Il nuovo progetto di codice dell'amministrazione digitale, recentemente
approvato dal Governo ed ora all'esame del Consiglio di Stato e delle varie
commissioni parlamentari, reca alcune rilevanti novità in tema di forma ed
efficacia del documento informatico (preferisco utilizzare questa
classificazione, a mio avviso più corretta secondo la tradizione giuridica
italiana, piuttosto che parlare di efficacia della firma digitale). Ciò
discende direttamente dalla delega legislativa che era stata attribuita al
Governo con la legge di semplificazione 2003, la quale prevedeva espressamente
la facoltà introdurre modifiche di riordino della normativa in tema di
documento informatico e firma elettronica, con lo scopo di graduare gli effetti
giuridici riconosciuti alle varie tipologie di firme elettroniche e digitali in
funzione del loro grado di sicurezza.
Prima di commentare l'articolo 18, che contiene una nuova disciplina dell'efficacia
del documento sottoscritto con firma elettronica avanzata o digitale, occorre
fare un breve excursus storico e rivisitare le norme che si sono
succedute nel tempo, indagando le ragioni che sottendevano a tali scelte
legislative.
Come a tutti noto, il DPR 513/97 stabiliva all'art. 5 (Efficacia probatoria
del documento informatico) che: "1. Il documento informatico,
sottoscritto con firma digitale ai sensi dell'articolo 10, ha efficacia di
scrittura privata ai sensi dell'articolo 2702 del codice civile".
Tale impostazione, scelta dei primi studiosi che si erano occupati di questo
delicato aspetto delle firme elettroniche (principalmente D. Limone e F. Cocco),
era, per certi versi, obbligata. Da un lato, vi era stata la scelta di politica
legislativa operata con la cosiddetta "Bassanini 1" (legge 59/1997), in
base alla quale si era stabilito di replicare le categorie giuridiche esistenti
nel diritto tradizionale anche per il ciberspazio, anziché crearne di
nuove. Dall'altro lato, vi era il codice civile italiano che offriva una
ripartizione, per così dire, su quattro livelli, ad efficacia probatoria
crescente, all'interno dei quali si era ritenuto inevitabile, per una sorta di
"parallelismo assoluto", ricomprendere i "nuovi fenomeni digitali":
- "documento informatico non sottoscritto" quale "riproduzione meccanica"
(art. 2712 cod. civ.);
- "documento informatico sottoscritto con firma digitale" quale "scrittura
privata" (art. 2702 cod. civ.);
- "documento informatico sottoscritto con firma digitale davanti al notaio o
pubblico ufficiale" quale "scrittura privata autenticata" (art. 2703 cod.
civ.);
- "atto pubblico" (art. 2700 cod. civ.) per il quale non veniva previsto
(forse perché non ritenuto possibile) un equivalente basato su documento
informatico.
Tale scelta iniziale appariva senza dubbio molto logica, molto suggestiva.
Inoltre, semplificazione non da poco, vi era un solo tipo di firma digitale da
disciplinare.
Il testo unico in materia di documentazione amministrativa nella versione del
2000 non aveva inizialmente introdotto novità in tema di
forma ed efficacia del documento informatico. Stabiliva, infatti, l'art.10 che "3. Il documento informatico, sottoscritto con firma digitale
ai sensi dell'art. 23, ha l'efficacia di scrittura privata ai sensi dell'art.
2702 cod. civ." (tralasciamo lo "svarione" sulle cosiddette "riproduzioni meccaniche"
contenuto nell' comma 1).
Solo successivamente, in sede di attuazione della direttiva 1999/93/CE, con
la modifica dell'art. 10 del DPR 445/2000 introdotta dal decreto legislativo
10 gennaio 2002, n. 10, si è avuta una rilevantissima differenza, laddove il
comma 3 è stato modificato nel modo seguente: "3. Il documento informatico,
quando è sottoscritto con firma digitale o con un altro tipo di firma
elettronica avanzata, e la firma è basata su di un certificato qualificato ed
è generata mediante un dispositivo per la creazione di una firma sicura, fa
inoltre piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle
dichiarazioni da chi l'ha sottoscritto".
