostilità. Ma credo
che non sia discutibile la mia capacità di valutare iniziative come queste –
non in base ai miei gusti personali, ma a una lunga e larga esperienza nel
capire, in base ai fatti, che cosa funziona e che cosa no. E ad abundantiam ciò
che sto scrivendo non è solo la mia opinione, ma è confermata da tutte le
persone competenti con cui ho avuto modo di verificarla. La sostanza è semplice
e chiara. I (molti) critici hanno ragione. Quel progetto è mal concepito e
peggio realizzato.
Si tratta di due cose connesse, ma diverse. Cominciamo da
quella più semplice. Il cosiddetto “logo”. Dicono che il Presidente del
Consiglio lo abbia giudicato “bellissimo”. Mi perdoni, signor presidente, ma
è un’opinione molto discutibile. È ovvio che questo non è il suo mestiere.
Sono altre le competenze necessarie per governare bene un paese. Ma in questo
caso lei è stato, come minimo, mal consigliato.
Questo è il “coso” di cui stiamo parlando.
Vorrei trovare parole meno scortesi, ma non ci riesco. In sintesi: è inutile ed
è una schifezza. È inutile perché non si capisce a che cosa possa servire un
“marchio” per rappresentare l’Italia. Ed è una schifezza perché è
esteticamente pasticciato, sostanzialmente incomprensibile e non trasmette alcun
valore o significato. Come ho già detto, non è solo una mia opinione. L’ho
verificata con parecchie persone competenti in materia. Non ce n’è una che lo
consideri “bello”, o utile, o comunque accettabile. Insomma un’idea
sbagliata realizzata male.
Pare che lo sgorbio sia costato centomila euro. La spesa è
esorbitante. Ma la qualità sarebbe inaccettabile anche se fosse costato un
decimo di quella cifra. Dicono che la stramba e illeggibile “t” voglia
rappresentare la penisola. L’idea, comunque, è banale. Ma oltre all’incompetenza
grafica e concettuale sembra che qualcuno abbia idee piuttosto confuse in fatto
di geografia. Voglio bene al nostro stivale, sono affascinato dalla bellezza
dell’Italia, mi nausea vederla così male rappresentata. Chi di noi si
riconosce in quel coso? Chi, nel mondo, vedendolo pensa all’Italia?
Il compito era stato affidato a una grande società
internazionale, specializzata in questo settore. Che dire? Non sempre i più “grandi”
sono i migliori. E quandoque dormitat Homerus – la montagna ha
partorito un mostriciattolo. Non ci è dato sapere, comunque, quale obiettivo
sia stato indicato e con quali criteri sia stata scelta e approvata questa
infelice soluzione.
Sarebbe stato meglio far lavorare gli italiani? Anche senza
essere nazionalisti, la risposta è si. Tanti in Italia sono capaci di fare cose
enormemente migliori (e a prezzi molto più ragionevoli). Qualcuno potrebbe dire
che, per una comunicazione rivolta al resto del mondo, è utile una prospettiva
“esterna”. Può essere vero. Ma non mancano in Italia persone e
organizzazioni con esperienze internazionali – e non sarebbe stato difficile,
né costoso, coinvolgere nella valutazione qualcuno con una visione “straniera”
e adeguate competenze specifiche.
Allo stato dell’arte, non è importante ridisegnare questo
coso. Visto che è inutile, basta buttarlo via. Scusandosi per lo spreco del
denaro dei contribuenti e per la stupida figuraccia che, nel frattempo, abbiamo
fatto agli occhi del mondo (o di quella, speriamo piccola, parte del mondo che
si è accorta dell’esistenza di questo papocchio).
Ma c’è di peggio. Con un po’ di ricerca online si può
trovare ampia documentazione dei motivi per cui il sito “italia.it” è mal
concepito e peggio realizzato. In sintesi, ecco alcuni dei problemi.
Molti si scandalizzano per la spesa. Si dice che la cosa sia
costata 45 milioni di euro (qualcuno stima che, fatti meglio i conti, siano il
doppio). L’impresa non è semplice, non si può fare bene con “quattro soldi”,
ma non è irragionevole pensare che togliendo tre zeri ci sarebbe stato un
investimento sufficiente per impostare almeno la fase iniziale del progetto.
Corruzione, favori politici, “amici degli amici”,
malversazione? Non so, ma non credo che ci sia motivo di scatenare la cultura
del sospetto o qualche inutile esercizio di “dietrologia”. Restiamo ai
fatti: tutto ciò è costato troppo – e soprattutto è fatto male.
L’incarico è stato affidato a una grande impresa
internazionale. Le cui competenze sono in tecnologia, non in comunicazione – e
già in questo si è partiti col piede sbagliato. Vale, anche in questo caso,
ciò che si è detto per il marchio. Ci sono in Italia risorse più qualificate
e meno costose – e non sarebbe difficile avere una verifica da una prospettiva
“esterna”. E c’è una responsabilità del committente. Se (come accade
troppo spesso) si è badato più alla cosmetica che alla sostanza, è perché si
è sbagliato prima nel briefing, poi nella verifica. Cioè sono state
date indicazioni sbagliate e si è valutato il risultato con criteri altrettanto
balordi.
