Volevo aspettare che fosse passata l’ondata di chiacchiere sul
“conflitto” fra Google e la Cina. Sembra, invece, che continui a
complicarsi fino a diventare un ennesimo “incidente diplomatico” fra
il governo cinese e quello americano. E a disperdersi, con variazioni e
divagazioni, in ogni sorta di altri argomenti. Probabilmente ci vorranno
anni per poter sapere come andrà a finire questa storia. E nel frattempo
l’attenzione delle cronache si sarà spostata su qualche altra
“notizia del giorno”.
Ma credo che il panorama sia già abbastanza chiaro per poter tentare
qualche commento che collochi l’episodio in una prospettiva meno
effimera.
Non è una “sfida epocale”, come alcuni dicono. Nel quadro
complesso dei rapporti mondiali quello dei diritti civili rispetto agli
sviluppi economici è certo un fattore importante, ma il quadro è
enormemente più complesso di questa particolare vicenda.
Saranno gli storici del futuro a capire se qualche piccolo episodio può
avere particolare rilevo nell’evoluzione del ventunesimo secolo. Cercare
di indovinarlo oggi non è solo una perdita di tempo, è anche una
distorsione di prospettiva.
Non è uno scontro fra Davide e Golia. Né un topolino che spaventa un
elefante. È piuttosto un caso, fra tanti, di come etica e interessi
economici (o politici) possano essere in conflitto – oppure no.
Fra le molte affermazioni balzane che circolano a questo proposito, ci
sono alcuni numeri. Si dice che ci siano più persone online in Cina che
negli Stati Uniti. Nel “lungo periodo” sarà probabile, se non
inevitabile (la popolazione della Cina è più di quattro volte quella
degli USA). Ma è incredibile che sia vero oggi.
Prima di proseguire, è un obbligo premettere che non ho alcuna ostilità
o antipatia per i cinesi. E che ogni generalizzazione o preconcetto è
sempre sbagliato. Ma, ovviamente con tutto il rispetto per un grande paese
con una grande cultura, nella turbolenza di un complesso e conflittuale
cambiamento ci sono parecchie cose di cui è necessario diffidare.
La parola tycoon viene dal giapponese, ma si adatta bene a molti
personaggi della “nuova ricchezza” cinese. Comprese consorterie più o
meno criminali al cui confronto la mafia è una piccola banda di
provincia.
Già nel 1954, quando Darrell Huff aveva pubblicato How to Lie with Satistics,
era noto che i numeri riguardanti la Cina erano poco credibili. Per la
difficoltà di avere stime significative – e per una frequente tendenza
a “manipolarle”.
Oggi è ancora peggio. L’informazione è un’arma – e in
particolare lo sono dati e statistiche (vedi Il pollo di Trilussa e gli
inganni delle statistiche). Tutti, in un modo o nell’altro, si
servono di numeri “taroccati” o interpretati ad usum delphini.
Ma se ci fosse un’olimpiade della manipolazione la medaglia d’oro
andrebbe alla Cina.
È impressionante la superficialità con cui statistiche e dati (non
solo cinesi) sono citati dai mezzi di (cosiddetta) informazione senza
alcuna verifica, né ombra di ragionevole dubbio. (E circolano in
abbondanza anche sciocchezze di altro genere – come, per esempio, che il
buddismo sia nato in Cina).
Il tema di una prolusione del presidente Zhu Rongji all’Istituto
Nazionale di Contabilità di Shanghai nel 2001 era «non fate conti
falsi». Ma pochi credono che sia stato ascoltato.
Potremmo chiederci se, quando l’Università di Shanghai decise di
pubblicare (nel 2003) un’edizione cinese di How to Lie with
Statistics, avesse l’intenzione di correggere le cattive abitudini
oppure di farne un manuale per la disinformazione organizzata.
Fra tante statistiche sballate, ce n’è una spesso citata nei
commenti sul “caso Google”. Come accennavo all’inizio, si “danno
per certe” stime variabili da 306 a 386 milioni di “utenti internet”
in Cina. È evidente che non possono essere contemporaneamente “veri”
numeri così diversi. Necessariamente molti devono essere sbagliati – e
non di poco. Ma soprattutto sono tutti enormemente esagerati.
Non è pensabile, per esempio, che le persone online in Cina siano più
di quelle in India. E non è ammissibile che dal 2000 al 2009 siano
aumentate in Cina di 16 volte – quando su scala mondiale, secondo le
stime più ottimistiche, sono quintuplicate (e questo, comunque, è un
altissimo fattore di crescita).
In pratica una stima ragionevole del numero in Cina si può collocare
(secondo i criteri di valutazione) fra 80 e 100 milioni di persone (e
anche così è probabilmente sopravvalutata). Non sono poche. Ma un terzo
o un quarto di ciò che dicono i numeri abitualmente citati.
Da dove spuntino cifre così strabilianti non è comprensibile – se
non per qualche intenzionale volontà di “impressionare” e
disorientare. Da parte di chi e per quale motivo... ognuno può, se vuole,
sbizzarrirsi a cercare di indovinare. Ma l’ipotesi più probabile è che
l’origine sia a Pechino.
