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Il secondo mestiere più antico del mondo

di Corrado Giustozzi - 25.09.06

 
La seconda professione più antica del mondo, dicono gli addetti ai lavori, è quella della spia. O, come lo definiscono i giornalisti in questi ipocriti tempi di politically correctness, “operatore dell’intelligence” (a rigore non è esattamente la stessa cosa, ma i giornalisti non lo sanno e quindi continuano a usare un termine sostanzialmente sbagliato). Quello della spia inoltre, tanto per citare un altro adagio comune e parecchio abusato, è uno sporco mestiere, ma qualcuno deve pur farlo. Se non ci fossero le spie, probabilmente il mondo sarebbe molto diverso da come lo conosciamo: non avremmo i film con James Bond ed i romanzi di Ken Follett, e molti produttori di Hollywood sarebbero disoccupati.

Già, perché nel mondo reale fare la spia è tutta un’altra cosa rispetto a quello che l’immaginario collettivo ritiene. Soprattutto ai tempi d’oggi, e specialmente alle latitudini della nostra sgangherata repubblica che definire sudamericana non è corretto solo per rispetto verso le oneste democrazie di quelle remote regioni del globo.
Oggi, come in passato, senza intelligence i capi non vanno da nessuna parte: servono informazioni per poter decidere il da farsi, e più sono e meglio è. Quali informazioni? Semplicemente: tutte. A priori non è dato di sapere quali saranno utili e quali no, quindi ogni possibile informazione va considerata potenzialmente utile e come tale acquisita e conservata, per essere magari in seguito analizzata ed utilizzata. Scartata o distrutta no, perché non si sa mai.

Oggi, come in passato, ci sono modi leciti ed illeciti di reperire informazioni: ricatto, corruzione, intimidazione, minaccia, inganno, tradimento, non sono certo invenzioni dei nostri giorni. Così come non lo sono le collusioni tra politica ed industria e le contaminazioni tra malavita ed alta finanza, che fanno solitamente da cornice a squallide storie condite con soldi, sesso e droga, e spesso costellate da inspiegabili carriere ed improbabili suicidi. L‘informazione è potere, e salvo poche fortunate eccezioni il potere logora chi ce l’ha, e non chi non ce l’ha.

Quello che tuttavia oggi abbiamo, e che in passato non c’era, è un enorme amplificatore di opportunità disponibile a chiunque intenda dedicarsi, lecitamente o illecitamente, a farsi i fatti altrui. Le reti di comunicazione sono un fondamentale strumento di intelligence, e più si evolvono diventando potenti e pervasive, tanto più diventano utili a chi le vuole utilizzare a tale fine. Oggigiorno, contrariamente al passato, la gente non si parla quasi più di persona: la maggioranza di ciò che ci diciamo è mediato da strumenti tecnologici che veicolano la nostra comunicazione, e che possono più o meno facilmente essere utilizzati per consentire a terzi di prenderne conoscenza.

Non è un mistero che la stragrande maggioranza delle indagini di polizia, in tutti i Paesi evoluti, si fonda sull’intercettazione legale delle telefonate. Questo fatto peraltro è ben noto ai criminali di professione, i quali cercano di eludere sistematicamente i controlli delle forze dell’ordine ricorrendo o a tecnologie più sofisticate di quelle dei loro avversari (è noto che negli anni ’80 i mafiosi comunicavano tra loro via fax, perché all’epoca intercettare questo tipo di comunicazione era impossibile) o paradossalmente a tecnologie più primitive quali i “pizzini” di Provenzano.

La concentrazione in poche mani degli strumenti di comunicazione di massa, tipica delle nostre società, è dunque contemporaneamente un vantaggio ed un problema: è un vantaggio per coloro i quali, legittimamente e secondo le regole, intendono servirsi di tale potenzialità per perseguire l’ordine e la legalità; è tuttavia un problema per l’intera società in quanto, come giustamente ci ricorda Manlio Cammarata (Intercettazioni e dossier illegali: quis custodiet custodes? ), non è chiaro chi, e soprattutto come, potrà controllare l’operato dei presunti custodi dell’ordine e della legalità.

