La nuova legge francese sul diritto d’autore è denominata
DADVSI (Droit d’Auteur et Droit Visins dans la Societé de l’Information,
diritto d’autore e diritti connessi nella società dell’informazione).
I principali punti trattati da tale legge di riforma, che emenda la legge
francese sul diritto d’autore, sono tra i più delicati dei recenti dibattiti
sul rapporto tra contenuti digitali e proprietà intellettuale – argomenti
discussi, tra l’altro, al recente Forum OCSE di Roma – e riguardano due temi
fondamentali:
a) l’interoperabilità, in particolare l’interoperabilità tra sistemi di
Digital Rights Management;
b) il rapporto tra sanzioni e diritti, specie per quanto riguarda il
peer-to-peer.
In questa breve nota, si discuterà come la “vicina” (normativamente
e geograficamente) Francia ha ritenuto di affrontare i due temi appena
menzionati e come l’approccio prescelto, se calato nel contesto italiano,
potrebbe generare problemi sul piano del mercato e della regolamentazione.
La normativa in questione è stata approvata dalla camera bassa del Parlamento
(Assemblea Nazionale) ed è stata successivamente emendata al Senato e ora
ritorna all’esame dell’Assemblea Nazionale (è possibile seguire i lavori su
http://www.assemblee-nationale.fr/12/dossiers/031206.asp)
per quanto riguarda le parti emendate.
Si ricorderanno le polemiche che seguirono l’approvazione
da parte dell’Assemblea Nazionale del primo testo, che conteneva una radicale
previsione per quanto riguarda l’interoperabilità dei sistemi di Digital
Rights Management – quelli, per capirsi, che regolano la possibilità di
trasferire e scambiare contenuti multimediali protetti - e per quanto riguarda
il sistema di sanzioni previsto per il peer-to-peer, profondamente innovativo.
Il Senato ha ora ritenuto di effettuare alcune modifiche, sulla scorta dei
dibattiti che sono sorti, puntando l’attenzione soprattutto sulla parte che
riguarda l’interoperabilità. Vediamo nel dettaglio cosa prevede allo stato la
normativa in questione.
Scorrendo il testo, rileviamo incidentalmente che una delle
prime norme che si incontra riconosce il diritto alla copia privata per un ampia
categoria di disabili mentali, sensoriali e cognitivi. Il problema esiste anche
in Italia e la soluzione adottata potrebbe forse essere presa a modello.
Venendo direttamente al tema dell’interoperabilità, la normativa francese
stabilisce quanto segue:
Una misura di protezione è definita “efficace” dove
esista “un controllo da parte del titolare dei diritti, grazie all’applicazione
di un codice d’accesso, di un procedimento di protezione quale il criptaggio,
la codifica o altra trasformazione dell’oggetto della protezione oppure di un
meccanismo di controllo della copia che consegua detto obiettivo di protezione.
Viene esplicitamente affermato che protocolli, formati,
codifiche da soli non costituiscono misure tecnologiche di protezione. La vera
novità, rispetto alla versione dell’Assemblea Nazionale, è costituita dall’introduzione
di una autorità di regolazione delle misure tecnologiche, che vigila sul fatto
che l’applicazione di una misura tecnologica non abbia come conseguenza, per
il fatto “della loro reciproca incompatibilità o della loro incapacità di
interoperare” di introdurre limitazioni aggiuntive nell’utilizzo rispetto a
quelle che intendeva introdurre il titolare dei diritti.
Ciò vuol dire che la non interoperabilità sarà consentita solo in quanto non
leda i titolari dei diritti e pone in una ideale scala di importanza prima la
volontà del titolare dei diritti rispetto all’uso che dell’opera dell’ingegno
deve essere fatto e poi la protezione del modello di business adottato per
diffondere l’opera dell’ingegno stessa.
Il regime appena descritto rappresenta un temperamento. Il
testo precedente alle modifiche era il seguente, ben più drastico:
Le misure tecnologiche non devono esprimersi
nell'ostacolare l'interoperabilità. Le misure tecniche non possono
rappresentare un ostacolo al libero utilizzo dell'opera o del contenuto protetto
(art. 7 comma 4 del progetto di legge Assemblea Nazionale prima lettura)
(...)
Nessuno può vietare la pubblicazione del codice sorgente e della documentazione
tecnica della porzione di un software indipendente che interagisce per scopi
legali con una misura di protezione tecnologica (art. 7 ultimo comma
progetto di legge Assemblea Nazionale prima lettura)
La conseguenza delle disposizioni appena viste sarebbe stata
che grandi multinazionali, operanti anche sul mercato francese, quali Apple,
Sony e Microsoft, si sarebbero viste – quale immediata conseguenza - imporre l’obbligo
di rendere pubbliche le parti proprietarie dei loro sofisticati sistemi di
Digital Rights Management. Attualmente i modelli di business appena citati
possono continuare ad esistere, salvi i temperamenti che deciderà, caso per
caso, l’autorità di cui si è detto prima.
