Un interessante articolo
di Simonetta Lavagnini prende spunto da alcune mie note su questa rivista - Illegittimità
delle limitazioni alla circolazione del software - e offre una visione
critica alle mie posizioni sull'illiceità delle condizioni nelle licenze OEM
che impediscono di trasferire il software su macchine diverse da quella di
originale installazione.
La garbata trattazione dell'autrice a mio parere non convince, non tanto (e non
solo) perché giunge a conclusioni non condivisibili, ma per i principi da cui
parte. Uno di essi riguarda la natura stessa del copyright, inteso come diritto
di copia, e il cosiddetto principio di esaurimento, da cui mi piace trarre
spunto per una discussione più ampia della semplice polemica.
La prima affermazione sulla quale mi sembra di dover appuntare il più
radicale dei disaccordi è quella secondo cui la circolazione del diritto
d'autore, successivamente all'acquisto di una copia del lavoro protetto, possa e
debba avvenire unicamente attraverso la circolazione materiale della copia
intesa in senso rigorosamente fisico (il “corpus mechanicum”). La
dimostrazione di ciò sarebbe che l'ordinamento considererebbe sempre illecito
trarre un'ulteriore copia, salva la possibilità di fare eccezionalmente una
copia a fini di backup, ma su consenso del titolare e dietro la corresponsione
di un compenso.
La dimostrazione, per dire poco, non convince. Il compenso di cui si parla è
in realtà una vera e propria accisa (levy) che viene imposta su tutti i
supporti di registrazione, indipendentemente dal fatto che il supporto vada a
registrare contenuti protetti da copyright o in pubblico dominio, soggetti a
licenza “proprietaria” o a licenze più o meno libere, musica o software,
contenuti altrui o propri. Siccome io il diritto lo pago anche sui supporti nei
quali registro i miei scritti (di cui detengo il copyright), mi pare dubbio che
tale esazione sia un né un “corrispettivo” né “aggiuntivo” di alcun
genere: se così fosse non dovrei pagare me stesso per qualcosa che io stesso ho
il diritto di fare, e comunque il compenso lo percepirei io. Ma di quei soldi
non ho mai visto una lira.
In realtà il fondamento vero dell'imposizione è quello di compensare gli
autori per gli abusi che si fanno degli “usi liberi”, non di pagare per un
diritto.
Sappiamo troppo bene che trarre conseguenze di ordine generale dalle
disposizioni fiscali (e questa lo è) è operazione quantomeno rischiosa. È in
genere più semplice concludere che dietro alle disposizioni fiscali si celino
motivazioni di gettito e tuttalpiù antielusive. Anche il caso in esame non mi
pare fare eccezioni (se non perché i soldi non vanno al fisco, ma a privati!).
Da un punto di vista logico, se la dimostrazione è criticabile, non per
questo necessariamente il principio enunciato è inesatto. Dove la teoria si
dimostra fallace è proprio nell'identificare il supporto come il fondamento
stesso del diritto, stabilendo un'equivalenza assoluta tra copia e diritto. Ha
ragione l'autrice quando ricorda come tale principio ha radicate ragioni
storiche, ma il fatto che vi sia una tradizione in tal senso non giustifica che
oggi si debba perpetuare tale tradizione. Oggi i contenuti soggetti a copyright
sono in larga parte dematerializzati, non dipendono da un supporto fisico
determinato. Il software, certamente, non lo fa.
A volte il supporto nemmeno esiste, ce lo mette l'acquirente, come per la
musica scaricata da Internet. Come la mettiamo? Dobbiamo dire “attenzione a
come scaricate la musica (i filmati, il software) perché una volta che l'avete
scaricato su un supporto, scordatevi di sentire la musica usando un supporto
diverso”? Una parte dell'industria dei contenuti vorrebbe così. Vorrebbe che
se scarico una canzone in un lettore portatile, non possa registrarla su un CD e
sentirmela in macchina. Dovrei pagare una seconda volta, per la stessa canzone.
E magari una terza per mettere la canzone su un computer e usarla come
sottofondo quando faccio vedere le foto delle vacanze alla famiglia. E così
via.
Tutto ciò non ha senso per la musica, tantomeno ha senso per il software. A
differenza dei contenuti autorali, il software non ha una chance che è
una di essere usufruita più o meno direttamente sul supporto. Il software è
una sequenza di istruzioni e di dati che vengono passati a un elaboratore
perché esegua dei compiti. Tali istruzioni, per avere una qualsiasi utilità,
devono essere lette da un dispositivo di lettura del supporto, caricate in uno
spazio di memoria (dunque copiate), passate a un'unità di elaborazione
per essere processate, il risultato viene caricato in un altro spazio di
memoria, e così via per le istruzioni successive. In questo il supporto è solo
il punto di partenza, nemmeno necessario (pensiamo al software veicolato via
web, tipo i servizi di webmail).
Il computer non è un mezzo di distribuzione del software, al contrario: il
software è il mezzo per far funzionare un computer. Certo, da una
multinazionale del software ci si può aspettare di avere una visione
software-centrica. Tuttavia, da ogni punto di vista possibile, un utente compra
un computer, soprattutto un PC, come un attrezzo multipotenziale, in cui non ha
alcuna importanza il software in sé, ma le funzionalità che il software
consente. L'utente può essere contento se vi è del software precaricato, così
si evita l'incomodo di installarselo. Ma non conosco nessuno che compra un
computer solo perché sopra vi è del software. Mentre un CD musicale senza
musica può servire al massimo come sottobicchiere, un computer senza software
ha perfettamente senso, anche se oggi sembra impossibile acquistarne uno.
