Privacy e concorrenza sleale: e ora
mi dirai cosa hai spiato?
L'autodisciplina tra le regole di
mercato e lo specchio di Narciso
di Marco Maglio* - 15.10.97
"Ci sono più cose in cielo ed in terra
di quante non ne immagini la tua filosofia, Orazio,".
Con queste parole, che Shakespeare fa pronunciare ad Amleto per sollecitare
una visione meno schematica della realtà, potremmo invitare alla riflessione
gli odierni cantori del recente mito della privacy, diffusosi con sorprendente
celerità nel nostro paese.
Complici la legge per la tutela dei dati personali, approvata dal Parlamento
alla fine del 1996, e alcuni fatti di cronaca più o meno scioccanti, anche in
Italia si sta facendo strada un dibattito, che altre culture hanno già
compiuto, sul cosiddetto diritto alla riservatezza.
L'articolo che Giovanni Valentini, sulle
colonne di "Repubblica", ha recentemente dedicato a questo tema ne
offre una bella testimonianza, nobile per i toni ed esemplare per la chiarezza e
la linearità delle opinioni espresse.
E' stato più volte sostenuto che il vero problema che la privacy pone non è
tanto l'individuazione del confine oltre il quale ognuno di noi ha diritto ad
essere lasciato solo, quanto la definizione del corretto rapporto tra l'individuo
e la collettività: solo se si tiene presente che i protagonisti di questa
partita sono proprio le persone, come soggetti dotati di dignita e di capacità
di autodeterminarsi, si può giungere a soluzioni adeguate in grado di durare
nonostante il trascorrere del tempo e delle emozioni.
Ma, come osservavamo all'inizio di questa riflessione, ci sono più cose nella
realtà quotidiana che nelle nostre flebili capacità immaginative.
Così, quando si parla di privacy si è portati a semplificare i termini del
discorso e ad identificare il nodo della questione con il diritto di cronaca e
la tutela dell'immagine e della dignità delle persone.
Ma c'è dell'altro. Oggi il diritto alla riservatezza, adeguandosi alle
nuove esigenze di una società sempre più dinamica e capace di far circolare
informazioni con straordinaria velocità, trova il suo fertile terreno di
coltura nel diritto ad esercitare un controllo sui dati personali; cioè a
stabilire se, come e quando le informazioni che ci riguardano possono essere
raccolte e messe a disposizione degli altri.
Se questo è il lato oscuro del diritto alla
riservatezza, così raramente esaminato dai partecipanti al dibattito sulla
privacy, c'è un ulteriore aspetto che merita di essere messo in luce.
E' noto che la nuova legge per la tutela dei dati personali è stata accolta
con sospetti e mugugni da buona parte del mondo imprenditoriale e periodicamente
si alzano voci che ne chiedono, con argomentazioni spesso discutibili, la
modifica e la ridefinizione. Si sostiene solitamente che questa legge
"blocca" le attività economiche, costringendo gli operatori a
fastidiosi adempimenti burocratici. Ma c'è un aspetto macroscopico che pure
non è mai stato sollevato dalle aziende e dagli operatori economici: la legge
italiana, a differenza di quanto prevedono le analoghe discipline straniere e la
direttiva comunitaria per la tutela dei dati personali, prevede che possano
essere tutelati anche i dati personali appartenenti alle persone giuridiche.
L'immediata conseguenza è che, in linea
teorica, una società che ritenesse di aver subito un trattamento non
autorizzato dei propri dati personali o, comunque, una fuga di notizie relative
alla sua organizzazione interna, potrebbe legittimamente rivolgersi ai suoi
concorrenti per sapere quali informazioni detengano sul proprio conto. In caso
di mancata risposta, per l'imprenditore che si ritiene spiato si aprirebbero
le porte dell'ufficio del Garante per la protezione dei dati personali o del
Tribunale. Quindi, ampie e diversificate forme di tutela si offrirebbero al
soggetto che ha subito un trattamento non autorizzato di dati personali. Lo
spionaggio industriale, si sa, non arricchisce solo le trame delle spy
stories e dei films di successo, ma costituisce un cospicuo strumento di
guadagno per alcuni dipendenti disinvolti e non proprio rispettosi dell'obbligo
di fedeltà verso il loro datore di lavoro. Questa è una realtà assai diffusa
e basterebbe guardare l'impressionante numero di prodotti "gemelli"
che si affollano sul mercato per concludere che le coincidenze non sono poi
così casuali. Eppure nessun imprenditore solleva questo problema e, soprattutto
nessuno ha finora pensato di avvalersi di questo potentissimo strumento per
porre fine ad una grave minaccia per i segreti aziendali.
Come mai?
Scarsa fantasia da parte delle aziende, direbbe Amleto. Ma con buona pace del
Principe di Danimarca, crediamo maliziosamente che le vere ragioni risiedano
altrove. Dubitare, si sa, non favorisce la serenità esistenziale ma spesso ci
avvicina alla verità.
