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Le relazioni - 40

Scrittura telematica? Forma dell’atto e forma del documento

di Pasquale Russolillo* - 25.07.05
 

Nel parere(11995/04) espresso dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato sullo schema di codice dell’amministrazione digitale approvato dal Consiglio dei ministri in data 11 novembre 2004, si legge «gli artt. 17 e 18 non chiariscono se sia idonea forma scritta … ai sensi dell’art 1350 c.c., la scrittura con firma soltanto elettronica. Anzi l’articolo 18 sembra escludere tale possibilità, in quanto il secondo comma prevede il soddisfacimento della forma scritta solo per il documento (non per l’atto) con firma elettronica qualificata o firma digitale». Il testo delle due norme citate è rimasto inalterato, sebbene riportato agli artt. 20 e 21 del DLgs 7 marzo 2005, n. 82, con il quale il suddetto Codice è stato emanato.

La questione evidenziata dal Supremo consesso di giustizia amministrativa merita dunque di essere approfondita.
Secondo il CdS esisterebbe una scrittura telematica idonea a soddisfare il requisito della forma scritta del documento, ma non dell’atto. Occorre, dunque, partire dalla differenza tra atto e documento. Posto che per atto si intende una dichiarazione di volontà o di scienza, mentre il documento è la res sulla quale la scrittura è impressa, deve ritenersi che tra gli stessi c’è un rapporto di contenuto a contenente. Il documento è, dunque una delle possibili forme dell’atto. In altre parole la forma dell’atto altro non è che il modo in cui viene espresso.

La forma documentale nasce dall’esigenza di conservare la prova di un atto. Il documento ha, infatti, un’intrinseca capacità rappresentativa (è noto il brocardo verba volant scripta manent).
Affermando che, secondo il dettato del codice dell’amministrazione digitale, la scrittura privata telematica (recte il documento informatico munito di firma digitale) non può essere forma dell’atto, il CdS ha in sostanza detto che, allo stato, una dichiarazione di volontà o di scienza non può essere espressa con strumenti informatici.
È evidente che si tratta di un’asserzione assurda. Se l’inciso del parere in esame dovesse essere così inteso sarebbe espressione del più nero oscurantismo giuridico. Come dire “ciò che si vede attraverso il binocolo non è la realtà, ma è opera del demonio”.

Chi metterebbe mai in dubbio che per via telematica è possibile esprimere una volontà negoziale. Il commercio elettronico si basa appunto sulla forma elettronica.
In realtà ciò che i giudici di Palazzo Spada hanno inteso dire è che la formula usata dal legislatore all’art. 18 (ora art. 20 del Codice) sembra ridurre il valore formale del documento informatico sottoscritto con firma digitale alla sola forma-prova, non alla forma-atto. Il documento informatico avrebbe dunque in tal caso il valore della prova scritta., ma non integrerebbe la forma scritta ad substantiam. Non a caso è richiamato l’art. 1350 c.c.. In questa fattispecie la scrittura privata integra la forma scritta prevista quale elemento essenziale del contratto, vale a dire a pena di nullità ex art. 1325 e 1418 c.c..

Contro tale ricostruzione della norma argomento decisivo è la lettera della legge che parla di “requisito legale della forma scritta”. Espressione che per la sua genericità non può che intendersi riferita anche alla forma come requisito di validità del contratto. Il documento con firma digitale è dunque idoneo alla conclusione di atti formali (es. stipulazione di contratti di franchising, di locazione ad uso abitativo, bancari), nonché alla sottoscrizione di clausole vessatorie ed integra, senza dubbio, anche il requisito della forma ad probationem tantum previsto ad es. per i contratti di assicurazione, con la differenza che in tal caso un suo eventuale vizio non invalida il contratto, ma riduce la possibilità di provarne la stipulazione (in particolare esclude le prove testimoniali e presuntive).

Nel caso di contratti aventi ad oggetto il trasferimento o la costituzione di diritti reali su immobili (art. 1350 c.c.), il problema non è quello della conclusione del contratto per via telematica, ma quello della trascrizione che esige l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata (art. 2657 c.c.). Escluso che possa stipularsi un atto pubblico telematico, ostandovi le norme della legge notarile, che andrebbero adeguatamente “uploadate”, sarebbe però possibile valersi dell’autenticazione della firma digitale. Anche in questo caso, però il problema è di compatibilità con la disciplina dei registri immobiliari che non ammettono la registrazione di scritture private autenticate con strumenti informatici. Sembra, dunque, che, nell’ipotesi ad oggi futuribile, in cui si stipulasse un contratto avente ad oggetto immobili con l’uso della firma digitale autenticata, le parti debbano comunque ripetere il contratto nelle forme tradizionali. Ma si tratterebbe comunque di un atto ricognitivo di un contratto già concluso. 