È forse paradossale, e degno di attenzione, il fatto che il ricordato verso latino “quis custodiet ipsos custodes” sia stato scritto da Giovenale (nella sua VI satira) riferendosi proprio al più antico mestiere del mondo, ma lo si citi solitamente riferendolo al secondo. Giovenale infatti, che essendo mezzo fallito come avvocato campava facendo il cabarettista dell’epoca, ossia declamando composizioni satiriche contro il governo e le istituzioni, si riferiva ai facili costumi delle matrone romane, suggerendo ai mariti che se anche avessero tenuto le mogli segregate in casa non avrebbero potuto impedire loro di tradirli con gli stessi guardiani posti a sorvegliarle.

Mutatis mutandis siamo qui duemila anni dopo a scandalizzarci del fatto che alcuni di coloro che gestiscono, anche per conto dello Stato, un immenso potere informativo ne abbiano abusato per motivi di interesse personale, e a tale abuso abbiano partecipato elementi infedeli delle pubbliche istituzioni. Sarò un po’ troppo disincantato, ma non posso non ritenere ipocriti i gridi indignati di tutti coloro che si sono stracciati le vesti di fronte a tale inimmaginato scandalo, del quale peraltro tutti gli addetti ai lavori avevano quantomeno sentore da anni. Non è la prima volta che cose del genere succedono, solo che in precedenza il bubbone non era stato fatto scoppiare in modo così evidente.

Ad esempio risale solo a pochissimi anni fa, anche se ben pochi oggi vogliono ricordarlo, un film del tutto analogo a questo ed avente come protagonista un altro noto gestore di telefonia mobile: in quell’occasione si trattò di un sospetto traffico di tabulati relativi a numeri posti sotto controllo da parte della magistratura, conclusosi guarda caso con il frettoloso siluramento dei vertici della struttura di sicurezza dell’azienda e un rapido insabbiamento della vicenda. Solo che adesso, evidentemente, lo tsunami si stava avvicinando troppo a qualche linea di costa particolarmente delicata, e quindi qualcuno ha pensato bene di correre ai ripari prima che fosse troppo tardi.

È bastata dunque la solita leggina isterica, approvata per di più con una tanto fulminea quanto sospetta unanimità bipartisan, a cancellare d’un colpo anni di velenose sedimentazioni sul fenomeno delle intercettazioni illecite. Sancendo così, come autorevoli rappresentanti di entrambi gli schieramenti hanno trionfalmente sottolineato su tutti i media disponibili, la “vittoria della democrazia e della libertà” (chi sia stato sconfitto non è dato di sapere…).
Unica voce contraria, giunta tuttavia fuori tempo massimo, quella del ministro Di Pietro: il quale, essendosi forse ricordato all’improvviso di essere stato un magistrato in una sua precedente incarnazione, ha timidamente provato a suggerire che un’intercettazione pur illecita, se costituisce corpo del reato, dovrebbe essere messa a disposizione della magistratura; ma è stato coralmente invitato da alleati ed avversari ad occuparsi esclusivamente delle sue infrastrutture, facendo così tirare un sospiro di sollievo a tutti i furbetti del quartierino le cui conversazioni compromettenti verranno ora inviate inesorabilmente al macero.

Significativa a questo proposito mi sembra la dichiarazione in merito del ministro guardasigilli, nonché estensore della legge, Clemente Mastella, che in un’intervista a Repubblica ha fieramente sostenuto la necessità di "bruciare tutto come succede per le cose eretiche": parole quantomeno strane in bocca ad un giornalista professionista qual è, considerato anche che l’unico dissenso nei confronti del decreto legge anti-intercettazioni è venuto proprio dal sindacato dei giornalisti il quale, tramite il segretario della Federazione Nazionale della Stampa Italiana Paolo Serventi Longhi, ha espresso timori di un possibile giro di vite intimidatorio nei confronti degli organi di informazione.