Qualche critica si e’ soffermata su errori di dettaglio
(come una località in Sardegna che si trova misteriosamente trasferita in
Sicilia). Forse, anche in questo senso, sarebbe meglio se la cosa fosse gestita
da persone con idee meno confuse sulla geografia. Ma non è questo il fatto più
preoccupante. In un progetto di questa complessità qualche errore è
inevitabile... l’importante è che ci sia una buona “manutenzione”, cioè
qualcuno che badi continuamente a verificare, correggere e aggiornare.
I problemi sono altri, e molto più gravi. A cominciare dal
modo in cui questo accrocco viene chiamato. Può sembrare una pignoleria
semantica, ma è un segnale culturale. Chiamarlo “portale” vuol dire non
sapere di che cosa si sta parlando. Quel termine definisce una concezione
sbagliata, cresciuta e poi crollata nel balordo periodo della “bolla
speculativa”, che giace come squallido rudere fra le macerie di quei disastri.
La definizione, come minimo, è infausta.
Un’altra considerazione può sembrare “di parte”. In
questo caso devo ammettere che, da molti anni, sono “schierato”: a favore
delle risorse opensource, specialmente quando si tratta di servizi
pubblici. Quel sito è concepito con altri criteri, che non sono “giusti”
solo perché riflettono un’abitudine diffusa.
Per esempio il sito è male accessibile con qualsiasi
sistema, ma funziona ancora peggio quando non si usa uno specifico browser
(Explorer). Si dirà: è quello usato dall’ottanta per cento delle persone. Ma
la cosa non è così banale. Supponiamo che l’uso di Firefox sia circa al
quindici per cento (con tendenza a crescere). Non è una quota trascurabile. E
soprattutto c’è un problema di qualità. Le persone che usano sistemi più
efficienti possono essere una minoranza numerica, ma sono le più attente,
evolute e capaci nell’uso della rete. Cioè quelle più interessanti se, come
si è tante volte proclamato, stiamo cercando “un mercato di qualità” (non
solo nel turismo).
In generale... l’incapacità dei politici (e di altri
sistemi di potere) quando si tratta di capire i valori delle risorse “aperte”
è un problema noto. Qualcuno sta cercando di risolverlo. Per esempio in Francia
si è deciso di dotare tutti i parlamentari di computer opensource. In
giro per il mondo ci sono iniziative di ogni genere per la diffusione di quelle
risorse nell’amministrazione pubblica, nelle scuole, eccetera. Perché l’Italia
dorme, su questi e su altri impegni di qualità?
Ma torniamo al caso specifico del sito “italia.it”.
Sarebbe interminabile elencare i suoi molteplici difetti. Con un po’ di
ricerca online si può trovare ampia documentazione. Vediamo di riassumere
alcune delle cose essenziali.
Il sito funziona male. È così farraginoso da essere
insopportabilmente lento (anche con connessioni cosiddette “veloci”, che a
poco o nulla servono quando ci sono “colli di bottiglia” o sovraccarichi di
ingombro). Imita ed estremizza le peggiori abitudini, come l’eccesso di
cosmetica a scapito dei contenuti. È pieno di orpelli e di marchingegni
irritanti, non solo ingestibili se si usa un browser bene impostato, ma comunque
fastidiosi e inutilmente ingombranti. Insomma è un’antologia di tutte le
storture, e le sciocchezze, che caratterizzano i siti fatti male.
È una macchina di selezione alla rovescia: forse può
divertire chi bada solo a qualche trucchetto delle apparenze, ma irrita e delude
chi cerca qualcosa di funzionale. Se è questo il modo in cui si propone una “immagine
dell’Italia”, non si rende un buon servizio al nostro paese.
Forse anche questo baraccone, come tanti altri, cadrà nel
dimenticatoio e finirà nel già affollato deposito dei rottami ai margini della
rete. Ma, nel caso che riuscisse a sopravvivere, probabilmente molte delle
informazioni (se sottoposte continuamente a efficaci revisioni e aggiornamenti)
si potrebbero salvare, riorganizzandole in un impianto meno balordo e più
funzionale.
Non è difficile capire come si fa, se le priorità sono collocate nel giusto
ordine: ciò che conta è il servizio, non la scenografia. La funzionalità, non
gli addobbi. Prima che qualcuno mi accusi di avere una tendenza troppo “spartana”...
non è indispensabile che tutto sia ridotto estremamente all’essenziale.
Qualche tocco estetico, se fatto con buon gusto e sobrietà, non guasta. Ma è
meglio che non sia ingombrante. E che sia un aiuto, non un ostacolo, all’efficace
gestione dei contenuti.
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