La seconda professione più antica del mondo, dicono gli addetti ai lavori, è
quella della spia. O, come lo definiscono i giornalisti in questi ipocriti tempi
di politically correctness, “operatore dell’intelligence” (a rigore
non è esattamente la stessa cosa, ma i giornalisti non lo sanno e quindi
continuano a usare un termine sostanzialmente sbagliato). Quello della spia
inoltre, tanto per citare un altro adagio comune e parecchio abusato, è uno
sporco mestiere, ma qualcuno deve pur farlo. Se non ci fossero le spie,
probabilmente il mondo sarebbe molto diverso da come lo conosciamo: non avremmo
i film con James Bond ed i romanzi di Ken Follett, e molti produttori di
Hollywood sarebbero disoccupati.
Già, perché nel mondo reale fare la spia è tutta un’altra
cosa rispetto a quello che l’immaginario collettivo ritiene. Soprattutto ai
tempi d’oggi, e specialmente alle latitudini della nostra sgangherata
repubblica che definire sudamericana non è corretto solo per rispetto verso le
oneste democrazie di quelle remote regioni del globo.
Oggi, come in passato, senza intelligence i capi non vanno da nessuna
parte: servono informazioni per poter decidere il da farsi, e più sono e meglio
è. Quali informazioni? Semplicemente: tutte. A priori non è dato di sapere
quali saranno utili e quali no, quindi ogni possibile informazione va
considerata potenzialmente utile e come tale acquisita e conservata, per essere
magari in seguito analizzata ed utilizzata. Scartata o distrutta no, perché non
si sa mai.
Oggi, come in passato, ci sono modi leciti ed illeciti di
reperire informazioni: ricatto, corruzione, intimidazione, minaccia, inganno,
tradimento, non sono certo invenzioni dei nostri giorni. Così come non lo sono
le collusioni tra politica ed industria e le contaminazioni tra malavita ed alta
finanza, che fanno solitamente da cornice a squallide storie condite con soldi,
sesso e droga, e spesso costellate da inspiegabili carriere ed improbabili
suicidi. L‘informazione è potere, e salvo poche fortunate eccezioni il potere
logora chi ce l’ha, e non chi non ce l’ha.
Quello che tuttavia oggi abbiamo, e che in passato non c’era,
è un enorme amplificatore di opportunità disponibile a chiunque intenda
dedicarsi, lecitamente o illecitamente, a farsi i fatti altrui. Le reti di
comunicazione sono un fondamentale strumento di intelligence, e più si
evolvono diventando potenti e pervasive, tanto più diventano utili a chi le
vuole utilizzare a tale fine. Oggigiorno, contrariamente al passato, la gente
non si parla quasi più di persona: la maggioranza di ciò che ci diciamo è
mediato da strumenti tecnologici che veicolano la nostra comunicazione, e che
possono più o meno facilmente essere utilizzati per consentire a terzi di
prenderne conoscenza.
Non è un mistero che la stragrande maggioranza delle
indagini di polizia, in tutti i Paesi evoluti, si fonda sull’intercettazione
legale delle telefonate. Questo fatto peraltro è ben noto ai criminali di
professione, i quali cercano di eludere sistematicamente i controlli delle forze
dell’ordine ricorrendo o a tecnologie più sofisticate di quelle dei loro
avversari (è noto che negli anni ’80 i mafiosi comunicavano tra loro via fax,
perché all’epoca intercettare questo tipo di comunicazione era impossibile) o
paradossalmente a tecnologie più primitive quali i “pizzini” di Provenzano.
La concentrazione in poche mani degli strumenti di
comunicazione di massa, tipica delle nostre società, è dunque
contemporaneamente un vantaggio ed un problema: è un vantaggio per coloro i
quali, legittimamente e secondo le regole, intendono servirsi di tale
potenzialità per perseguire l’ordine e la legalità; è tuttavia un problema
per l’intera società in quanto, come giustamente ci ricorda Manlio Cammarata
(Intercettazioni e dossier illegali: quis custodiet
custodes? ), non è chiaro chi, e soprattutto come, potrà
controllare l’operato dei presunti custodi dell’ordine e della legalità.