Discorso completamente diverso per i documenti sottoscritti con firma elettronica non qualificata (il CdS usa l’espressione firma debole). Il codice dell’amministrazione digitale abbandona la strada seguita dal DLgs 10/2002, che aveva ritenuto le firme elettroniche non qualificate idonee a soddisfare il requisito della forma scritta, non ripetendo la tanto discussa disposizione dell’art. 10, 2° comma, del testo unico sulla documentazione amministrativa. È escluso, dunque, che un contratto formale possa essere concluso con tale modalità di sottoscrizione elettronica, idonea, invece, alla conclusione di atti a forma libera.

Non solo. L’art. 21, 1° comma del CAD non dice che il documento informatico con firma elettronica diversa da quella digitale è una prova scritta, ma che ha un valore probatorio liberamente valutabile, tenuto conto delle garanzie di sicurezza e qualità che la tecnica di sottoscrizione utilizzata offre.
Non una prova scritta, dunque, ma piuttosto una prova atipica, con valore probatorio analogo alle fonti di presunzione (tra la norma in esame e l’art. 2729 c.c. c’è più di un’affinità). L’attuale disciplina consente allora di superare a monte il discusso orientamento giurisprudenziale che, equiparando le e-mail a documenti informatici con firma elettronica debole, riteneva fossero prove scritte idonee a conseguire un decreto ingiuntivo ex art. 633 e 634 c.p.c..

Il parere del Consiglio di Stato evidenzia un’ulteriore questione che merita di essere almeno accennata. Si legge nel testo «l’idoneità della forma a conseguire un effetto si desume, secondo la dottrina, dall’art. 121 c.p.c., sulla strumentalità (idoneità allo scopo) delle forme. Si dovrebbe pertanto cercare di affrontare anche nel nuovo codice il tema del valore dell’atto adottato con scrittura telematica anche ove non sia munito di sottoscrizione, laddove sia conosciuto l’autore per la provenienza dal suo indirizzo elettronico, ovvero ove sia sottoscritto con firma elettronica c.d. debole». È possibile sintetizzare queste parole in un quesito. Come si applica alle scritture telematiche la regola della conservazione degli atti, considerata principio generale dell’ordinamento giuridico (cfr. artt. 121 c.p.c. e 1367 c.c.)?.

Il problema non si pone per la firma digitale apposta con certificato scaduto, revocato o sospeso. In tal caso il Codice è chiaro. L’art. 21, 2° comma, considera la sottoscrizione come non apposta. Ne consegue che, ove la scrittura privata è richiesta a pena di nullità, sarebbe pregiudicata la validità dell’atto, altrimenti, ferma restando la validità dello stesso, sarebbe esclusa soltanto l’ammissibilità in giudizio, ex art. 184 c.p.c., della prova documentale viziata.
Quid iuris per gli altri possibili vizi della firma digitale? Si pensi all’ipotesi di uso di un dispositivo non idoneo a generare una firma sicura, ovvero al rilascio del certificato da parte di un certificatore non qualificato. In questi casi la firma digitale subirebbe una deminutio capitis, diverrebbe cioè firma non qualificata. Si porrebbe allora il problema della sua validità sul piano negoziale.

Quanto all’atto che richiede la forma scritta ad substantiam, esso sarebbe sicuramente nullo, in quanto il principio di conservazione non può porsi in contrasto con le norme imperative sulla forma degli atti.
Neanche potrebbe operare una conversione formale. La tesi non poteva dirsi peregrina alla luce della previgente disciplina. La conversione formale è un’applicazione del principio di conservazione e consiste nel ritenere efficace un atto formale, pur privo di requisiti suoi propri, quando abbia i requisiti di altro atto idoneo a produrre i medesimi effetti (cfr. art. 607 c.c.). Sotto il vigore dell’art. 10, 2° comma TUDA, la regola della conversione formale avrebbe potuto portare alla seguente affermazione. Pur avendo subito la firma digitale una deminutio capitis, gli effetti dell’atto sarebbero conservati, in quanto, trasformandosi questa in firma elettronica non qualificata, avrebbe comunque soddisfatto il requisito della forma scritta.

Oggi non è più così, per cui l’atto formale sarebbe da ritenere nullo e improduttivo di effetti. Diverso il caso di atto non formale. In tal caso, infatti, esso conserverebbe i propri effetti e potrebbe essere provato in giudizio anche a mezzo della firma digitale viziata, la quale sarebbe comunque liberamente valutabile ex art, 21, 1° comma CAD. In tal caso, infatti, non potrebbe negarsi l’ammissibilità in giudizio della stessa come mezzo di prova. Ciò in quanto la legge considera non apposta la firma solo se basata su un certificato revocato, sospeso o scaduto, ma non quando presenti gli altri vizi indicati.
 

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