di Alessandra Paravani - 13.04.2000
Con l'entrata in vigore della legge 675/96 si è posto all'interprete
il non facile compito di verificare, in sede di concreta applicazione
della legge, la compatibilità della nuova normativa con quella
previgente in materia di accesso ai documenti amministrativi.
In via preliminare si ricordi che già il legislatore del '90 ha
cercato di comporre il contrasto di interessi tra accesso e
riservatezza ma, per la verità, in modo non del tutto soddisfacente.
La legge 241/90, infatti, con un totale rovesciamento di prospettiva
rispetto al passato, ha dettato per l'accesso una disciplina generale,
escludendolo solo in alcune materie tassativamente stabilite, tra le
quali anche la riservatezza di terzi. Tuttavia v'è da notare che a
differenza di altre ipotesi in cui vengono in rilievo interessi
preminenti dello Stato e nelle quali il diritto di accesso è escluso
senza mediazioni, nel caso in cui si ponga l'esigenza di garantire
la riservatezza di terzi, così non è.
La riservatezza dei terzi costituisce bensì un limite all'accesso,
tuttavia non si tratterebbe di un limite assoluto ma, più
modestamente, di un limite modale: prevale in ogni caso
l'accesso quando viene in rilievo l'interesse alla cura o alla difesa
di un interesse giuridico, ma l'esercizio del diritto di accesso è
consentito soltanto nella forma della visione del documento (art. 24,
co. 2, lett. d), l. 241/90).
È lecito dubitare che in tal modo si tuteli la riservatezza di terzi,
salvo ritenere che il diritto alla riservatezza sia garantito
semplicemente con una limitazione dell'esercizio del diritto di
accesso alla sola visione del documento. Il diritto di accesso, che a
norma dell'articolo 25 della legge 241/90 si esercita mediante l'esame
e l'estrazione di copia dei documenti amministrativi, è invero
ridotto ad una forma meno invasiva e più morbida, ciò nondimeno
prevale.
Non sembra, in altre parole, che la visione degli atti possa valere a
contemperare opposte esigenze, atteso che anche la sola visione può
in modo irreversibile comprimere la sfera privata senza che si
realizzi alcun bilanciamento di valori. Quale bilanciamento è mai
quello che ammette comunque l'accesso, sia pure con modalità
limitate alla mera visione?
La regola dell'accesso si atteggia, dunque, a clausola di chiusura:
il diritto all'accesso prevale in ogni caso quando è strumentale alla
cura e alla difesa di un interesse giuridico, anche se comporta il
sacrificio della riservatezza di terzi. L'accesso irrompe
violentemente nel panorama giuridico ed è tale da ridurre nello
spazio angusto di ciò che resta dalla visione dei documenti
amministrativi un diritto, quello alla riservatezza, che, si ricordi,
è riconosciuto e tutelato a livello costituzionale.
Il legislatore ha operato, in altri termini, un bilanciamento ex
lege nel conflitto tra accesso e riservatezza, accordando da un
lato prevalenza al diritto di accesso anche nei casi in cui questo
diritto incide su quello alla riservatezza, dall'altro richiedendo, a
tutela della riservatezza, che l'accesso ai documenti sia necessario
per curare o per difendere un interesse giuridico e che si realizzi
con una modalità diversa e meno invasiva dell'estrazione di copia,
ovvero che si eserciti con la sola visione del documento.
Più che un criterio generale di soccombenza ineluttabile del
diritto alla riservatezza posto ab alto, appare più opportuno
individuare i criteri che dovrebbero presiedere ad un bilanciamento
tra due diritti ugualmente tutelati per valutare, sulla base del caso
concreto, se il diritto alla riservatezza debba recedere ogni volta di
fronte della necessità di cura e di difesa degli interessi giuridici
di colui il quale promuove istanza d'accesso.