È forse paradossale, e degno di attenzione, il fatto che il
ricordato verso latino “quis custodiet ipsos custodes” sia stato
scritto da Giovenale (nella sua VI satira) riferendosi proprio al più antico
mestiere del mondo, ma lo si citi solitamente riferendolo al secondo. Giovenale
infatti, che essendo mezzo fallito come avvocato campava facendo il cabarettista
dell’epoca, ossia declamando composizioni satiriche contro il governo e le
istituzioni, si riferiva ai facili costumi delle matrone romane, suggerendo ai
mariti che se anche avessero tenuto le mogli segregate in casa non avrebbero
potuto impedire loro di tradirli con gli stessi guardiani posti a sorvegliarle.
Mutatis mutandis siamo qui duemila anni dopo a
scandalizzarci del fatto che alcuni di coloro che gestiscono, anche per conto
dello Stato, un immenso potere informativo ne abbiano abusato per motivi di
interesse personale, e a tale abuso abbiano partecipato elementi infedeli delle
pubbliche istituzioni. Sarò un po’ troppo disincantato, ma non posso non
ritenere ipocriti i gridi indignati di tutti coloro che si sono stracciati le
vesti di fronte a tale inimmaginato scandalo, del quale peraltro tutti gli
addetti ai lavori avevano quantomeno sentore da anni. Non è la prima volta che
cose del genere succedono, solo che in precedenza il bubbone non era stato fatto
scoppiare in modo così evidente.
Ad esempio risale solo a pochissimi anni fa, anche se ben
pochi oggi vogliono ricordarlo, un film del tutto analogo a questo ed avente
come protagonista un altro noto gestore di telefonia mobile: in quell’occasione
si trattò di un sospetto traffico di tabulati relativi a numeri posti sotto
controllo da parte della magistratura, conclusosi guarda caso con il frettoloso
siluramento dei vertici della struttura di sicurezza dell’azienda e un rapido
insabbiamento della vicenda. Solo che adesso, evidentemente, lo tsunami
si stava avvicinando troppo a qualche linea di costa particolarmente delicata, e
quindi qualcuno ha pensato bene di correre ai ripari prima che fosse troppo
tardi.
È bastata dunque la solita leggina isterica, approvata per
di più con una tanto fulminea quanto sospetta unanimità bipartisan, a
cancellare d’un colpo anni di velenose sedimentazioni sul fenomeno delle
intercettazioni illecite. Sancendo così, come autorevoli rappresentanti di
entrambi gli schieramenti hanno trionfalmente sottolineato su tutti i media
disponibili, la “vittoria della democrazia e della libertà” (chi sia stato
sconfitto non è dato di sapere…).
Unica voce contraria, giunta tuttavia fuori tempo massimo, quella del ministro
Di Pietro: il quale, essendosi forse ricordato all’improvviso di essere stato
un magistrato in una sua precedente incarnazione, ha timidamente provato a
suggerire che un’intercettazione pur illecita, se costituisce corpo del reato,
dovrebbe essere messa a disposizione della magistratura; ma è stato coralmente
invitato da alleati ed avversari ad occuparsi esclusivamente delle sue
infrastrutture, facendo così tirare un sospiro di sollievo a tutti i furbetti
del quartierino le cui conversazioni compromettenti verranno ora inviate
inesorabilmente al macero.
Significativa a questo proposito mi sembra la dichiarazione
in merito del ministro guardasigilli, nonché estensore della legge, Clemente
Mastella, che in un’intervista
a Repubblica ha fieramente sostenuto la necessità di "bruciare tutto
come succede per le cose eretiche": parole quantomeno strane in bocca ad un
giornalista professionista qual è, considerato anche che l’unico dissenso nei
confronti del decreto legge anti-intercettazioni è venuto proprio dal sindacato
dei giornalisti il quale, tramite il segretario della Federazione Nazionale
della Stampa Italiana Paolo Serventi Longhi, ha espresso timori di un possibile
giro di vite intimidatorio nei confronti degli organi di informazione.
