Biotecnologie e diritto: un campo ancora in buona parte da esplorare, anche per
quanto riguarda il fondamentale problema della sicurezza. Se ne è parlato l'8
aprile scorso a Milano nel corso della quarta edizione della Italian Biotech
Law Conference (IBLC), centrata appunto sugli aspetti di sicurezza delle
banche dati contenenti informazioni legate al DNA degli individui, con
particolare attenzione agli archivi utilizzati dalle forze dell'ordine e a quelli
utilizzati per fini di ricerca medica.
La preoccupazione dei ricercatori è emersa con chiarezza fin dalla relazione
di apertura, tenuta dal chairman Leonardo Santi, presidente del Comitato
nazionale per la biosicurezza, le biotecnologie e le scienze della vita.
Ricordo ancora lo stupore di alcuni relatori, nel 2004, nel corso della prima
edizione della Conferenza, quando fu chiesto loro quali fossero le misure di
sicurezza adottate per questo tipo di banche dati. La risposta fu che le banche
dati con finalità di ricerca erano di fatto pubblicamente accessibili, proprio
per favorire lo scambio di informazioni e permettere il progredire della
ricerca.
Oggi la situazione appare radicalmente cambiata e gli operatori stessi sono
preoccupati degli aspetti di sicurezza delle banche che contengono dati relativi
al DNA delle persone.
Come ha sottolineato nel suo intervento l'avvocato Andrea Monti, le
problematiche della sicurezza delle banche di dati genetici assomigliano a
quelle, ben note, della conservazione dei dati sulle telecomunicazione, di cui
si sta discutendo da tempo senza trovare il bandolo della matassa. C'è però
una importante differenza: i dati delle TLC contengono informazioni su qualche
cosa che i singoli hanno fatto (siti internet visitati, telefonate fatte,
ecc.). Le banche dati di DNA invece contengono dati su quello che gli
individui sono e la differenza è notevole.
Altri dati sono meno critici, ad esempio quelli biometrici, in quanto
permettono di sapere se un individuo era in un posto in un certo momento, ma
nulla dicono, per quello che la scienza sa oggi, su chi siamo realmente. Queste
informazioni sono racchiuse nel DNA, che è come il "codice sorgente"
di ciascuno di noi.
Andrea Cocito ha dichiarato, e altri relatori hanno confermato, che da tali
banche dati è possibile risalire alla paternità degli individui censiti. Ma
non quella presente negli uffici dell'anagrafe, bensì quella che madre natura
gestisce: pare che le differenze siano vicine al 20%, il che significherebbe che
un individuo su 5 non è figlio di chi risulta dall'anagrafe, per usare le
parole dello stesso Cocito. Al di là della correttezza di questo dato, è
evidente che l'utilizzo di tali informazioni potrebbe avere una ricaduta sociale
enorme. Basti pensare ad un individuo che, dall'analisi del DNA contenuto in una
banca dati, scopre di essere figlio di un personaggio famoso.
All'accesso a tali banche dati hanno interesse molte realtà differenti,
oltre alle forze dell'ordine e agli istituiti di ricerca. Basti pensare alle
assicurazioni, che potrebbero trarre informazioni per loro preziose. Credo che
ad oggi solo la fantasia possa porre dei limiti sull'utilizzo futuro delle
informazioni contenute nel DNA e non prendo nemmeno in considerazione il
problema delle manipolazioni del DNA, che ci porterebbe lontano.
I relatori hanno parlato di come queste banche dati sono organizzate e di
quali problemi soffrano.
L'impressione che ne ho avuto è che il problema non è solo tecnologico, ma
soprattutto organizzativo e legale. In altre parole, non si può invocare la
tecnica per proteggere le banche dati da accessi per finalità non previste in
sede di progetto, o per evitare fughe e furti di dati o altro, ma sembra anche
evidente che la sola tutela giuridica non è sufficiente.
I problemi sono gli stessi delle banche dati già conosciute dagli
informatici e di cui si discute da tempo:
- essere sicuri che i dati immessi facciano riferimento alla persona a cui
appartengono e non ad un terzo;
- come verificare eventuali errori nei dati immessi;
- stabilire chi ha accesso ai dati e per quali finalità;
- quali finalità si possono considerare lecite e quali no;
- che cosa succede se dei dati vanno persi o distrutti;
- per quanto tempo si devono conservare questi dati.
Vediamo un esempio presentato alla conferenza.
Stephen Firth ha parlato del National DNA Database (NDNAD) inglese, usato
dalle forze dell'ordine. Il database, costituito nel 1995, contiene informazioni
su quasi 5 milioni di individui, compresi bambini di età inferiore ai 10 anni.
Durante la presentazione sono emerse tutte le problematiche sopra elencate. Nel
database c'è un due per cento di campioni di individui di cui non si conosce il
sesso (un errore nei dati immessi all'origine?); alcuni dati sono stati
trafugati, forse per spionaggio; altri sono andati perduti. Ma, soprattutto, i
dati vengono cancellati solo dopo cento anni.
Un altro dato che colpisce è che in meno di dieci anni le forze dell'ordine
inglesi hanno raccolto campioni di DNA di oltre il 5% della popolazione e non
tutti i campioni sono stati raccolti con il consenso o comunque informando gli
interessati.
Un altro dato inquietante è che questa banca dati è gestita interamente
tramite software a codice chiuso, quindi in mano alle sole aziende che lo hanno
sviluppato. In altre parole, solo chi ha sviluppato il codice sa (forse) se esso
è sicuro: nessuno, all'esterno di queste aziende, può verificare se ci sono
falle o altri problemi.
In conclusione, l'impressione è che gli operatori si stanno preoccupando di
vari aspetti, sia tecnici sia organizzativi, mentre il legislatore sta a
guardare. Resta però un dubbio di fondo, che l'esperienza nel settore dei dati
informatici porta ad essere quasi una certezza: non sarà possibile tutelare del
tutto queste banche dati da utilizzi non previsti. Allora che cosa conviene fare?
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