Sulla delicata questione del bilanciamento tra diritto alla
riservatezza e diritto di accesso è intervenuto il Consiglio di Stato
in adunanza plenaria con la sentenza 4 febbraio 1997, n. 5, con la
quale ha ritenuto, che il diritto alla riservatezza receda ogni
qualvolta il diritto di accesso venga esercitato per la cura di un
interesse giuridico, sottolineando che ciò deve avvenire "nei
limiti ovviamente in cui esso è necessario alla difesa di
quell'interesse". Segnatamente il Consiglio di Stato ha stabilito
che "la cura e la difesa dei propri interessi costituiscono sia
il presupposto per il diritto di prendere visione degli atti,
altrimenti non accessibili, che il limite della loro utilizzabilità,
che non può andare oltre le finalità previste dalla normativa per la
deroga alla sottrazione dall'accesso".
La finalità esclusiva di cura e di difesa di un interesse giuridico
costituisce, pertanto, la cartina tornasole con la quale misurare non
solo la legittimità del diritto di accedere, ma la sua stessa
prevalenza sul diritto alla riservatezza di terzi. A ben vedere,
perché il diritto alla riservatezza receda occorre che la visione dei
documenti sia assolutamente necessaria per la cura e la difesa dell'interesse
giuridico fatto valere. È necessario cioè che il richiedente non
possa in altro modo curare e difendere i suoi interessi se non
attraverso una conoscenza diretta dei documenti dei quali richiede l'accesso,
ovvero non avendo strumenti alternativi, egli provi che quei documenti
sono assolutamente indispensabili.
Con la citata sentenza il Consiglio di Stato si è limitato, sulla
base dell'interpretazione letterale dell'articolo 24, capoverso,
lettera d, l. 241/90, ad avallare la scelta del legislatore in ordine
alla prevalenza del diritto di difesa su quello, ugualmente tutelato
dalla costituzione, della riservatezza. La pronuncia lascia
insoddisfatti, trattandosi di due interessi ugualmente tutelati dalla
costituzione rispetto ai quali il legislatore ha scelto, non un equo
contemperamento degli interessi in gioco, ma si è spinto fino al
punto di dettare un criterio di prevalenza per una composizione
"meccanicistica" degli stessi. Resta aperta la questione di
legittimità costituzionale della norma.
Né vale sostenere che il diritto di difesa sia un diritto di rango
superiore nella gerarchia dei valori della costituzione, giacché si
deve guardare in ogni caso "all'interesse sostanziale fatto
valere da colui che richiede l'accesso", nel senso che qualora
l'interesse giuridico sotteso all'accesso, che il richiedente
invochi a propria difesa, sia da ritenere di minor rilevanza rispetto
al diritto alla riservatezza, esso non debba prevalere. In ogni caso,
si è detto, il diritto alla difesa può essere esercitato senza che
ciò comporti un inutile sacrificio nella sfera privata dell'individuo.
Occorre chiarire, a questo punto, se la norma dell'articolo 24,
capoverso, l. 241/90, quale è da intendere alla luce della sentenza
n. 5/1997 del Consiglio di Stato, sia stata o meno abrogata a seguito
dell'entrata in vigore della legge n. 675/96.
L'articolo 43, capoverso, della legge del '96 contiene una clausola
con la quale il legislatore ha fatto salve le norme in materia di
accesso ai documenti amministrativi. "Restano ferme le
disposizioni della legge 20 marzo 1970, n. 300, e successive
modificazioni, nonché, in quanto compatibili, le disposizioni della
legge 5 giugno 1990, n. 135, e successive modificazioni, del decreto
legislativo 6 settembre 1989, n. 322, nonché le vigenti norme in
materia di accesso ai documenti amministrativi e agli archivi di
Stato. Restano altresì ferme le disposizioni di legge che
stabiliscono divieti o limiti più restrittivi in materia di
trattamento di taluni dati personali".