L’autorità avrebbe anche varie altre competenze. In particolare, chi desidera
rendere il proprio sistema di misure tecnologiche “interoperabile” con
altro/altri, si può rivolgere a tale organismo per ottenere le specifiche di
protocollo ed i sorgenti.
Viene allora attivata una sorta di procedura di mediazione in
cui l’autorità cerca di mediare un accordo tra i due soggetti volto ad
assicurare l’interoperabilità e le relative condizioni economiche.
In difetto di accordo di conciliazione, l’autorità ha potere di ingiunzione
in materia, cercando di evitare un pregiudizio nella propria decisione al
titolare dei diritti.
Occorre dire che non tutti possono effettuare una richiesta di
interoperabilità: occorre essere editori di software, costruttori di sistemi o
service provider: la domanda, insomma, è qualificata.
Rispetto alla prima versione della legge sul diritto d’autore francese si è
quindi optato per un approccio molto più strutturato e sicuramente più
difficile da liquidare con argomenti basati sulla anticoncorrenzialità.
Si ricordi che la forma che si intende istituire in Francia
è solo una delle declinazioni possibili della categoria “DRM interoperabili”.
Il problema di tale approccio risiede nella bontà del funzionamento dell’organo
controllore deputato a regolarlo. Altre soluzioni sono incentrate sulla
tecnologia.
In particolare, un diverso approccio, propugnato anche dal Digital Media Project
(www.dmpf.org), è, in generale, quello di istituire un protocollo “terzo”
che si occupi di trasportare i contenuti da una piattaforma DRM all’altra.
Ciò preserverebbe l’esistenza di modelli di business e relativi formati “proprietari”
(e quindi la concorrenza) ma assicurerebbe, appunto, la cosiddetta “interoperabilità”.
Un modello come quello appena descritto sarebbe probabilmente immune da tendenze
e orientamenti dell’autorità regolatrice, consentendo al contempo ad ognuno di
giocare la propria strategia commerciale.
E’ di tutta evidenza che la battaglia, all’interno di
ciascuno “store” di contenuti digitali, sia commerciale: Microsoft ha
annunciato di aver approntato il proprio store con condizioni economiche
non del tutto sovrapponibili a quelle di Apple, sua principale concorrente. D’altra
parte il consumo dei contenuti digitali dipende anche dalla struttura della
normativa sulle sanzioni e da quella, in genere, sui diritti.
Come si diceva, la normativa francese cambia molto anche a
questo riguardo. La nuova normativa vedrebbe la copia privata come “eccezione”
e non come diritto primario, l’autorità dovrebbe regolare il numero di copie
private consentito dietro richiesta dei titolari dei diritti (anche qui con un
sistema di conciliazione).
Questo sembra il primo passo verso l’abolizione totale della copia privata che
dovrebbe essere, ad avviso di molti, il punto di partenza per una disciplina dei
contenuti digitali in sintonia con i principi della convergenza delle reti e dei
servizi.
Proibire la copia privata non significa infatti abolirla, il fenomeno
continuerà ad esistere.
Quello che occorre trovare – lo si ribadisce – è una
mediazione per cui il fenomeno rimanga entro accettabili limiti di legalità e
non divenga il punto debole della normativa, a giustificazione di atti di
pirateria su larga scala.
In questo senso è necessario che in Italia non trovino spazio concezioni per
cui l’utente acquisisce una “copia”, non ulteriormente riproducibile e non
un “diritto a detenere una copia” dell’opera dell’ingegno.
A tutela del diritto assoluto a controllare la circolazione dell’opera la
normativa francese pone un formidabile apparato di sanzioni:
- i fornitori di contenuti hanno il diritto di proteggere le opere dell’ingegno
da essi distribuite con misure tecniche di protezione e DRM che, la cui
rimozione/inabilitazione, comporta sanzioni che vanno da ammende pari a 30,000
Euro e sei mesi di pena detentiva per i fornitori di sistemi di cracking a multa
di 750 euro per chi usa i suddetti sistemi;
- i sistemi DRM (questo è il paradosso!) dovranno consentire l’esercizio del
diritto alla copia privata, che può invece essere limitato in assenza di DRM,
verso qualsiasi device scelto dal consumatore.
Sembra quindi illegale una forma di protezione come quella in
essere sui sistemi PVR (personal video recorder) proprietari protetti da DRM
MySky o britannico Sky+ e occorrerà approfondire la legalità dei sistemi di
DRM in uso su supporti quali i DVD e i videogiochi per Playstation, Nintendo e
altre consolle similari. Il software è escluso espressamente dall’applicazione
del regime dell’interoperabilità “ex lege”.
