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 Tutela dei dati personali - Legge 675/96

La privacy e la sindrome di Penelope
di Marco Maglio* - 29.09.97

Per un curioso paradosso, il problema della privacy da qualche tempo è posto sotto le luci della ribalta. E’ sconfortante osservare che nel dibattito attualmente in corso nel nostro paese su questo tema, a parte gli interventi del Garante per la tutela dei dati personali, sempre esemplari per la chiarezza ed ineccepibili per i contenuti, in generale prevalgono gli interessi di bottega e uno sterile spirito polemico verso la legge sulla tutela della riservatezza che il Parlamento ha recentemente approvato: un redivivo Ennio Flaiano concluderebbe, sconsolato, dicendo: " Ho poche idee, ma confuse".

Ma a saper andare alla radice delle cose, il problema della tutela della riservatezza si identifica con la fondamentale questione del rapporto tra l’individuo e la collettività: dal diritto ad essere lasciati soli, alla pretesa di stabilire se, come e quando far circolare le informazioni che ci riguardano. E per argomenti come questo, è il caso di dirlo, ciò che potrebbe apparire solo giuridico si trasfigura e il diritto si "intinge" nella politica.

Anche per questo motivo il vero obiettivo delle nuove norme sulla "tutela della privacy" è la diffusione della cultura della riservatezza e del rispetto; quindi, è essenziale che al di là delle regole si affermi lo spirito della nuova legge.

Ma che cosa vuol dire, concretamente, cultura del rispetto? Il criterio fondamentale che ispira questa concezione del mondo è che ogni soggetto ha il diritto di esercitare un controllo sui dati che lo descrivono come individuo e lo distinguono da tutti gli altri consociati: tuttavia l’effettività di tale principio è compromessa se l’interessato non ha ricevuto tutte le informazioni necessarie per esercitare consapevolmente quel controllo. Solo colui che sa può orientare consapevolmente le sue manifestazioni di volontà. Per dirla con un motto fondamentale nelle società veramente democratiche: "conoscere per deliberare".

Per dare un senso compiuto alla cultura della riservatezza, è indispensabile avvicinarsi a questo problema con un approccio concreto, avendo cura di comprendere la rilevanza del rapporto che intercorre tra la vita quotidiana delle persone e la potenziale violazione della riservatezza per trattamento abusivo dei dati personali di un soggetto. A questo proposito qualcuno ha affermato, aprendo nuovi orizzonti alla metafisica, che nell’odierna civiltà dei consumi una persona è costituita da tre elementi: corpo, anima e carta di credito. Basta rivolgere lo sguardo ad occidente, verso la nuova frontiera tecnologica, per rendersene conto: negli Stati Uniti i grandi "uffici per il credito" che vendono dati a chi fa pubblicità personalizzata, utilizzano sistemi on-line basati su enormi calcolatori, dotati di potenti sistemi di gestione dei database. Se, ad esempio, una banca chiede a questi uffici una relazione sul fido per un cliente, la può ottenere in tempo reale. Queste relazioni contenenti nomi, indirizzi, numeri della previdenza sociale e passato creditizio di un soggetto, vengono aggiornate automaticamente ogni mese, ricorrendo come fonti di informazioni a banche, compagnie di carte di credito, dettaglianti e ditte che noleggiano automobili. Se questa è la realtà si può facilmente comprendere che i dati personali, relativi alle operazioni economiche poste in essere da ogni individuo, costituiscono un patrimonio particolarmente importante per chiunque voglia fare un uso anche solo commerciale dei dati personali.

Anche per questi motivi va apprezzata la scelta coraggiosa che ha spinto il nostro Garante per la tutela dei dati personali ad occuparsi, nel suo primo intervento, del delicato rapporto banche-clienti.

