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Firma digitale

Se la firma digitale diventa un'odissea

di Andrea Monti – 02.07.08

 
Al di là delle dichiarazioni di principio e dei discorsi sui massimi sistemi, uno dei problemi concreti che limita la diffusione della firma digitale è la estrema farraginosità dei meccanismi di utilizzo concretamente adottati dai certificatori e la sostanziale impossibilità di usare sistemi operativi diversi da Windows.

Guardiamo la prima faccia del problema: il sito di Infocamere - pardon - Infocert è agli antipodi di qualsiasi più elementare concetto di accessibilità, usabilità e immediatezza di comunicazione. In più, e questo ci porta alla seconda faccia del problema, contiene informazioni aggiornate soltanto per l'uso di Dike sotto Windows, tralasciando gli altri sistemi operativi. Certo, non mi aspetto di trovare istruzioni per usare la firma elettronica sotto AmigaOS, ma almeno per MacOSX, Linux e FreeBSD...

Esempi concreti: la sezione dedicata all'uso di Firefox è ferma alla versione 1.5 (siamo alla 3.0) e non fornisce alcuna indicazione sul modo di usare questo browser in ambiente OS X. Dike 3.0 per OS X funziona "al primo colpo" su un computer Apple in cui L'ultima versione del sistema operativo è installata "da zero". Non funziona, invece, se l'ultima release OS X è installata come upgrade. Inoltre, l'ultima versione di Safari (il browser proprietario di Apple) va in crash quando cerca di accedere alla smartcard per leggere il certificato. Ma di tutto questo non c'è traccia sul sito di Infocert.

La versione per Linux di Dike è ferma alla 1.2,. Questa palese discriminazione tecnologica fa si che utenti - come il sottoscritto - che non si servono di software Microsoft siano sostanzialmente esclusi dal concreto utilizzo della firma digitale. È un problema che si è manifestato fin dall'inizio della (dis)avventura "firma digitale" e che, a quanto pare, nessuno ha voluto seriamente affrontare e risolvere. Con buona pace degli interessi dei cittadini.

Quando poi l’uso della firma elettronica e dei certificati qualificati si incrocia (o meglio, si scontra) con servizi che ne presuppongono il funzionamento, le cose non migliorano. Un esempio eclatante è Polisweb, il sistema di accesso telematico alla cancellerie civili dei tribunali. L’avvocato che vuole consultare lo stato dei propri fascicoli non deve far altro che collegarsi al sistema (curiosamente, passando per gateway di imprese private), lasciare che il software lo “riconosca” accedendo al certificato contenuto nella smart-card, e cercare le informazioni che gli occorrono.

Peccato, però, che se l’avvocato intende far compiere queste ricerche a qualche collaboratore, l’unica possibilità che ha a disposizione è quella di fare una delega scritta e mandare il collega in cancelleria. Sì, perchè Polisweb è progettato per concedere l’accesso ai fascicoli solo agli avvocati che compaiono nel mandato. L’alternativa - illecita quanto quella di consegnare la smart-card al commercialista - sarebbe quella di dare la “tesserina magica” al “visurista” di studio (scenario illegale, ripeto, ma altamente probabile).

E evidente, dunque che il problema della firma elettronica all’italiana non è più tecnologico o normativo (quello che è fatto, è fatto - purtroppo) ma applicativo. Non avere pensato a sistema di installazione/rimozione dei software in grado di compiere operazioni alquanto banali in modo rapido e semplice senza richiedere all’utente cognizioni superiori alla media, non essersi posti il problema di come funziona concretamente un’azienda o un ente professionale per facilitare loro la vita, non avere sviluppato una comunicazione adeguata sull’uso corretto dello strumento (e molto altro ci sarebbe da dire) sono azioni ben più pericolose per la diffusione dello strumento di qualche sua fantasiosa vulnerabilità frutto di contorsionismo verbal-tecnologico.

 

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