Dietrologia a parte, non posso tuttavia non rabbrividire di fronte all’apologia dei metodi della Santa Inquisizione, che supponevamo ormai in disuso da secoli; né evitare di farmi tornare alla mente i fantasmi del famoso, ancorché probabilmente falso, aneddoto sulla distruzione della grandiosa biblioteca di Alessandria d’Egitto. Si tramanda infatti che quando il generale arabo Amir conquistò la città, non sapendo cosa fare della biblioteca chiese consiglio al califfo Omar, discendente diretto di Maometto e massima autorità dell'Islam: e questi rispose che i suoi settecentomila volumi dovevano in ogni caso essere tutti bruciati, perché se contenevano cose conformi al Corano erano inutili mentre se contenevano cose difformi dal Corano erano eretici.

Ma con queste considerazioni rischiamo di portare il discorso troppo lontano, e quindi è meglio ritornare al tema iniziale. L’occasione fa l’uomo ladro, e la contemporanea disponibilità di soldi, potere, infrastrutture ed informazioni è un’occasione troppo ghiotta per resistervi a lungo. Il primo passo nella vicenda in questione può essere consistito nell’effettuare piccoli abusi per trarre vantaggi commerciali o consolidare il proprio vantaggio competitivo (e Telecom Italia, in altra sede, è stata chiamata a rispondere davanti ai giudici proprio di aver abusato delle informazioni derivanti dalla sua posizione dominante per ottenere illeciti vantaggi commerciali); da qui a farne un vero e proprio business il passo è stato purtroppo breve, ed è evidentemente stato compiuto in modo spregiudicato.

Sarà compito dei giudici, se ci riusciranno, accertare le responsabilità che si annidano dietro questa ennesima losca vicenda all’italiana, fatta di manager collusi e servizi segreti deviati: rimane tuttavia il fatto che, a meno di non riformare completamente il sistema, i controllori saranno sempre privi di controllo e dunque potranno sempre continuare a fare ciò che hanno fatto sinora. Non è infatti ordinando la distruzione delle intercettazioni illecite che si impedirà a qualcuno di continuare ad intercettare illecitamente, e non è imponendo ai gestori telefonici di adottare maggiori misure di sicurezza che si impedirà agli stessi amministratori dei sistemi di sicurezza di abusare del potere posto nelle loro mani. Il custode non custodito, così come il controllore non controllato, o sono meritevoli della massima ed incondizionata fiducia o non devono esistere.

Se qualcosa di buono si può imparare dalla vicenda Telecom è che è ormai necessario un intervento legislativo sistematico ed organico che metta ordine nel delicato settore delle attività istituzionalmente e legalmente indirizzate a violare la privacy dei singoli in nome del superiore diritto della collettività. Diritto che, intendiamoci, deve essere davvero tale e non può essere solo un fantoccio nelle mani di pochi, da sbandierare per ottenere copertura e protezione a qualsiasi azione nefanda. Servono leggi chiare ed applicabili, eque e democratiche: le quali chiariscano chi, come e quando può violare la privacy dei singoli in nome della collettività, e quando no. Non con l’obiettivo di castrare le forze dell’ordine che legittimamente agiscono nell’ambito del loro mandato, ma per evitare che quanto è già avvenuto si ripeta ancora in futuro. Non abbiamo bisogno di nuove leggi repressive né di nuove pene, ma di regole chiare e condivise, nonché di strumenti per farle rispettare. Per ora, invece, abbiamo visto solo l’ennesimo frettoloso decreto legge frutto di una reazione emotiva ad un terremoto peraltro annunciato da tempo: un po’ poco per avere fiducia nel futuro…

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