E, anche indipendentemente dal numero, non è ragionevole considerare
“connesse” persone cui è impedito l’accesso a tutto ciò che non è
“autorizzato” da una rigida censura. Per non parlare del fatto che
pochi cinesi, rispetto alla popolazione, capiscono l’inglese o qualsiasi
lingua straniera.
La Cina è imprigionata da due “aristocrazie” (strettamente
connesse, benché spesso in conflitto fra loro). Quella economica delle
immense fortune accumulate da pochi privilegiati e speculatori sfruttando
lavoratori brutalmente sottopagati e privi di ogni diritto civile. E
quella politica (e culturale) dei mandarini di Pechino.
Sono molte, e spesso tragiche, le conseguenze di quei
conflitti. Come, per esempio, il pesante uso della pena di morte (oltre
a ogni sorta di omicidi e stragi non “sancite” da alcuna apparente
legalità). Quante siano le esecuzioni capitali in Cina è un segreto
gelosamente custodito – ma è ragionevole credere che siano più di
cinquemila ogni anno. La Cina è, in enorme misura, al primo posto nel
mondo in questa feroce “classifica”. Seconda solo all’Iran
rispetto alla popolazione.
Uscire da quelle costrizioni non è facile, perché l’immenso e
orgoglioso impero potrebbe disgregarsi se si lasciasse lacerare da
un’aspra congerie di conflitti e contraddizioni.
Sarebbe meglio per tutti (a cominciare dai cinesi) se in Cina ci fosse
più libertà e giustizia, insieme a un migliore equilibrio sociale?
Certamente. Ma se accadesse “troppo in fretta” la transizione non
sarebbe indolore.
In quell’enorme contesto, la “vicenda Google” di cui si discute
in questi giorni è un minuscolo dettaglio. Ma merita qualche
approfondimento.
Quanto è importate Google per la Cina? Molto, per quei cinesi che
desiderano avere un accesso “non troppo condizionato” alla rete. Poco,
per chi comanda. È solo una “seccatura” che sia un’ennesima
occasione per “far sapere al mondo” quanto sia scarsa la libertà (e
la dignità umana) in Cina.
Dicono che ai cinesi non piaccia “perdere la faccia” – e
probabilmente è vero. Ma per chi li governa è più importante mantenere
il controllo dell’informazione che avere la simpatia di chi, nel mondo,
crede nei valori della libertà.
Quanto è importante la Cina per Google? Molto meno di quanto si possa
immaginare. Una perdita di credibilità nel resto del mondo costerebbe
enormemente di più di quanto il più spesso usato motore di ricerca possa
guadagnare dalla sua – comunque limitata – presenza in Cina.
Non si tratta solo di credibilità e valori culturali. Anche nei più
banali termini di business Google avrebbe molto da perdere se si
corrompesse la sua identità.
* * *
In tante cose siamo travolti dal dis-senno di poi. Un
orribile esempio è la tragedia di Haiti. Non si tratta solo del fatto che
si è “dimenticato” di costruire strutture antisismiche – neppure
nelle scuole e nelle sedi di organizzazioni internazionali (cose di quel
genere succedono dovunque, anche in Italia).
Per quanti anni il mondo si è dimenticato di Haiti? Una mezza isoletta
che quasi nessuno saprebbe collocare in una carta geografica.
Per quanto assurdo possa sembrare, c’è chi la
confonde con Tahiti, una bella isola in Polinesia.
Haiti ha “solo” nove milioni di abitanti (ma sono più di quanti ne
ha la Svizzera o la Norvegia). Eppure fu una delle prime isole esplorate
da Cristoforo Colombo nel 1492 – e quella dove stabilì la prima base
per le sue successive navigazioni. Haiti fu il secondo paese nelle
Americhe (dopo gli Stati Uniti) ad avere l’indipendenza (nel 1804).
Era abitata anche prima di essere “scoperta” dagli europei – e
perciò ha più di cinquecento anni di turbolenta storia (e più di
duecento come stato indipendente post-coloniale). Per popolazione è al
terzo posto nell’America centrale (dopo Cuba e la contigua Repubblica
Dominicana). È anche stata per trent’anni vittima di una delle più
feroci e sanguinarie dittature dell’era moderna – e non molto meglio
governata in altri periodi.
È giusto che il mondo si mobiliti per i soccorsi (con il disordine e
la confusione che, purtroppo, sono inevitabili). Ma per molti, troppi anni
si è fatto troppo poco per le orribili condizioni di miseria, oppressione
e violenza in cui vivono gli abitanti di Haiti. Ora si promette che “non
saranno più abbandonati”. Ci vorranno parecchi anni per sapere se sarà
vero.
Intanto possiamo già constatare le differenze fra chi si impegna
davvero e chi si perde in chiacchiere. Compresa l’onnipotente Cina (per
Haiti ha stanziato meno di Taiwan, che ha un ottavo del reddito e un
sessantesimo della popolazione).