La violazione del diritto d’autore per quanto riguarda gli audiovisivi, se
commessa con l’ausilio di sistemi peer-to-peer è sanzionata forfettariamente
nella misura di 38 EURO (download) e 150 euro (upload). Occorre tuttavia la
flagranza di reato.
Tale approccio è, con tutta probabilità, da imputarsi all’entusiasmo
generato dalla proposta di istituire un canone forfettario per prelevare
contenuti peer-to-peer, che aveva condotto all’approvazione di un testo di
legge in questo senso da parte di uno dei due rami del Parlamento francese.
Tuttavia, chi volesse leggere una completa apertura francese a politiche
liberali sul fronte della proprietà intellettuale è presto smentito dal
rilevare, tra le molte ipotesi previste, quali siano le sanzioni per chi il
peer-to-peer rende possibile: la sanzione arriva a tre anni di prigione e
300.000 EURO di multa per chi fabbrica software peer-to-peer o incita al loro
uso attraverso pubblicità (con l’esclusione di software per la collaborazione
scientifica).
Si mantiene dunque una distinzione tra il lato “utente” e
il lato “business”: il reato di violazione del diritto d’autore è
personale mentre, analogamente a quanto stabilito nella Decisione Grokster, gli
editori di software “sciemment” (sono i software con i quali è
possibile realizzare peer-to-peer e, in generale, violazione del diritto d’autore)
sono civilmente e penalmente responsabili degli usi del proprio creato.
La normativa francese manca delle procedure, mututate dalla direttiva E-commerce
(notice and takedown, notice and notice and terminate), che
avrebbero potuto introdurre maggiore certezza nella gestione in rete dei
contenuti digitali.
Pertanto, ammesso che la normativa entri in vigore e si arrivi a un improbabile
mercato dominato dai soli fornitori di contenuti, questi ultimi non
risolverebbero comunque il problema del peer-to-peer.
In una prospettiva italiana occorre considerare che la legge
francese dichiaratamente vuole attuare la direttiva 2001/29/CE e, dunque, non
deve essere vista come una normativa “isolata” nel quadro comunitario. Ma
una normativa di uno Stato membro avrebbe dovuto tener conto di esperienze
analoghe degli Stati confinanti.
Non si è invece tenuto conto della esperienza italiana – certo non positiva
– del cosiddetto “decreto Urbani”, che conteneva disposizioni simili per
quanto riguarda il peer-to-peer.
Già all’indomani della pubblicazione del decreto Urbani, la gran parte dell’industria
e dell’utenza chiedeva modifiche.
Particolarmente invise erano le norme che criminalizzavano proprio la diffusione
delle conoscenze relative al peer-to-peer e si domandava, al contrario, la
regolamentazione attraverso procedure quali il “notice and takedown/notice
and notice” sopra citato.
In effetti, se si guarda a come, negli Stati Uniti, la AOL/Universal
sta sfruttando la tecnologia peer-to-peer per distribuire contenuti, si vede che
è possibile risparmiare sui costi all’utente della distribuzione: l’utente
“vende” capacità di redistribuire il contenuto al provider in cambio di un
prezzo del contenuto più basso.
Il nuovo Napster, inoltre, in via di start-up, promette miracoli: l’utente
potrà “vendere” i propri dischi alle case discografiche. Queste ultime
risparmieranno i costi della masterizzazione digitale e del riallestimento del
catalogo.
Se le case saranno interessate ad acquisire un brano o una playlist posseduta da
un utente pagheranno un prezzo predeterminato, altrimenti no. Brani di cui il
titolare dei diritti non vuole distribuzione all’interno del sistema saranno
esclusi, attraverso un sistema di “blacklist” dalla negoziazione.
Se si proibisce la “cultura del peer-to-peer”, come si
era fatto in Italia e come sembra avverrà in Francia, si proibiscono idee come
le due appena esposte, nel segno dell’innovazione e della cultura della
legalità.
L’Italia, su questo fronte ha particolare bisogno di trovare legalità e
regolamentazione “positiva” e non “proibizionista”.
In questo senso, un campo su cui ragionare è quello della promozione dei beni
culturali digitali: esperienze come Google Print, che consente l’accesso a
molteplici biblioteche statunitensi, dovrebbero trovare cittadinanza anche in
Italia.
Sono tuttavia impedite da fattori regolamentari legati alla gestione dei
diritti. Infatti, la necessità per le biblioteche di corrispondere
agli editori forme di compensazione per le opere fotocopiate non ha ancora
trovato una equivalenza completa dal punto di vista digitale. E’ una questione
da approfondire.
E’ anche questa una forma di “Digital Rights’ Management”, di
particolare interesse per il nostro ordinamento, vista la ricchezza del
patrimonio culturale italiano.
Insomma, il dibattito sul diritto d’autore è aperto. Dai nostri vicini di
Oltralpe possiamo prendere qualche spunto, ma è meglio non farsi prendere la
mano…
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