Non contente del famigerato Patto di San Remo, le major dell’audiovisivo chiedono di fare ancora peggio: data retention e distacco immediato degli abbonamenti internet. Senza nemmeno il controllo di un magistrato.
Non contente dell’approvazione del famigerato “Patto di San Remo”, il 16 giugno 2006 le maggiori associazioni del settore dell’audiovisivo hanno inviato ai ministeri per i beni e le attività culturali, comunicazioni e innovazione una lettera per esercitare ulteriori pressioni sul codice deontologico degli internet provider, predisposto in attuazione appunto del “Patto di San Remo”. Ritengono queste associazioni che il codice in questione - peraltro non ancora pubblicamente disponibile - si limiti a ripetere quanto già stabilito dalla legge vigente (già a loro sfacciatamente favorevole), senza fare “qualcosa in più” per la “lotta alla pirateria”. Ma il “qualcosa in più” al quale si riferiscono costoro si traduce, praticamente, nel fatto che gli internet provider dovrebbero costringere i propri utenti a sopportare: intercettazioni preventive, filtraggio dei contenuti, data retention e “taglio” della linea internet a fronte della semplice richiesta dei “titolari dei diritti” e prima che un giudice abbia stabilito l’eventuale violazione di legge.
Si tratta evidentemente di una pretesa inaccettabile e basata sull’arroganza di chi antepone la tutela dei propri interessi privati al rispetto dei più elmentari principi di civiltà del diritto. ALCEI è da dieci anni in prima linea nell’invocare il rispetto della legge, ma non può tollerare che vengano approvate norme di qualsiasi tipo (come la legge sul diritto d’autore e del Patto di San Remo) che con la scusa di proteggere “specifici interessi” pregiudicano i (già gravemente lesi) diritti garantiti dalla Costituzione a tutti i cittadini.
I “titolari dei diritti” hanno inspiegabilmente avuto accesso diretto a documenti di un gruppo di lavoro istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, intervenendo nella predisposizione del codice degli ISP (prova ne sia che nella loro lettera del 16 giugno, dimostrano chiaramente di essere stati “parte attiva” in tutto il processo lamentando addirittura che gli internet provider non avrebbero recepito, se non in minima parte, le loro indicazioni”. Ma nessun esponente della società civile - associazioni di utenti, consumantori e quant altri - ha avuto analoga possibilità. E’ stato approvato il principio della “legiferazione privata”?
I titolari dei diritti pretendono “ancorchè in assenza di un vincolo di legge” l’attuazione unilaterale da parte degli internet provider di forme di controllo sulle informazioni e sui dati trasmessi dagli utenti. Come detto in apertura di questo comunicato, si tratta di una pretesa inaccettabile e illegale.
Innanzi tutto, nel regime attuale, gli ISP devono necessariamente denunciare gli utenti che vengono segnalati come autori di transazioni P2P. L’attuale legge sul diritto d’autore prevede, infatti, la perseguibilità d’ufficio dei reati di duplicazione e diffusione di opere protette. Questo significa che l’internet provider, una volta ricevuta la segnalazione di un possibile illecito, deve obbligatoriamente segnalare il fatto all’autorità giudiziaria non potendo limitarsi a “rimproverare” l’utente dandogli una seconda possibilità.
Nemmeno è accettabile che gli ISP attivino unilateralmente sistemi di controllo dell’utilizzo dell’internet da parte degli utenti. Si tratta di una lesione insanabile del diritto alla segretezza delle comunicazioni e della riservatezza personale, non giustificato da esigenze di ordine pubblico (come nel caso delle leggi speciali emanate negli “anni di piombo”).
E’ un’opinione condivisa fra gli ISP che qualsiasi intervento sulle azioni degli utenti richiede una preventiva modifica della legge sul diritto d’autore e sulle parti del DLGV 70/2003 che si occupano della responsabilità dei provider. Se (come ALCEI propone da anni), venisse meno l’obbligo di denuncia a carico degli ISP, se ci fosse un’ampia decriminalizzazione dei reati attualmente previsti dalla legge sul diritto d’auore, e se i reati “supersititi” fossero perseguibili “a querela di parte” (cioè solo se i titolari dei diritti segnalano il fatto alla magistratura) si potrebbero forse adottare forme più flessibili di gestione dei rapporti fra utenti della rete, internet provider e titolari dei diritti. Ma questi ultimi non vogliono una modifica di questo tipo, perché altrimenti perderebbero il loro “esercito privatizzato” (le forze di polizia che, ad oggi, devono per forza procedere alle indagini ogni volta che ricevono una segnalazione).