La norma non stabilisce alcun criterio di prevalenza tra accesso e
riservatezza, ma rimette alla sensibilità dell'interprete il compito
di verificare se l'esercizio del diritto di accesso ai documenti
amministrativi sia ancora compatibile con il nuovo assetto delineato
dalla legge n. 675/96.
Prima di affrontare la questione in dettaglio, sia consentito fare
una breve premessa per dare un quadro della legge che sia il più
lontano possibile da facili pregiudizi, onde sostenere che la legge n.
675/96 non rappresenta affatto un passo indietro rispetto a conquiste
di grande valore come quella della trasparenza dell'attività
amministrativa e del diritto d'accesso consacrate nella legge n.
241/90, viceversa arricchisce di significato la portata di questi
principi.
Innanzitutto si dica che la legge n. 675/96 è stata impropriamente
definita legge sulla privacy. Non sarà superfluo sottolineare,
se è vero che le parole incidono i diversi passaggi, che l'equivoco
sulla denominazione abbia contribuito a dare della legge un senso
riduttivo e distorto e ciò, purtroppo, anche tra gli addetti ai
lavori. Al contrario il significato da dare alla legge è da ricavarsi
proprio dal tenore letterale delle parole, secondo il normale criterio
di interpretazione delle leggi. La legge n. 675/96 tutela, infatti, le
persone e gli altri soggetti rispetto al trattamento dei dati
personali. Con ciò il legislatore non ha sancito un divieto di
trattare dati personali, ma ha stabilito regole di circolazione dei
dati diversificate in ragione degli interessi ivi sottesi. Ridefinire
le regole che presiedono alla circolazione delle informazioni
personali non equivale ad impedire la circolazione di quelle
informazioni, ma significa consentire la circolazione ad altre
condizioni, o meglio consentirla nel rispetto di regole certe.
Ancor meno si può dire che abbia impedito la raccolta delle
informazioni da parte della pubblica amministrazione, non essendo
richiesto alcun consenso agli interessati, né che abbia impedito la
circolazione dei dati tra le amministrazioni la quale è consentita
anche in assenza di una norma di legge o di regolamento che
espressamente la preveda quando è comunque necessaria per lo
svolgimento delle funzioni pubbliche (art. 27, co.1 e co. 2).
Fin qui dunque nulla di nuovo, se non la riaffermazione del principio
di legalità.
Non sembra d'altra parte che il sistema di norme previsto dalla
legge possa dirsi incompatibile con la direzione verso la quale si
volgeva il legislatore nel '90. La legge n. 675/96 ha inteso
garantire, a ben vedere, un regime di maggiore trasparenza nel
trattamento dei dati personali, che nei termini di legge, significa
potere di controllo sui propri dati in ciascuna delle fasi in cui si
articola il trattamento. Notificazione, informativa, diritto di
accesso, registro dei trattamenti, principio di finalità, qualità
dei dati: come intendere altrimenti tali norme se non a garanzia della
trasparenza del trattamento?
E si è anche detto che il diritto alla privacy, in una
visione aperta e dinamica, è il diritto al controllo delle proprie
informazioni, giacché si è passati da una sequenza di "persona-informazione-segretezza"
ad una di "persona-informazione-circolazione-controllo"
intorno alla quale si verrebbe a costruire il nuovo concetto di
riservatezza.
In altri termini la legge garantisce la trasparenza dell'attività di
trattamento, tutelando in tal modo la persona i cui dati sono oggetto
del trattamento. Si comprende la ragione per la quale essa venga
qualificata, si è detto impropriamente, legge sulla privacy,
con ciò ritenendosi che la tutela dei diritti della persona si
realizzi attraverso la definizione di regole di circolazione delle
informazioni. Solo in questo senso, consapevolmente, potrebbe
accettarsi una denominazione diversa da quella sua propria.
Del resto ove si ritenga che il trattamento sia un insieme di atti
funzionalmente collegati in vista di un determinato scopo, cioè
un'attività unitaria che trascende i propri elementi costitutivi in
un tutto che è maggiore della somma delle sue parti, la tutela dei
dati potrà garantirsi solo attraverso il controllo del rispetto delle
norme sul procedimento.