Certamente i punti interrogativi, legati alla privacy sono molti, gli equilibri da raggiungere sono precari e gli interessi in gioco sono assai rilevanti. Il tempo ci dirà molte cose, ma fin d’ora è essenziale che chi ha la responsabilità di dare impulso alla cultura della riservatezza nel nostro paese non sia vittima di quell’attitudine che Penelope elevò a strategia per sopportare l’assedio dei Proci, disfacendo di notte quello che aveva tessuto di giorno: chiameremo questa condotta sindrome di Penelope.

Fuor di metafora, è auspicabile che quando il Garante fissa un principio, questo resti saldamente affermato e costituisca un filo, magari sottile ma resistente, nell’arazzo che si va lentamente delineando per rappresentare la cultura del rispetto. Perciò le manovre destinate a svuotare quei principi o, peggio, per non soggiacere alle norme di legge, accampando l’esistenza di interessi superiori e prevalenti rispetto alla tutela del singolo, dovrebbero essere assolutamente sconfessate.

Allora cerchiamo dei punti fermi: per fare un esempio, il Garante ha già affermato la rilevanza assoluta del principio di finalità che trova compiuta espressione nella legge italiana sulla tutela della riservatezza: i dati personali possono essere utilizzati lecitamente a patto che siano utilizzati per fini non incompatibili con quelli per i quali sono stati raccolti . Questo è un elemento da tenere presente se si mira davvero a diffondere il senso del rispetto. Una delle più gravi lesioni della riservatezza delle persone nel trattamento dei dati personali risiede proprio nel potenziale uso distorto dei dati altrui.

Il rispetto delle finalità per le quali il dato è stato raccolto rappresenta il fondamento sul quale l’edificio della cultura della riservatezza si deve edificare. D’altra parte, chiediamoci quanto sia lesivo dell’altrui riservatezza l’atto con cui un’organizzazione politica comunica (o, per meglio dire, vende) ad una azienda commerciale i dati personali raccolti nella procedura prevista per presentare, ad esempio, una proposta referendaria. Domandiamoci a quale scopo il cittadino che ha aderito a quell’iniziativa, fornendo i suoi dati personali, ha consentito che l’organizzazione politica detenesse quelle informazioni: per appoggiare la proposta referendaria o per far vendere quei dati ad un’impresa? Non sembri un esempio di fantasia perché purtroppo, nel nostro paese, è successo anche questo.

In conclusione, la prospettiva della "nuova cultura del rispetto" è ricca di interessanti sviluppi: e certamente il Garante per la tutela dei dati personali, se saprà contrastare con intelligenza e senso di realtà la sindrome di Penelope, offrirà all’individuo ed alla collettività un importante strumento di tutela per il libero sviluppo della personalità di ognuno di noi.

In ogni caso, anche nella vicenda della tutela della riservatezza rispetto al trattamento dei dati personali, gli appelli alla correttezza intellettuale ed i richiami a saper cogliere la vera essenza dei rapporti giuridici hanno come fine ultimo la realizzazione di una riforma sistematica che contribuisca ad avvicinare il nostro paese ai veri traguardi di civiltà.

Proprio per questo è quanto mai attuale ciò che, più di trent’anni fa, è stato osservato da Stefano Rodotà a proposito della valenza intimamente politica della scienza giuridica: "nessuna rivoluzione sociale può veramente compiersi senza la consapevolezza degli strumenti giuridici che impiega e soltanto l’ignoranza o il cinico abbandono possono far ritenere che nei nostri tempi, al diritto sia riservata soltanto una oscura ed indifferente funzione tecnica".

Pertanto l’affermarsi della cosiddetta società dell’informazione, con le tante questioni che propone a chi voglia riflettere, lancia anche una concreta sfida, prima di tutto, ai legislatori ed ai giuristi ed alla loro capacità razionale di definire un nuovo ordine di rapporti sociali in un equilibrato ordinamento di norme.

E’ una sfida senz’altro sostenibile: a patto di non essere vittime della sindrome di Penelope.

* Avvocato
- Presidente della Commisione per la Legislazione e l’Autodisciplina di AIDiM (Associazione Italiana per il Direct Marketing)