Se non sorgeranno difficoltà impreviste, il Governo varerà il codice
dell'amministrazione digitale entro il termine previsto dalla legge-delega, il
prossimo 9 marzo. Ma, accogliendo il suggerimento del Consiglio di Stato,
entrerà in vigore tra alcuni mesi, per avere il tempo di raccogliere
osservazioni e critiche e intervenire, se necessario, con decreti correttivi
(peraltro già previsti dalla stessa legge-delega). Una procedura singolare, se vogliamo,
che avrà come risultato l'entrata in vigore di un testo già rattoppato, con le
conseguenti difficoltà per gli operatori di reperire a distanza di tempo il
testo vigente (vedi,a questo proposito, La Gazzetta on line di
può e si deve fare, di una settimana fa). Forse lo stesso
risultato si sarebbe potuto raggiungere se le bozze del codice fossero state
pubblicate durante la preparazione, invece che elaborate nelle segrete stanze
dei ministeri: un altro vecchio discorso. Comunque, vista la complessità della materia e
il tempo a
disposizione, la Corte "promuove" lo schema governativo, come si
legge nelle premesse del parere:
Si tratta di un'opera di indubbio rilievo sistematico, che può fornire ai
cittadini, alle imprese e alle stesse pubbliche amministrazioni uno strumento
normativo ampio, tale da orientare in maniera organica i processi di innovazione
in atto.
Uno strumento, quello del codice, che - vista la assoluta peculiarità della
materia trattata - può contribuire non soltanto alla erogazione di servizi più
efficienti e veloci, ma anche a consentire forme innovative di partecipazione
alla vita amministrativa e politica. Che può avvicinare i destinatari
dell'innovazione (i cittadini, le imprese, la società civile) ai suoi
protagonisti (gli amministratori, i funzionari e gli impiegati pubblici), nella
nuova "amministrazione digitale", attraverso un intervento più
tradizionale e di chiara leggibilità come è un codice, ossia una raccolta
organica di disposizioni legislative.
La Sezione ritiene, quindi, di dover dare atto alla riferente Amministrazione di
essersi data carico con impegno di tale opera generale di riordino - indicata,
sin dal parere n. 7904/04, come l'unica in grado di attuare compiutamente la
delega in questione - e di avere effettuato uno sforzo consistente per
accelerare il più possibile, fino quasi a forzare, il cambiamento e
l'innovazione...
Però al Consiglio di Stato non piacciono diversi punti dello schema. Per
alcuni aspetti le critiche sono condivisibili: per esempio, quando si osserva
che andrebbero comprese nel codice le discipline del sistema pubblico di
connettività, della posta certificata e dell'indice generale delle anagrafi.
Anche le osservazioni sulla "perimetrazione" del codice e sui
collegamenti con il testo unico sulla documentazione amministrativa appaiono
fondate (vedi, per esempio Amministrazione digitale: cosa resta della
funzione documentaria di Maria Guercio).
Ancora condivisibili appaiono le considerazioni al punto 12.2, nel quale si
criticano le affermazioni inutili o pleonastiche - in alcuni casi non coerenti
con la natura del codice - contenute negli articoli da 3 a 13.
Meno condivisibili, o quantomeno meritevoli di una discussione più ampia,
sono le osservazioni sui rischi di un digital divide che può essere determinato dalla
completa digitalizzazione dell'amministrazione. Il tema non può essere
considerato solo nell'ambito dei rapporti tra cittadini e PA: ne parleremo nei
prossimi numeri.
Per gli aspetti più spiccatamente pubblicistici si veda La PA digitale nel parere del Consiglio di Stato di Carmelo Giurdanella ed Elio
Guarnaccia, in questo stesso numero).
Vediamo ora la parte che più ci interessa, quella relativa al documento
informatico. Dispiace dover dire che qui il Consiglio di Stato ha combinato un pasticcio
che si pone sullo stesso piano di quello creato dal legislatore con il
recepimento della direttiva europea (DLgs 10/02).
Se lo schema di codice ha un merito, è quello di fare
chiarezza su molti punti che nella normativa precedente erano confusi e avevano
generato interpretazioni fantasiose. Ora, se qualcuno prendesse sul serio le
note del Consiglio in materia di firma digitale, si ricadrebbe nella confusione più totale.
Nel valutare le norme sulla firma digitale (articolo 17 e seguenti dello
schema) giudici di Palazzo Spada partono da impostazioni teoriche che appaiono superate, come quella
del documento informatico come genus sé stante, che
richiederebbe una disciplina particolare, diversa da quella del documento
tradizionale. Questa teoria, avanzata da qualcuno nelle prime discussioni sulla firma
digitale, non è priva di fondamento, ma nella sostanza si rivela del tutto
inutile, perché si è visto che l'equiparazione del documento informatico con
firma digitale forte al documento cartaceo con firma autografa consente di
mantenere praticamente intatto il nostro ordinamento civilistico. E il Consiglio
contraddice le sue stesse considerazioni in materia di atti e documenti, quando
suggerisce una modifica dell'art. 18, c. 2, con l'espressione "Al documento informatico sottoscritto
con firma digitale si applica l'articolo 2702 c.c.", ritornando così di
fatto alla vecchia e chiarissima disposizione del DPR 513/97.