Si tratta, con tutta evidenza, di principi pienamente condivisi nel
nostro ordinamento e, dunque, non sembra azzardato sostenere che la
legge n. 675/96 s'informi anch'essa al più generale principio di
trasparenza già sancito dal legislatore nel '90. Non v'è in
questa prospettiva alcuna inversione di tendenza, potrà invece
dubitarsi del fatto che le due normative in alcuni casi si
sovrappongano, salvo il fatto che diversi restano i presupposti per l'esercizio
del diritto di accesso.
Sul rapporto tra la legge n. 241/90 e la legge n. 675/96 è
intervenuto anche il Garante che ha osservato innanzi tutto che non v'è
incompatibilità tra le disposizioni in materia di tutela dei dati
personali e quelle previgenti in materia di trasparenza dell'attività
amministrativa. In particolare l'Autorità ha affermato che l'accesso
ai documenti amministrativi non sia stato pregiudicato dall'entrata
in vigore della legge n. 675/96 la quale ha sì abrogato le
disposizioni incompatibili con la nuova normativa o con i suoi
principi fondamentali, ma " tra le disposizioni non abrogate
rientrano, certamente, quelle concernenti la pubblicità [..] dei
documenti amministrativi".
Il Garante della privacy, che in questo quadro è finito per
essere il Garante della trasparenza, ha osservato che "tale legge
non ha introdotto un regime di assoluta riservatezza dei dati, e che
si deve verificare caso per caso l'esistenza di altri diritti o di
interessi meritevoli di pari o superiore tutela. Tra tali diritti vi
rientra, certamente, l'accesso ai documenti amministrativi".
La legge tutela la persona attraverso nuove modalità di circolazione
dei dati, riconoscendo il diritto dell'interessato a che i propri
dati personali non vengano resi noti quando non vi sia una ragione
legittima in virtù della quale la comunicazione si renda necessaria,
ovvero non vi sia una norma di legge o di regolamento che
espressamente preveda la comunicazione e la diffusione dei dati
personali da parte di soggetti pubblici a privati o a enti pubblici
economici (art. 27, co. 3, l. n. 675/96).
Nulla questio, dunque, in ordine ai dati personali comuni
giacché, rispetto a questi, la normativa in materia di accesso ai
documenti amministrativi sembra integrare i requisiti richiesti.
Diverso è il discorso per quanto attiene ai dati sensibili.
L'impianto normativo della legge n. 675/96 si fonda, infatti, sulla
distinzione sostanziale tra dati personali comuni e dati sensibili.
Sul presupposto che l'ampiezza e le modalità di tutela della sfera
privata debbano risultare da un'attenta valutazione degli interessi
in gioco, il legislatore ha stabilito, sulla base dei valori
costituzionalmente riconosciuti, livelli differenti di tutela dei
dati.
Si passa da un regime di libera circolazione dei dati personali
comuni, alla previsione di un regime di tutela della riservatezza
rafforzato per i dati cosiddetti sensibili, quei dati, cioè, che
hanno una potenziale attitudine ad essere usati a scopi
discriminatori.
Per questi ultimi, che costituiscono quello che usa definirsi il
nocciolo duro della riservatezza, il legislatore ha dettato una
disciplina più rigida, fissando una soglia massima di riservatezza.
Inutile ripetere che anche la pubblica amministrazione che assuma le
vesti di titolare, deve osservare norme più rigorose nel trattamento
dei dati sensibili, trattandosi di un principio fondamentale della
legge valido per i privati come per i soggetti pubblici.
Si tratta di capire se le norme dell'articolo 24, della legge n.
241/90, nonché della corrispondente norma regolamentare (art. 8, co.