Dietrologia a parte, non posso tuttavia non rabbrividire di
fronte all’apologia dei metodi della Santa Inquisizione, che supponevamo ormai
in disuso da secoli; né evitare di farmi tornare alla mente i fantasmi del
famoso, ancorché probabilmente falso, aneddoto sulla distruzione della
grandiosa biblioteca di Alessandria d’Egitto. Si tramanda infatti che quando
il generale arabo Amir conquistò la città, non sapendo cosa fare della
biblioteca chiese consiglio al califfo Omar, discendente diretto di Maometto e
massima autorità dell'Islam: e questi rispose che i suoi settecentomila volumi
dovevano in ogni caso essere tutti bruciati, perché se contenevano cose
conformi al Corano erano inutili mentre se contenevano cose difformi dal Corano
erano eretici.
Ma con queste considerazioni rischiamo di portare il discorso
troppo lontano, e quindi è meglio ritornare al tema iniziale. L’occasione fa
l’uomo ladro, e la contemporanea disponibilità di soldi, potere,
infrastrutture ed informazioni è un’occasione troppo ghiotta per resistervi a
lungo. Il primo passo nella vicenda in questione può essere consistito nell’effettuare
piccoli abusi per trarre vantaggi commerciali o consolidare il proprio vantaggio
competitivo (e Telecom Italia, in altra sede, è stata chiamata a rispondere
davanti ai giudici proprio di aver abusato delle informazioni derivanti dalla
sua posizione dominante per ottenere illeciti vantaggi commerciali); da qui a
farne un vero e proprio business il passo è stato purtroppo breve, ed è
evidentemente stato compiuto in modo spregiudicato.
Sarà compito dei giudici, se ci riusciranno, accertare le
responsabilità che si annidano dietro questa ennesima losca vicenda all’italiana,
fatta di manager collusi e servizi segreti deviati: rimane tuttavia il fatto
che, a meno di non riformare completamente il sistema, i controllori saranno
sempre privi di controllo e dunque potranno sempre continuare a fare ciò che
hanno fatto sinora. Non è infatti ordinando la distruzione delle
intercettazioni illecite che si impedirà a qualcuno di continuare ad
intercettare illecitamente, e non è imponendo ai gestori telefonici di adottare
maggiori misure di sicurezza che si impedirà agli stessi amministratori dei
sistemi di sicurezza di abusare del potere posto nelle loro mani. Il custode
non custodito, così come il controllore non controllato, o sono meritevoli
della massima ed incondizionata fiducia o non devono esistere.
Se qualcosa di buono si può imparare dalla vicenda Telecom
è che è ormai necessario un intervento legislativo sistematico ed organico che
metta ordine nel delicato settore delle attività istituzionalmente e legalmente
indirizzate a violare la privacy dei singoli in nome del superiore diritto della
collettività. Diritto che, intendiamoci, deve essere davvero tale e non può
essere solo un fantoccio nelle mani di pochi, da sbandierare per ottenere
copertura e protezione a qualsiasi azione nefanda. Servono leggi chiare ed
applicabili, eque e democratiche: le quali chiariscano chi, come e quando può
violare la privacy dei singoli in nome della collettività, e quando no. Non con
l’obiettivo di castrare le forze dell’ordine che legittimamente agiscono
nell’ambito del loro mandato, ma per evitare che quanto è già avvenuto si
ripeta ancora in futuro. Non abbiamo bisogno di nuove leggi repressive né di
nuove pene, ma di regole chiare e condivise, nonché di strumenti per farle
rispettare. Per ora, invece, abbiamo visto solo l’ennesimo frettoloso decreto
legge frutto di una reazione emotiva ad un terremoto peraltro annunciato da
tempo: un po’ poco per avere fiducia nel futuro…
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