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Le relazioni - 31

Brevetti software e massimi sistemi

di Carlo Piana* - 08.06.05
 

È inutile nasconderselo, i brevetti software sono una presenza alquanto ingombrante. Proprio in questi mesi in Europa si è al centro di un'aspra battaglia tra i fautori della liberalità massima e coloro che vi si oppongono, con lobby scatenate, scarsa attenzione alle regole procedimentali e disdoro della democrazia istituzionale (cosa che avviene, bisogna dirlo, per lo più in campo "a favore"). I lettori di questa rivista ne sono stati ottimamente informati. Ogni notizia in proposito rende più chiaro lo scenario che potremmo avere nel caso la direttiva sui brevetti andasse fino in fondo alla scelta di consentire sempre più i brevetti software.

Un esempio recentissimo: Nokia, che possiamo ascrivere al campo di coloro che stanno dalla parte della brevettabilità del software, pur con un certo distacco, ha appena rilasciato un "legally binding commitment" (impegno legalmente vincolante) a non avvalersi dei propri brevetti se e in quanto questi vengano violati da Linux (inteso come il kernel di GNU/Linux). Ciò offre molti spunti di ragionamento sul rapporto tra il software libero (di cui Linux è uno dei principali attori) e i brevetti.

Il valore dei brevetti e il significato della mossa di Nokia

Molti danno per persa la battaglia e prossima l'adozione della posizione più liberistica. Vi è una tale ondata pessimistica anche nel campo del software libero. Si è affacciata però una proposta che si propone di salvare i cavoli dei brevetti e la capra del software libero, ovvero di esentare dalla tutela dei brevetti, appunto, quest'ultimo. Personalmente non sono granché favorevole a tale via d'uscita, sia perché ritengo che la brevettabilità pura e semplice del software sia un male in sé, sia perché ritengo improbo lo sforzo di dare una definizione compiuta di software libero (od opensource, ancora peggio), sia - in ultimo - perché salvare la propria anima a discapito di quella dei più mi sembra disdicevole e poco elegante.

In tutto questo la mossa di Nokia suona come un passo avanti proprio nella direzione di esentare il software libero dalla tutela dei brevetti (e non è la prima a fare tale mossa, è stata preceduta ad esempio da IBM). Qualcuno potrebbe intenderla come un tentativo di spezzare il fronte degli anti-software-patents, ma personalmente preferisco considerarlo un atto di moderata saggezza e sano realismo. Tradizionalmente gli accordi di mutua desistenza rispetto alle pretese brevettuali (cross license agreement) venivano e vengono conclusi tra titolari di importanti portafogli brevettuali. In questo caso la desistenza è invece unilaterale (il software libero, in realtà, non ha un patrimonio di brevetti, ma "solo" copyright).

Nokia è un'impresa, come tale deve perseguire, ed è bene che persegua, obiettivi egoistici, per cui se sponsorizza con un atto unilaterale il software libero, rinunciando alla tutela dei suoi diritti, vuol dire che ne ha un giovamento. Esso può consistere, a priori, in uno o più dei seguenti casi:

* Il software libero è una realtà anche dal punto di vista dei "diritti di proprietà intellettuale" (per coloro a cui piace il termine), che vale la rinuncia alla tutela brevettuale quando vi contrasti; in altri termini, la possibilità di usare software libero per fini commerciali è talmente importante da dover dare qualcosa in cambio per favorire tale movimento.
* I brevetti vengono riconosciuti particolarmente deboli, per cui fare il beau geste di sorvolare, ora e in futuro, su loro violazioni equivale far buon viso a cattivo gioco, e si fa più bella figura.
* Si spera di ottenere vantaggi di immagine nella comunità degli sviluppatori, in modo da acquisire più sviluppo gratuito in parti del software estranei al nocciolo duro su cui si intende guadagnare, concentrando gli sforzi su quest'ultimo senza dover necessariamente pagare pedaggio in termini di licenze commerciali.

Probabilmente si tratta di un miscuglio di queste tre ragioni. Al di là delle considerazioni di tipo etico che è possibile trarre, è interessante la connotazione di valore che in due su tre di tali punti il software libero assume. Soprattutto mi sembra che si possa enucleare una possibile evoluzione, che contrasta con l'opinione comune. Si pensa usualmente che i brevetti possano portare alla fine del software libero, e sono sicuramente un grande ostacolo. Ma è anche possibile che tali brevetti, invece di rendere proprietario ciò che è pubblico, subiscano le conseguenze della forza del software libero - nella sua accezione più rivoluzionaria di "copyleft" - e che così nel conflitto degli opposti diritti si venga a creare una situazione in cui ciò che è privato diventi pubblico, perché altrimenti darwinianamente destinato all'estinzione. È successo lo stesso con Unix e con Netscape, il modello potrebbe ripetersi.

Un tentativo di qualificare il "legally binding commitment" con le categorie interne

Concludo con considerazioni meno politiche e più strettamente legali sulla natura dell'atto di Nokia. Come dicono i giuristi: quid iuris? È esso un contratto? Parrebbe di no, né si propone di esserlo. È piuttosto una manifestazione unilaterale di un proponimento, di cui si avvale chiunque ne sia il destinatario attuale o futuro. Si connota dunque per la genericità e per la pubblicità. Suona una campana? A me ricorda molto la GNU GPL, e in genere le licenze generali pubbliche, come anche le Creative Commons. È un impegno che non richiede adempimenti o accettazioni, né è indirizzato ad alcuno in particolare, semplicemente dispone di un diritto a determinate condizioni e in senso generale. I destinatari di tale comunicazione (ovvero la generalità dei consociati) si vedono attribuire direttamente una posizione giuridica soggettiva indifferenziata, ma propria e piena, da parte del titolare, e non semplicemente la possibilità di aderire a una convenzione, come nell'offerta pubblica.

Questo genere di atti sono una categoria di atti dispositivi di diritti che consistono più nella rinuncia pubblica a una parte quest'ultimi (ad esempio: i brevetti non vengono abbandonati, come pure sarebbe possibile, si rinuncia all'azione che danno, a determinate condizioni) che l'incontro di volontà, il consenso. Dunque resta difficile qualificarli come contratti. O se sono contratti, lo sono in un'accezione nuova, che non consente per la loro natura di avvalersi di molti, di quasi tutti gli istituti contrattuali (formazione, recesso, annullamento, cedibilità, risoluzione, rappresentanza, consensualità).

E' un campo affascinante, nuovo, quasi sconosciuto, affine al campo contrattuale, ma altro da esso, che sostituisce il "consenso" con la "pubblicità" o con l'apparenza per la genesi di una situazione vincolante. La cosa ha precedenti illustri nella simulazione, nella rappresentanza apparente e in generale nella tutela dell'affidamento, nei contratti con i consumatori (come il TAEG pubblicizzato per i contratti di credito a consumo), ma ancora più risalentemente nella dicatio ad publicum o nella dicatio ad cultum.
 

* Avvocato in Milano, studio legale Tamos Piana & Partners - www.avvocatinteam.com

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