Al di là delle dichiarazioni di principio e dei discorsi sui massimi sistemi,
uno dei problemi concreti che limita la diffusione della firma digitale è la
estrema farraginosità dei meccanismi di utilizzo concretamente adottati dai
certificatori e la sostanziale impossibilità di usare sistemi operativi diversi
da Windows.
Guardiamo la prima faccia del problema: il sito di Infocamere - pardon - Infocert è agli antipodi di
qualsiasi più elementare concetto di accessibilità, usabilità e immediatezza
di comunicazione. In più, e questo ci porta alla seconda faccia del problema,
contiene informazioni aggiornate soltanto per l'uso di Dike sotto Windows,
tralasciando gli altri sistemi operativi. Certo, non mi aspetto di trovare
istruzioni per usare la firma elettronica sotto AmigaOS, ma almeno per MacOSX,
Linux e FreeBSD...
Esempi concreti: la sezione dedicata all'uso di Firefox è ferma alla
versione 1.5 (siamo alla 3.0) e non fornisce alcuna indicazione sul modo di
usare questo browser in ambiente OS X. Dike 3.0 per OS X funziona "al primo
colpo" su un computer Apple in cui L'ultima versione del sistema operativo
è installata "da zero". Non funziona, invece, se l'ultima release OS
X è installata come upgrade. Inoltre, l'ultima versione di Safari (il browser
proprietario di Apple) va in crash quando cerca di accedere alla smartcard per
leggere il certificato. Ma di tutto questo non c'è traccia sul sito di Infocert.
La versione per Linux di Dike è ferma alla 1.2,. Questa palese
discriminazione tecnologica fa si che utenti - come il sottoscritto - che non si
servono di software Microsoft siano sostanzialmente esclusi dal concreto
utilizzo della firma digitale. È un problema che si è manifestato fin
dall'inizio della (dis)avventura "firma digitale" e che, a quanto
pare, nessuno ha voluto seriamente affrontare e risolvere. Con buona pace degli
interessi dei cittadini.
Quando poi l’uso della firma elettronica e dei certificati qualificati si
incrocia (o meglio, si scontra) con servizi che ne presuppongono il
funzionamento, le cose non migliorano. Un esempio eclatante è Polisweb, il
sistema di accesso telematico alla cancellerie civili dei tribunali. L’avvocato
che vuole consultare lo stato dei propri fascicoli non deve far altro che
collegarsi al sistema (curiosamente, passando per gateway di imprese private),
lasciare che il software lo “riconosca” accedendo al certificato contenuto
nella smart-card, e cercare le informazioni che gli occorrono.
Peccato, però, che se l’avvocato intende far compiere queste ricerche a
qualche collaboratore, l’unica possibilità che ha a disposizione è quella di
fare una delega scritta e mandare il collega in cancelleria. Sì, perchè
Polisweb è progettato per concedere l’accesso ai fascicoli solo agli avvocati
che compaiono nel mandato. L’alternativa - illecita quanto quella di
consegnare la smart-card al commercialista - sarebbe quella di dare la “tesserina
magica” al “visurista” di studio (scenario illegale, ripeto, ma altamente
probabile).
E evidente, dunque che il problema della firma elettronica all’italiana non
è più tecnologico o normativo (quello che è fatto, è fatto - purtroppo) ma
applicativo. Non avere pensato a sistema di installazione/rimozione dei software
in grado di compiere operazioni alquanto banali in modo rapido e semplice senza
richiedere all’utente cognizioni superiori alla media, non essersi posti il
problema di come funziona concretamente un’azienda o un ente professionale per
facilitare loro la vita, non avere sviluppato una comunicazione adeguata sull’uso
corretto dello strumento (e molto altro ci sarebbe da dire) sono azioni ben più
pericolose per la diffusione dello strumento di qualche sua fantasiosa
vulnerabilità frutto di contorsionismo verbal-tecnologico.
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