Questa differenza ha naturalmente determinato un dibattito accesissimo tra
gli studiosi delle infrastrutture di sicurezza a chiave pubblica.
L'argomento principe che suffragava la scelta del legislatore in sede d'attuazione
della direttiva, come si evince chiaramente dalla relazione d'accompagnamento
al decreto legislativo 10/2002, è di natura eminentemente pratica.
In estrema sintesi, il ragionamento era questo. Poiché, in base all'art. 2702
cod. civ., una scrittura privata (cartacea) fa piena prova, fino a querela di
falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l'ha sottoscritta, se
questa è considerata legalmente riconosciuta; e poiché la scrittura (cartacea)
è legalmente considerata come riconosciuta, tra le varie ipotesi, se al termine
del processo di verificazione di cui all'art. 214 e seguenti del codice di
procedura civile, la grafia contenuta nel documento, sulla base dell'analisi
delle scritture di comparazione di provenienza certa, risulta attribuibile all'autore
(l'art. 220 c.p.c. recita esattamente scrittura o sottoscrizione
di mano della parte che l'ha negata); assumendo che la verifica della firma digitale, passaggio indispensabile per appurare l'esistenza e la
validità di una firma digitale apposta ad un documento informatico, fosse l'equivalente
del culmine della verificazione giudiziale di un documento cartaceo, il
legislatore del DPR 445/2000 aveva concluso che la firma digitale doveva
considerarsi sempre come verificata quanto a provenienza.
Pertanto, concludendo questo sillogismo normativo, il legislatore aveva
stabilito che se la firma digitale era certa quanto a provenienza (in quanto
diversamente non sarebbe nemmeno esistita), rendendosi la verificazione inutile,
in quanto implicita nella procedura di validazione della firma digitale,
ricorrendo de facto uno dei presupposti in base ai quali il documento
(informatico) poteva essere ritenuto come legalmente riconosciuto, allora non
poteva che discenderne l'efficacia fino a querela di falso.
Si noti come la considerazione della sostanziale inutilità della
verificazione (intesa come il procedimento previsto dalle norme processuali
civilistiche) applicata alla firma digitale era stata sostenuta in dottrina da
alcuni valenti studiosi, tra cui R. Zagami, il quale aveva ipotizzato, già in
sede di commento del DPR 513/97, un'efficacia di fatto più simile alla
scrittura privata autenticata ex art. 2703 c.c.
Da molti si è gridato allo "scandalo", sostenendo che l'attribuzione di
un'efficacia fino querela di falso fosse un assurdo giuridico, anche perché
vi era difetto d'intervento del soggetto che può attribuire la fede pubblica,
vale a dire il notaio o il pubblico ufficiale. Tra i sostenitori di questa tesi
vi sono, con varie argomentazioni, E. Santangelo e M. Nastri, U. Bechini, M.
Cammarata e E. Maccarone ed in misura più attenuata G. Finocchiaro.
L'attuazione della direttiva europea 1999/93/CE rendeva vieppiù complicato
il quadro giuridico in tema di forma ed efficacia del documento informatico
anche per altri motivi. Come noto, la direttiva europea risultava il frutto di
un vistoso compromesso tra Paesi che propugnavano l'utilizzo di firme
cosiddette "forti"
(Italia, Spagna, Germania e Francia) e Paesi che propugnavano il ricorso a firme
"deboli" (soprattutto i Paesi scandinavi), peggiorato dalla scelta
(obbligatoria per un atto normativo comunitario) dell'approccio "tecnologicamente
neutro", che non solo vanificava illuminate scelte normative italiane, ma
riscriveva financo le definizioni che il legislatore italiano aveva già
adottato.
Da qui nasceva la previsione di due categorie di firme: le elettroniche e le
elettroniche avanzate, con le firme digitali del DPR 513/97 che rientravano in
qualche modo nella categoria delle firme elettroniche avanzate.