Così, compiendo un esercizio apparentemente dietrologico, possiamo immaginare
che nessuna azienda si è finora avvalsa della potente arma che la nuova legge
le offre per tutelare i segreti aziendali solo perché una aggressione di questo
tipo provocherebbe una reazione uguale e contraria da parte del concorrente
aggredito ed i risultati sarebbero probabilmente distruttivi per l'intero
mercato. Insomma, rispolverando un'espressione che ha ben descritto le ragioni
della pace nel periodo della cosiddetta guerra fredda, l'equilibrio del
terrore impedirà l'esplosione di queste testate nucleari nel mercato della
libera ( e talvolta disinvolta) concorrenza.
Attraverso questa riflessione possiamo cogliere,
riteniamo, una verità nascosta sul conto della tutela della riservatezza. Non
sempre l'apparato sanzionatorio previsto da una legge garantisce la reale
protezione degli interessi tutelati. Talvolta è necessario ricorrere a
strumenti alternativi rispetto ai classici meccanismi predisposti dal
legislatore. Occorre saper modulare le misure sanzionatorie in modo da
consentire una piena ed effettiva tutela degli interessi in gioco. L'autodiscplina
può essere un aiuto per sciogliere questo nodo gordiano: proporre la
deontologia degli operatori del mercato come strumento per bilanciare equamente
gli interessi apparentemente in conflitto offre un contributo nuovo al dibattito
che sta accompagnando, nel nostro paese, la fase di prima applicazione della
legge per la tutela dei dati personali.
Anche in questo campo la strada maestra è tracciata dalla normativa comunitaria
che indica nei codici di condotta un utile meccanismo per la gestione di questa
materia.
Appare evidente che un codice di autodisciplina,
adottato sotto l'egida delle associazioni di settore rappresenta la nuova
frontiera per la reale protezione della riservatezza. Questo strumento di
autonomia, per le sue caratteristiche di flessibilità, trasparenza, adeguatezza
e certezza, anche sotto il profilo sanzionatorio, si potrebbe ben adattare alle
specifiche esigenze degli attori di questa vicenda i quali, soffocati da un
copione legislativo troppo vincolante, rischiano di essere schiacciati sotto il
peso dei divieti.
Non a caso le principali associazioni di diverse
categorie di operatori economici e di liberi professionisti si sono proposte l'obiettivo
prioritario di aggiornare ed adeguare alla nuova normativa il proprio Codice di
autodisciplina. E' spiacevole osservare, però, che di autodisciplina e
privacy si parli solo citando l'ipotesi del codice di deontologia dei
giornalisti, che la legge ha imposto di realizzare entro breve termine. Per le
altre categorie professionali, invece, si agita la clava della legge con
sorprendente facilità ed i codici di autodisciplina vengono sviliti a poco più
di un elenco di buoni propositi, che sembra ricordare le letterine che i bambini
scrivono per evitare punizioni o per ottenere regali.
Con una punta di spirito polemico chiediamo: cosa
si può pensare a proposito di un codice deontologico imposto per legge (una
bella contraddizione in termini, non c'è che dire)? Pensiamo che per
rispondere possa essere sufficiente ricordare quanto osservava, icasticamente, a
questo proposito il decano dei giornalisti italiani: sarebbe come chiedere alle
iene di mangiare con la forchetta!
In realtà, a voler mantenere la mente lucida, va ricordato che i codici
deontologici dovrebbero essere guardati con attenzione ma non con pregiudiziale
favore. Come ha osservato Guido Alpa essi vanno considerati nella sostanza,
oltre che nella forma, nelle loro finalità espresse ed in quelle inespresse,
nella loro efficacia concreta, nella loro conformità ai valori che sorreggono
la comunità, piuttosto che non nella difesa di interessi di categoria e
corporativi. E questo vale anche per le tecniche di soluzione stragiudiziale
delle controversie.
Insomma i codici di autodisciplina, se vogliono davvero essere la nuova
frontiera della privacy devono nascere come strumento di diffusione della
cultura della riservatezza all'interno delle varie categorie professionali. In
caso contrario essi si ritroveranno ad essere nulla più che specchi incantatori
nei quali i vari gruppi si contempleranno come novelli Narcisi, compiacendosi
della loro bellezza ed annullando il confronto con la realtà circostante. E
sarebbe davvero triste dover constatare che la capacità dei privati di darsi
regole oltre il potere dello stato si sia trasformata da simbolo di libertà a
veicolo di sopraffazione e di autoinganno.
E forse vale la pena ricordare ai più sbadati
che, secondo la leggenda, Narciso, rimirando la sua immagine riflessa nello
stagno, si innamorò della sua stessa perfezione e, divenuto insensibile nei
confronti del mondo circostante, si lasciò morire.
Così, ancora una volta, il mito classico può offrire all'uomo contemporaneo
ampi spunti di riflessione per una vita migliore.
*Avvocato
- Presidente della Commissione per la legislazione e l'autodisciplina di AIDiM
(Associazione italiana per il Direct Marketing)
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