Il fatto è che la Cina ha troppi problemi al suo interno per potersi
occupare seriamente di “soccorrere” gli altri – e anche per potersi
davvero proporre come “potenza egemone” del pianeta (o del sistema
solare, nonostante il suo impegno nelle esplorazioni spaziali).
Se il mondo troverà un modo, amichevole ma determinato, per favorire più
libertà e umanità in Cina, sarà meglio per tutti. E i primi a trarne
vantaggio saranno i cinesi.
* * *
Ma ritorniamo al “caso Google”. Nella generale e imperversante
confusione di idee su che cosa sia e come funzioni l’internet, molti non
capiscono (o non vogliono capire?) quale sia il ruolo di un “motore di
ricerca”.
Può sembrare un minuscolo dettaglio lessicale che si dica o si scriva
“ho letto su Google”. Ma dimostra che non si sa che cosa sia. È vero
che Google ha sviluppato e continua a inventare ogni sorta di altre
attività. Ma se un produttore di pentole si mette a fare anche martelli,
non vuol dire che uno scolapasta serva per piantare un chiodo.
Si dice che il motivo per cui Google non vuole più sottoporsi alla
censura cinese sia un “attacco” invasivo da parte di hacker
“dissidenti”. È ridicolo. Cose del genere succedono continuamente.
Un’impresa di quelle dimensioni ed esperienza, e con quell’abbondanza
di risorse tecniche, sa bene come difendersi e non si lascia certo
impressionare da una delle infinite “azioni di disturbo”.
Si dice che Google “manipoli” le “graduatorie” per dare più
evidenza ad alcune fonti rispetto ad altre. Certo, se volesse lo potrebbe
fare. Ma correrebbe un grosso rischio. I lettori più esperti se ne
accorgerebbero. E per Google sarebbe il principio della fine. (Vedi La legge di Google).
Non è il caso di dimenticare che fu quello il motivo, nella seconda
metà degli “anni novanta”, del crollo dei “motori di ricerca”
allora dominanti – che a forza di “truccare le classifiche” erano
diventati inutilizzabili.
Fin dal primo giorno in cui, dodici anni fa, cominciai a usare Google, mi
dissi che avrei mantenuto quell’abitudine fino a quando fosse rimasto
fedele alla sua promessa di dare il miglior servizio possibile senza mai
discriminare i contenuti.
Non sono certo l’unico a pensare così. Molti fra i più attenti
utilizzatori della rete hanno lo stesso atteggiamento (o sono ancora più
diffidenti). Per “tenermi in esercizio” ogni tanto provo con altri
“motori”. Finora non ho trovato motivi per cambiare. Ma, se quel
giorno venisse, l’impero di Google tremerebbe dalle fondamenta.
Le stesse persone attente e bene informate che determinarono il suo
successo sarebbero pronte a denunciare il suo tradimento. Poche,
all’inizio. Ma il granello di un’opinione credibile nella rete può
diventare velocemente una valanga. Quelli di Google non possono non
saperlo. Se l’avessero dimenticato, sarebbero pericolosamente stupidi.
Fra le bizzarre polemiche ci sono quelle che vogliono trattare Google
come una “casa editrice”. In alcune delle sue molteplici attività può
diventare qualcosa di simile. Ma, in quello che rimane il suo ruolo
principale, non lo è.
Si tratta, ovviamente, di soldi. Di chi vuole tassare i guadagni che
Google (come altri) ottiene con la pubblicità – o mettere in difficoltà
un concorrente.
Mi sembra probabile (o almeno spero) che quei tentativi falliscano.
Nell’ipotesi che riuscissero, a perderci non sarebbero le imprese
multinazionali (che potrebbero operare da altre loro sedi). Né Google,
che manterrebbe la maggior parte delle sue entrate – e per il poco che
resta potrebbe rinunciare all’Italia ancora più facilmente che alla
Cina. Il danno sarebbe per le imprese italiane – e anche per i lettori,
privati di una fonte non invasiva di informazioni “commerciali”
(chiaramente riconoscibili come tali) che talvolta possono essere utili.
* * *
Per “grosso” che possa sembrare, nella prospettiva di oggi, questo
episodio in realtà è solo una minuscola vicenda nel millenario conflitto
fra la libertà di informazione e di opinione e i perenni tentativi di
controllo e (comunque travestita) censura.
Non facciamoci illusioni. I veri, attenti, ostinati, consapevoli
difensori della libertà (oggi come sempre) sono pochi. Ma da quella
minuscola pattuglia dipende molto del nostro futuro. Qualcuno famoso,
molti sconosciuti alla storia di tutti i tempi e alle cronache di ogni
giorno. Ma senza di loro cadremmo profondamente nell’oscurità e nelle
atrocità della decadenza.
È giusto e importante preoccuparsi dei problemi dell’ambiente. Ma
sarebbe pericoloso dimenticare l’ecologia della cultura – e
l’insidioso potere della
stupidità.
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