A questo punto, dunque, il recepimento della direttiva, in un certo modo, "sparigliava"
il "parallelismo assoluto" su cui si era basato il legislatore del DPR
513/97, dato che nella tripartizione classificatoria sopra accennata:
riproduzione meccanica (documento informatico non sottoscritto), scrittura
privata (documento informatico con firma digitale) e scrittura privata
autenticata (documento informatico con firma digitale apposta davanti al notaio
o pubblico ufficiale), introduceva un quarto elemento, documento informatico
sottoscritto con firma elettronica (non avanzata), per il quale si trattava
letteralmente di "inventarsi" una soluzione, come quando si hanno quattro
invitati ma solo tre posti a sedere a tavola.
Come noto, per le firme elettroniche, la soluzione è stata quella di
riconoscere, con vistosa e reiterata contraddittorietà nell'ambito di un solo
comma, il secondo, dell'art. 10 del DPR 445/2000: efficacia di forma scritta;
nel contempo, assenza di efficacia sul piano probatorio salvo rinviare la
determinazione degli effetti giuridici alla decisione del giudice sulla base
delle caratteristiche oggettive di qualità e sicurezza; ed infine ancora,
efficacia ai fini dell'assolvimento dell'obbligo di tenuta delle scritture
contabili obbligatorie (ex art. 2214 e seguenti del codice civile e da ogni
altra analoga disposizione legislativa o regolamentare).
Sarebbe interessante capire per quale motivo un documento non ritenuto
adeguato in linea di principio a costituire mezzo di prova, salvo valutazione
favorevole del giudice quanto all'adeguatezza delle caratteristiche oggettive
di qualità e sicurezza, veniva invece considerato dal legislatore dell'attuazione
della direttiva come sufficiente ed adeguato ai fini della tenuta delle
scritture contabili.
Detto questo, il riconoscimento dell'efficacia fino a querela di falso di un
documento informatico sottoscritto con firma digitale o firma elettronica
qualificata potrebbe apparire per certi versi un male minore rispetto alla
soluzione del DPR 513/97. Vediamo perché, e subito dopo vediamo perché la
soluzione prevista dal nuovo codice dell'amministrazione digitale mi sembra
preferibile alle altre due soluzioni "contendenti in campo". Tesi, antitesi
e sintesi.
Sul piano logico, e terminologico, occorre osservare che l'efficacia dell'art.
10 del DPR 445/2000 (mi riferirò qui solo a documenti informatici sottoscritti
con firma digitale o con firma elettronica qualificata) non sia mai stata
classificata dal legislatore come integrante una scrittura privata autenticata
(di cui all'art. 2703 cod. civ.). Questo anche in funzione del difetto di
soggettività ad attribuire la fede pubblica. Meglio sarebbe dire che un
documento sottoscritto digitalmente viene considerato come legalmente
riconosciuto in base all'art. 2702 cod. civ. (a tutti è nota la curiosa
formulazione del codice civile a proposito della scrittura privata a concetto
invertito, si parla di riconoscimento per attribuire la possibilità del
disconoscimento).
Tuttavia, tale constatazione potrebbe risultare debole ed inconferente,
giacché gli effetti pratici sono gli stessi di quelli previsti dall'art. 2703
cod. civ. che disciplina invece la scrittura privata autenticata.
Piuttosto, mi sembra che valga la pena di notare come, tra l'efficacia di
scrittura privata e l'efficacia fino a querela di falso, quest'ultima, fino
ad approvazione del nuovo codice dell'amministrazione digitale, meglio abbia
tutelato lo sviluppo della giovane e purtroppo debole e minacciata vita della
firma digitale.
Mi spiego meglio. A mio parere, l'efficacia di scrittura privata ex art.
2702 cod. civ. appare insufficiente e qualora fosse ripristinata tout court
rischierebbe di determinare la morte (mediante processo civile: un "ossimoro"
in questo senso) della firma digitale.
La ragione è semplice: come accennato, nel nostro ordinamento non sono state
create norme specifiche per disciplinare i fenomeni dell'informatica e del ciberspazio,
preferendo ricorrere alle categorie giuridiche preesistenti. Soprattutto, da un
punto di vista processuale, non è stato introdotta alcuna norma specifica per
disciplinare le modalità di disconoscimento e di verificazione di un documento
informatico sottoscritto digitalmente.
Se ciò è vero, e se consideriamo che uno dei principi base del nostro
processo civile è l'onere della prova a carico dell'attore stabilito dall'art.
