Una volta tanto ci siamo prontamente allineati all’Europa
più avanzata e civile, quella degli stati del Nord, per intenderci, anche se c’è
poco da andarne fieri. Nella terra dei lapponi è stata infatti adottata una
legge (definita dalla stampa “lex Nokia”) che consentirebbe di
controllare la posta elettronica dei dipendenti al fine di evitare spionaggi
industriali (il riferimento al colosso elettronico non è dunque casuale).
Qui in Italia la legge 15/09 (delega al Governo finalizzata
all'ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e
trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonché disposizioni integrative
delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro e
alla Corte dei conti) prevede:
all’articolo 1, comma 1, del codice in materia di protezione dei dati
personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, è
aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Le notizie concernenti lo svolgimento
delle prestazioni di chiunque sia addetto ad una funzione pubblica e la relativa
valutazione non sono oggetto di protezione della riservatezza personale».
La norma, che per la collocazione, l’ambiguità dei termini
adoperati ed il tenore suscita più di un dubbio interpretativo, pare proprio
“sintonizzata” con questa (almeno apparente) ondata di “revisionismo”.
Il Garante, che ha già il suo bel da fare tra moratorie al telemarketing
apparentemente giustificate da logiche occupazionali ed invasioni di telecamere
dettate da esigenze di sicurezza, dovrà quindi fronteggiare anche questa, che
pare solo l’ennesima (piccola) guerra di religione: privacy sì o privacy no.
Quasi che sia impossibile garantire la trasparenza dell’azione amministrativa
senza calpestare i diritti dei singoli lavoratori.
Il riferimento a “funzione pubblica” non può non
evocare, infatti, l’omonima espressione contenuta nell’art. 357 c.p. e tutto
ciò che ne consegue in termini di pubblici ufficiali e funzionari di fatto
(tutti possibili dipendenti di amministrazioni pubbliche).
La tutela dei dati su luogo di lavoro si presta, poi, ad applicazioni
particolari: qualcuno ricorderà la vicenda del poliziotto trasferito e sospeso perché alcune
foto che lo ritraevano in atteggiamenti intimi (senza divisa, ma in servizio “effettivo
permanente”) - carpite in un contesto privato (post-it con indirizzo dove
reperire le foto attaccato allo schermo del PC in casa propria!) - erano
comparse sul web.
Il nostro codice prevede chiaramente il principio del
bilanciamento sia in ambito privato (art. 26) che pubblico (art. 60) a tutela di
situazioni che implicano il trattamento di dati super-sensibili. Per quelli
comuni resterebbe la tutela ordinaria, che non impedisce affatto l’accesso (e,
magari, anche la diffusione) posto che ai sensi dell’art. 59 del codice i
presupposti, le modalità e l’esercizio del diritto di accesso a documenti
amministrativi contenenti dati personali e la relativa tutela giurisdizionale,
restano disciplinati dalla legge 241/90.
C’era davvero bisogno, allora, di ricorrere ad una misura
tanto drastica quanto pericolosa e forse pure inutile? L’espressione
utilizzata (“riservatezza”) e l’eccessiva generalizzazione (“svolgimento
delle prestazioni” e “valutazione”), infatti, senza alcun riferimento ad
una norma specifica (o almeno al DLGV 196/2003) sembra il classico bambino
gettato via insieme all’acqua sporca.
Riservatezza è infatti qualcosa che esiste, seppure in
maniera diversa, da epoca precedente la disciplina di settore (675/96 e
successivo codice), e che trova il suo fondamento nell’esigenza di tutelare i
diritti della personalità che, per inciso, in una lettura costituzionalmente
orientata delle diverse norme di rango primario (ma inferiore alla Carta
fondamentale) vengono prima degli aspetti patrimoniali. Quelli cioè che pare
voler tutelare la nascitura disposizione.
Anche senza voler scendere nel teatro di guerra (“o trasparenza o privacy”)
basterà notare che, in termini di costi-benefici, la norma produce solo effetti
negativi: la trasparenza, infatti, era comunque assicurata, poiché nessuna
norma impedisce l’accesso ai dati in questione.
Anzi l’aver emanato una norma simile, fa pensare che forse il legislatore non
sa bene come sia realmente “configurato” l’ordinamento sul punto. Oppure
che effettivamente questa privacy...sta davvero infastidendo, almeno l’attuale
legislatore.
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