La vicenda della struttura di intelligence parallela che sarebbe stata
messa in piedi all’interno di Telecom Italia dai vertici della sicurezza offre
diversi spunti di riflessione.
Il primo: benché l’attenzione di media e politici sia concentrata sulle
intercettazioni più o meno abusive, sembra che una parte rilevante delle
attività “informative” abbia riguardato l’accesso ad archivi e data-base
riservati o addirittura nella disponibilità delle sole forze di polizia o dei
servizi di intelligence.
Il secondo: la spina dorsale della “struttura investigativa” sarebbe
stata costituita da appartenenti alle forze dell’ordine che, abusando della
loro qualifica, avrebbero utilizzato per fini illeciti il “privilegio
informativo” del quale erano titolari.
Il terzo: i sistemi informativi ai quali avrebbero avuto accesso gli
investigatori “privati” non prevedevano adeguati sistemi di controllo degli
accessi, non erano presidiati adeguatamente, oppure entrambe le cose.
Il quarto: la ristrutturazione frettolosamente disposta dai nuovi vertici
aziendali, che ha azzerato la struttura “security” della società ha
probabilmente messo il più grande operatore telefonico e internet italiano - e
dunque i suoi milioni di clienti - in condizione di essere un bersaglio
appetibile per malintenzionati che potrebbero approfittare dell’interregno.
Il quinto: contrariamente alla pubblicistica di settore (che vuole “hacker”,
“pirati” e “multinazionali del direct marketing” alla caccia dei nostri
dati personali), i presunti autori del più massiccio mal-trattamento di
informazioni (teoricamente) protette dalla legge sarebbero insider non
particolarmente dotati tecnicamente, e per di più appartenenti alle forze di
polizia e ai servizi di informazioni dai quali dovrebbe dipendere la sicurezza
dello Stato.
Il sesto spunto di riflessione – anche se apparentemente marginale –
riguarda i sequestri dei computer dei giornalisti. Sono dieci anni che si
denuncia l’abuso di questo metodo di indagine (condannato
anche dalla Corte di giustizia europea), ma solo ora che vengono toccati
interessi “forti” si levano alte grida di attentato alla libertà di
stampa.
Il che ci porta al settimo punto che è la vera nota tristemente dolente di
questa vicenda: la retorica del “fidatevi di noi, perché siamo i buoni”,
come giustificazione per l’aumento di poteri o l’adozione di “scorciatoie”
processuali non funziona più. Ovviamente il punto non è “sfiduciare” le
forze di polizia nel loro complesso.
Ma nello stesso tempo questa vicenda mette in evidenza - se le responsabilità
fossero accertate - che il problema del “controllare i controllori” è tutt’altro
che accademico. Soprattutto perché l’unico controllore attualmente “sul
mercato”, il Garante dei dati personali, tutto quello che è riuscito a fare
in otto anni di attività della struttura di intelligence parallela è
emettere un comunicato.
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