99 cod. proc. civ. (onus probandi incumbit ei qui dicit), allora risulta
chiaro che in caso di disconoscimento della provenienza di un documento
sottoscritto digitalmente (si noti, più propriamente che non disconoscimento
della firma digitale) da parte del titolare, allora chi ha prodotto il documento
(l'attore) dovrà dare dimostrazione della provenienza, sopportando l'onere
della prova per intero. Solo successivamente alla vittoriosa dimostrazione di
provenienza il documento potrà essere considerato riconosciuto e valido fino a
querela di falso.
Ora, il fatto è che, a differenza di un documento cartaceo con
sottoscrizione olografa, dove la grafia è la diretta espressione psicosomatica
del firmatario (abbiamo ricordato la felice espressione del codice di rito "di
mano della parte che l'ha negata"), e dove l'accertamento del perito serve
a stabilire l'abbinamento grafia-autore, nel caso di sottoscrizione digitale l'operazione
di apposizione di una firma digitale può avvenire solo tramite l'utilizzo di
un mezzo materiale, il dispositivo sicuro per la creazione di firma. In altri
termini, la firma digitale o elettronica qualificata non fluisce direttamente
dalla mano del firmatario, bensì risulta dall'utilizzo di un corpus
mechanicus, indipendentemente dalla "mano" che l'ha utilizzata.
Orbene, se si applica per intero il principio dell'onere della prova a
carico all'attore, quale stabilito dall'art. 99 c.p.c., allora ne consegue
che l'attore dovrebbe dare dimostrazione, a fini della provenienza del
documento, non solo della validità del certificato, o meglio della validità
della chiave pubblica al momento della sottoscrizione, bensì anche dell'imputabilità
al titolare medesimo dell'utilizzo del dispositivo di firma. Prova a dir poco
impossibile per l'attore, qualora la sottoscrizione digitale non sia avvenuta
alla presenza di un terzo (pubblico ufficiale o notaio?).
Temo, dunque, che un ripristino dell'efficacia di scrittura privata
rischierebbe di rendere facilmente, troppo facilmente, disconoscibile un
documento sottoscritto con firma digitale, che così degraderebbe - nei fatti
- al rango di riproduzione meccanica. Ed a questo punto il cosiddetto "non
ripudio", tanto caro agli informatici che si occupano di questa materia,
sarebbe una chimera irraggiungibile ed il valore di una firma digitale
equivarrebbe a nulla. E se così dovesse accadere, temo che della firma digitale
non interesserebbe più a nessuno dei potenziali utilizzatori e tanto meno alle
loro controparti.
Se, dunque, l'efficacia di scrittura privata potrebbe essere considerata
troppo debole (in assenza di correttivi della legge processuale, precisamente
sul procedimento di verificazione), è altrettanto vero che anche l'efficacia
fino a querela di falso potrebbe essere considerata eccessiva. Anche in questo
caso mi spiego meglio.
Se è vero che, nel caso di efficacia di scrittura privata, il titolare potrebbe
semplicemente disconoscere la provenienza del documento e lasciare alla
controparte l'onere di provarla, nel caso di efficacia fino a querela di falso
è chiaro che spetterebbe al titolare della firma digitale o elettronica
qualificata l'onere di disconoscere con ogni mezzo la provenienza del
documento informatico prodotto in giudizio.
Ebbene, come ha acutamente notato su queste colonne il capo dell'ufficio
legislativo del Dipartimento per l'innovazione e le tecnologie, avvocato
Enrico De Giovanni nell'intervista del 4 aprile 2003,
liberarsi degli effetti di una firma digitale o elettronica qualificata apposta
illecitamente potrebbe risultare eccessivamente oneroso per il titolare. Egli
dovrebbe, infatti, promuovere, tramite querela di falso, un apposito
procedimento da celebrarsi davanti al Tribunale in composizione collegiale, con
l'intervento del pubblico ministero ai sensi dell'art. 221 e segg. c.p.c. Insomma, con un procedimento soggetto ad una certa durata, comunque dotato
di rilevanza, giacché si dibatterebbe di fede pubblica, durante il quale
rischierebbe in ogni modo di subire - medio tempore - gli effetti
dell'utilizzo illecito prodottisi comunque prima del procedimento incidentale
che risulterebbe necessario sollevare (pagamenti, trascrizioni, pignoramenti,
ecc.).
