Continuano a rimbalzare da questa parte dell'oceano le notizie di sondaggi
americani secondo i quali gli intervistati si sarebbero dichiarati favorevoli
all'indebolimento della propria privacy anche in rete (legittimando gli
inutili Carnivore, Echelon e via discorrendo). La componente repressiva del
Parlamento americano non si è fatta sfuggire il momento favorevole (o ben lo
avrebbe potuto creare con un sapiente impiego delle società di relazioni
pubbliche) e si appresta a dare il "via libera" - e pare con il
consenso popolare - a key escrow, backdoor, monitoraggi
indiscriminati. Queste notizie giungono in Italia quasi "attenuate",
come se la cosa non ci riguardasse o se da noi problemi del genere non ci
fossero.
In realtà non è così. Anche in Italia, praticamente a partire dal giorno
del disastro, si sono "levati in volo" i falchi della repressione. E
quasi senza soluzione di continuità siamo arrivati ai telegiornali della sera
del 13 ottobre. Che hanno riportato una dichiarazione del Ministro dell'interno
Scajola secondo la quale (cito a memoria): dobbiamo abituarci ad essere un po'
meno liberi e un po' più controllati. Come se i due termini, anzi le due
"condizioni" fossero in qualche modo equivalenti o reciproche.
Non è vero. Certo, di questi tempi è forte la tentazione di "andare per
le vie brevi". Non preoccupandosi più di tanto - in nome della
"guerra al terrorismo" - di censure, abusi, e costrizione ingiusta dei
livelli di libertà raggiunti pagando prezzi spesso dolorosissimi. Ed è proprio
per questo che, anche nelle condizioni di oggi è importante non cedere a spinte
repressive che non facilitano la cattura dei criminali e vulnerano i diritti
delle persone.
Sotto questo profilo le dichiarazioni del Ministro dell'interno, così come
riportate dai mezzi di informazione non possono essere accettate.
Breve: "meno libertà" non è affatto sinonimo di "più
controlli".
Posso avere la stessa libertà, accettando maggiori controlli.
Posso essere privato della libertà lasciando invariati i controlli.
Viaggiando in macchina, a volte capita di essere fermati dalla Stradale o dai
Carabinieri per le verifiche di patente e libretto. Capita, tutto sommato,
raramente, ma tant'è.
Se lo Stato dovesse irrigidire le procedure, durante i miei viaggi verrei
fermato non una ma, poniamo, tre volte. Senza che però mi si impedisca di
circolare liberamente. (più controlli, uguale libertà).
Ammettiamo ora che lo Stato decida di vietare l'uso dell'automobile su certi
percorsi (fino ad ora considerati leciti) senza parallelamente aumentare il
numero di pattuglie per strada. Il risultato è che se voglio posso attraversare
le "zone proibite" ma se durante uno di quegli episodici e rari
momenti vengo individuato, allora pagherò la sanzione. (meno libertà, uguali
controlli).
La differenza fra le due situazioni è sottile ma sostanziale. Nel primo caso
non è in discussione un diritto acquisito ma, più semplicemente, la sua
modalità di esercizio. Nel secondo caso siamo di fronte ad un inaccettabile
arretramento sostanziale - e definitivo - della libertà individuale.
Nell'ottica della regolamentazione della modalità di esercizio di un diritto
"ben" vengano, allora, estensioni di poteri già attribuiti alle forze
dell'ordine, ma anche altrettante possibilità di reagire all'abuso proprio
in virtù di quei "diritti acquisiti". Tanto per fare un esempio: le
intercettazioni preventive (quelle senza l'autorizzazione del GIP) sono già
possibili nelle attività di contrasto alla mafia. Che le si estenda anche alle
fattispecie terroristiche, dando così la possibilità alle forze dell'ordine
di combattere efficacemente anche questo fenomeno. E senza con questo intaccare
la libertà delle persone.
Nelle parole di chi invoca minore libertà, invece, si sente solamente la
brama di "potere" fuori da ogni controllo e responsabilità. E non a
caso, sempre più spesso "torna a galla" il modello culturale della
"colpa per tipo d'autore", caratteristica del regime nazista. Che
consisteva nel ritenere responsabile un soggetto non per quello che aveva
commesso, ma per il modo in cui si presentava. Non "autore di un
furto", dunque, ma "ladro". Con la conseguenza che per accusare
qualcuno non era necessario avere le prove del fatto, ma più semplicemente
dimostrare che il "reo" aveva "tutte le caratteristiche" di
chi commette atti del genere.
Arturo Rocco, il padre del nostro codice penale, riuscì negli anni '30 -
quando la tutela della libertà individuale non era esattamente una priorità
- a mantenersi ad anni luce di distanza da queste concezioni repressive. Da
tempo, oggi, le cose sono cambiate. E sempre più spesso ascoltiamo
dichiarazioni preoccupanti che legittimano la creazione di "mostri".
Non è una consolazione constatare che non si tratta di un fenomeno solo
italiano. Qualche giorno fa Jeremy Greenstock, ambasciatore britannico all'ONU,
ha dichiarato: "Se qualcosa somiglia a un terrorista o fa un rumore come un
terrorista, è un terrorista, e sappiamo che cosa dobbiamo fare".
In questa cornice, allora, le parole del Ministro assumono una tinta molto più
fosca: quello che ci aspetta, infatti, sarà l'insieme delle due cose: più
controlli e meno libertà. O, se preferite, più repressione senza possibilità
di difendersi.
Sarebbe già grave se anche un solo paese occidentale prendesse questa
pericolosa deriva.
Tragico, se la soppressione dei diritti civili dovesse avere come garante la
comunità internazionale.