Inoltre, oggi come oggi, è praticamente impossibile che il software precaricato
all'origine dal produttore del computer rimarrà lo stesso quando il computer
verrà abbandonato, tra service pack e upgrade vari, cambi di sistema operativo,
installazione di nuovo software. E potremmo abbondare con esempi che confutano
l'equazione computer = supporto del software.
Fin qui si può pensare che si tratti di un'innocua discussione sul sesso
degli angeli. Nient'affatto. È un argomento molto, molto più importante.
Reintroduciamo il concetto di esaurimento. Esso, nell'accezione usuale, vuole
che una volta che una copia di un opera coperta da diritto d'autore viene
venduta all'utente finale, il titolare perde il diritto di controllare
l'ulteriore circolazione di quella copia. Ciò significa, in poche parole, che
se io compro un libro, la “licenza” che viene incorporata in quella copia
deve poter circolare con la copia stessa, senza che il titolare del diritto
possa mettere parola (le parti non possono convenire niente di diverso).
Veniamo alle “versioni OEM” del software. Il principio di esaurimento si
applica anche a queste versioni? Il sillogismo della legge è rigoroso: tutto il
software legittimamente acquistato soggiace, il software OEM è legittimamente
acquistato, il software OEM soggiace. Il principio di esaurimento si applica
anche al software OEM.
E qui viene l'importanza della distinzione. Si dice: ma se per vendere il
diritto sull'opera-libro devo vendere il libro, e il tutto viene presidiato dal
diritto di controllare le copie ulteriori (se non posso fare la copia del libro,
devo proprio vendere e consegnare il supporto perché il diritto passi), per
vendere il diritto sull'opera-software debbo vendere il supporto su cui la copia
è originalmente fornita. Per cui se vendo una copia del software il cui
supporto è il computer, solo vendendo il computer posso cedere il diritto sulla
copia. Siccome quando ho comprato il software, questo era su un computer, il
computer è il supporto. Il computer è il “licensed device” (ciò è
detto a chiare lettere sulla licenza di Vista). Non sono io che compro il
diritto di usare il software, io compro un computer che ha lui la licenza
di usare il software. In italiano si dovrebbe dire “esso”, ma siccome la
titolarità dei diritti è attribuita solo alle persone fisiche e giuridiche,
non può che essere o un lui, o una lei.
E qui sta la furbata. Poiché non è possibile contraddire il principio di
esaurimento, perché è un principio fondamentale del diritto d'autore, si cerca
di zavorrare il principio, fondendolo con qualcosa di molto più grande. Siccome
la circolazione del diritto deve avvenire con il supporto, facciamo finta che il
computer sia il supporto, allora il diritto circola solo con questo il computer.
Questa proprio sta alla pari con “it's not a bug, it's a feature”.
Parafrasando: “it's not a computer, it's a storage medium”.
Poco sopra ho affermato, riportando un pensiero altrui, che il diritto circola
sul supporto su cui la copia è originalmente fornita (si noti l'enfasi).
Nessuno mi ha dato però una dimostrazione di questo enunciato, che rifiuto. Un
tale enunciato dimostra tutta la sua fallacia in un mondo in cui le opere, siano
esse autorali che software, sono in larga parte dematerializzate.
L'oggetto dei contratti di licenza di software (incluse le licenze pubbliche,
che non ritengo essere necessariamente contratti) e dei contenuti
autorali deve essere considerato un bene giuridico, non un oggetto materiale. In
tali contratti la causa risiede nel fatto che si cede un titolo di utilizzo
personale, non certo l'oggetto-supporto. L'oggetto immediato di tale diritto è
un bene il cui valore è creato in modo pressoché totale della scarsità
artificiale del bene introdotta dal divieto di copia. Tale oggetto per sua
natura sarebbe invece replicabile ad libitum e dunque infinitamente
disponibile e inconsumabile. È ciò che attribuisce un valore di scambio al
software (almeno, a quello proprietario). Dunque anche la circolazione ulteriore
ha come oggetto il bene giuridico, non certo e non tanto la copia fisica, che
nel caso del software potrebbe benissimo non esistere. In tutto ciò non è
rilevante il fatto che la copia sia originale oppure no, ma se il cedente
ha originalmente acquistato il diritto legittimamente e il trasferimento avviene
a titolo definitivo, spogliandosi il cedente dalla possibilità di continuare a
usare il bene immateriale (se si facesse il contrario, ciò costituirebbe una
copia illecita).
Ma l'originalità del supporto in tutto ciò ha solo la funzione di rendere
facile la prova di tale trasferimento. Facile, non unica, come giustamente ha
deciso il Tribunale di Bolzano in un famoso caso di cui si è trattato su questa
rivista [link: http://www.interlex.it/testi/giurisprudenza/bz050331.htm].
Il software non cambia se lo acquisisco scaricandolo da Internet, se vado in un
negozio e compro un DVD, se me lo trovo installato sul computer quando lo
compro, nuovo o usato. Quello che ne faccio non cambia, il suo valore non
cambia. Sostenere che la forma di distribuzione del software faccia alcuna
differenza, per cui se lo compro in occasione dell'acquisto di un PC che di per
sé potrebbe anche esserne privo, allora lo posso usare solo su quel computer,
perché quel computer ne è diventato, per una metamorfosi del tutto
innaturale, semplicemente il supporto o il “dispositivo licenziato” mi
sembra un sofisma inaccettabile.
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