Appare invece non privo di fondamento (e ne abbiamo discusso su queste pagine, vedi Il disconoscimento della
firma tra "diritto" e "fatto")
il passaggio in cui si osserva che il meccanismo introdotto della presunzione
della riconducibilità dell'utilizzo del dispositivo della firma al titolare,
salvo che sia data prova contraria, indebolisce la suddetta equiparazione e
genera il dubbio che la fiducia nell'atto informatico, che in questi anni è
andata diffondendosi, possa notevolmente ridursi.
Alla stessa conclusione era giunto Gianni Buonomo nella sua prima analisi
dello schema governativo (Effetti probatori: si torna
ai principi del processo civile - 2): "...perché utilizzare, per la sottoscrizione di un contratto, la
firma digitale (che non può essere disconosciuta) al posto del supporto
cartaceo che è sottoposto al normale (e più equilibrato) regime del possibile
disconoscimento in giudizio?".
Ma c'è un punto in cui sembra di rilevare una insufficiente conoscenza degli
aspetti tecnologici della
firma digitale. E' quello (10.4) in cui si rileva come la sicurezza sulla
firma digitale appaia, allo stato, temporanea, con la conseguente necessità di
modificare la chiave privata piuttosto frequentemente.... Risultano, però, allo
studio sistemi più sicuri (quali impronte digitali, impronte retiniche, etc.)...
dovrebbe, pertanto, valutarsi l'opportunità di inserire fin d'ora previsioni
che limitino la normativa introdotta fino al momento in cui sarà tecnicamente
possibile imprimere agli atti e ai documenti informatici impronte
antropometriche (o, in ogni caso, sistemi più sicuri di quelli ora previsti),
che consentano senza possibilità di errore di stabilire la provenienza, la
firma, etc.
Ora, come tutti dovrebbero ormai dovrebbero sapere, per accertare l'integrità e la provenienza di un documento
informatico non c'è oggi (né appare all'orizzonte) un sistema più sicuro della firma
digitale basata sulla crittografia a chiavi
asimmetriche. I dati biometrici (e non "antropometrici", che sono
un'altra cosa!) se "impressi" su un documento possono facilmente
essere catturati e riportati su un altro. Essi invece possono servire, in una
prospettiva ragionevole di tempo, per attivare il dispositivo di firma insieme o
invece dell'insicuro PIN, offrendo così la certezza che la firma è stata
generata proprio dal titolare. L'impronta biometrica non ha senso se non è
connessa in qualche modo a una procedura di firma digitale.
Devono essere invece considerate con attenzione le osservazioni espresse al
punto 12.1, sulle definizioni che aprono il codice. Il problema è determinato
dalla confusa direttiva 1999/93/CE e dalla sua pessima traduzione in italiano.
La perplessità dei giudici di Palazzo Spada nel constatare la confusione tra
gli aggettivi "elettronico" e "digitale" è giustificata e deriva dalle
imprecisioni terminologiche della direttiva. Ma anche loro, nel
"contare" i tipi di firma, cadono nel comune errore di ritenere che la
firma digitale sia una specie particolare di firma elettronica qualificata e nel concludere
che vi sono due tipi di firma - quella semplice e quella qualificata - della
quale la firma digitale sarebbe una specie.
E' il momento di prendere atto della realtà: la procedura informatica che
consente di accertare l'integrità del documento e la sua provenienza è una e
una sola: la firma digitale (e non "elettronica": vedi Firme digitali
e... analogie
elettroniche di Corrado Giustozzi e Attenzione: sono tutte firme
"digitali"). I diversi "livelli" di questa unica
procedura informatica, e i conseguenti diversi effetti giuridici, sono legati al grado di
certezza nell'identificazione del titolare e di sicurezza nella procedura di
generazione.
Abbia dunque il legislatore il coraggio di buttare nella spazzatura l'aggettivo
"elettronica" e parli di "firma digitale", nelle due specie
di "semplice" e "qualificata", chiarendo nelle definizioni
le corrispondenze con le "segnature elettroniche" comunitarie.
La chiarezza di questa soluzione, con la sua totale rispondenza alla realtà
tecnologica e ai suoi prevedibili sviluppi, eviterà che anche persone di
altissima cultura giuridica, come i giudici del Consiglio di Stato, incorrano in
infortuni interpretativi come quelli contenuti nel parere sullo schema di codice
dell'amministrazione digitale.
Se poi, nei secoli a venire, qualcuno inventerà una firma "non
digitale" per validare i documenti informatici, ci sarà tutto il tempo per
adeguare la normativa.
Post-scriptum. A proposito della necessità di correggere le
definizioni contenute nell'art. 1 dello
schema del codice, va rilevato come la "autenticazione informatica"
che appare al primo posto (misteriosamente aggiunta nell'ultima bozza) non
compaia in alcun punto del testo. Vista la sua incongruenza tecnica, giuridica e
sistematica, deve essere cancellata.
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