Considerando appieno tutti gli aspetti di questa situazione, dove l'efficacia
di scrittura privata appare troppo "debole" e l'efficacia fino a querela
di falso troppo "forte" appare dunque inevitabile approdare ad una nuova
soluzione.
In effetti, a ben vedere, il punto critico di tutta la questione dell'efficacia
della firma digitale e del suo disconoscimento risiede proprio in questo: da un
lato nel rischio di rendere eccessivamente facile (per il titolare di un
certificato) il disconoscimento della sottoscrizione digitale e, dall'altro
lato, nel rischio di rendere quasi impossibile (per l'attore che producesse un
documento sottoscritto digitalmente) fornire la prova dell'utilizzo del
dispositivo di sottoscrizione recante la chiave privata abbinata alla chiave
pubblica contenuta nel relativo certificato.
Logico quindi pensare che un ritorno alla "efficacia di scrittura privata",
in modo da correggere le tante anomalie della "efficacia fino a querela di
falso", deve essere accompagnato da un "correttivo", tale da impedire al
titolare un disconoscimento di comodo ed al contempo in grado di alleviare la
controparte dell'onere di una prova quasi impossibile, in modo tale da evitare
di svuotare di significato la firma digitale.
A mio modo di vedere, si tratta dunque di temperare il regime probatorio a
carico dell'attore, inserendo una presunzione d'attribuibilità dell'utilizzo
del dispositivo sicuro di firma in capo al titolare, salvo che questi provi il
contrario.
In questo modo si ritorna nell'ortodossia della classificazione giuridica
del codice civile italiano, si evita di scomodare la querela di falso e le
conseguenti implicazioni processual-civilistiche e si ottiene, inoltre, un "bilanciamento"
degli interessi delle parti.
In aggiunta, oltre a sgravare l'attore che produce un documento sottoscritto
digitalmente dell'onere della prova impossibile, si ottengono anche due
ulteriori vantaggi. Si consente al titolare, se necessario, di disconoscere la
provenienza del documento, o meglio dell'utilizzo del dispositivo di firma, in
modo anticipato, direttamente durante il processo ordinario di cognizione, con
indubbia economia di tempo ed attività giudiziale e difensiva; inoltre, si
fornisce al giudice di merito una chiave interpretativa chiara in materia di
disconoscimento della firma digitale ed elettronica qualificata, evitando di
coinvolgerlo in una valutazione che in qualche caso potrebbe avvenire anche non
considerando appieno tutti gli aspetti connessi al funzionamento tecnico e di
sicurezza ovvero che potrebbe portare a vistose disparità di valutazione da
parte di giudici diversi a parità di situazione.
In questo senso va letta favorevolmente la nuova disposizione contenuta nell'art.
18 (Valore probatorio del documento informatico sottoscritto) del nuovo codice
dell'amministrazione digitale, che sostituisce il comma 3 dell'art. 10 nel
modo seguente: "2. Il documento informatico, sottoscritto con firma digitale o
con un altro tipo di firma elettronica qualificata, ha l'efficacia prevista
dall'articolo 2702 del codice civile. L'utilizzo del dispositivo di
firma si presume riconducibile al titolare, salvo che sia data prova contraria."
La nuova formulazione mi sembra colga bene le esigenze che sopra ho espresso,
attui un buon bilanciamento tra gli interessi delle parti ed inoltre renda
equilibrato, in termini di oneri probatori, un eventuale fase di disconoscimento
del documento informatico sottoscritto con firma digitale o con firma
elettronica qualificata.
La parola ora passa alla giurisprudenza. Questa ci dovrà dare finalmente un
riscontro dell'applicazione concreta di questa costruzione giuridica nella
vita giudiziaria di tutti i giorni. Certo, tre cambi d'indirizzo in pochi anni
sono tanti; tuttavia sarebbe stato peggio non evolvere il pensiero giuridico e
non adattare le norme alla nuova realtà tecnica, anche alla luce della
conoscenza via via acquisita ed affinata in un campo senza dubbio nuovo.
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