5, lett. d), d.p.r. 352/92) resistano, nella parte relativa al
conflitto tra accesso e riservatezza, al quadro di garanzie che la
legge 675/96 richiede in materia di dati sensibili, o, viceversa,
rispetto a questi dati debbano ritenersi tacitamente abrogate.
Si veda sul punto la sentenza (Cons. St., sez. VI, 26 gennaio 1999, n.
59) con la quale di recente il Consiglio di Stato si è pronunciato in
merito ad un caso di richiesta di accesso da parte del datore di
lavoro ai dati sensibili di suoi ex dipendenti.
Il Consiglio di Stato ha riformato la sentenza 5 dicembre 1997, n.
681, con la quale il Tar Abruzzo Sez. Pescara aveva ritenuto
illegittimo il diniego opposto dall'INAIL alla richiesta di accesso
avanzata da un datore di lavoro relativamente ai documenti contenenti
le analisi cliniche relative a due ex dipendenti che avevano avviato,
presso l'amministrazione, un procedimento diretto a valutare l'indennizzabilità
delle malattie denunciate dagli stessi come professionali.
Il Consiglio di Stato, accogliendo l'appello dell'Amministrazione che
si era opposta alla richiesta di accesso, ha chiarito che le norme
poste dalla legge n. 675/96 debbano considerarsi integrative della
disciplina dettata in generale dalla legge n. 241/90 in tema di
rapporto tra accesso e riservatezza.
Innanzitutto ha ritenuto il Consiglio di Stato che, alla stregua
dell'articolo 43 citato, la legge 675/96 non possa modificare quelle
parti della disciplina del diritto di accesso che sono state
compiutamente regolate dalla legge 241/90, ma intervenga viceversa a
specificare il contenuto della riservatezza quale limite al diritto di
accesso. Invero, alla previsione di detto limite non segue, nella
legge 241/90, alcuna descrizione normativa di cosa debba intendersi
per "riservatezza di terzi, persone, gruppi e imprese" e di
quale portata essa abbia quale limite all'esercizio del diritto di
accesso, per cui, è apparso coerente che alla legge 675/96 dovesse
rinviarsi per una specifica indicazione del suo contenuto.
Posto che la legge 675/96 individua i dati personali riguardanti la
riservatezza e detta le regole per il loro trattamento (in cui rientra
anche la comunicazione), la comunicazione dei dati contenuti nei
documenti di cui si chiede l'accesso, dovrà avvenire, quindi, nel
rispetto di dette norme. Le condizioni che legittimano i soggetti
pubblici a comunicare i dati a terzi privati sono contenute nell'articolo
27, comma 3 per quanto riguarda i dati personali, e nell'articolo
22, comma 3, per quanto attiene ai dati sensibili.
Nel caso di specie, trattandosi di dati sensibili, la comunicazione
dei dati è ammessa solo ove autorizzata, come si ricorderà, da
espressa disposizione di legge "nella quale siano specificati i
tipi di dati che possono essere trattati, le operazioni eseguibili e
le rilevanti finalità di interesse pubblico perseguite". Da ciò
il Consiglio di Stato ha derivato la conseguenza che, nel caso di
richiesta di accesso a documenti contenenti dati sensibili di terzi,
"il diritto alla difesa prevale su quello alla riservatezza solo
se una disposizione di legge espressamente consente al soggetto
pubblico di comunicare a privati i dati oggetto della richiesta".
In altri termini, nel caso di richiesta d'accesso a documenti
contenenti dati sensibili di terzi che la pubblica amministrazione
detiene per altre finalità, l'articolo 24, comma 2, lettera d) non
rappresenta più l'unico referente normativo, ma dovrà rinviarsi
all'articolo 22, comma 3, della legge n. 675/96, in quanto siffatta
norma concorrerebbe a regolamentare materia non compiutamente
disciplinata dalla legge n. 241/90. Di tal ché, dovrebbe concludersi
che non è sufficiente che l'accesso ai documenti contenenti dati
sensibili di terzi sia finalizzato alla cura e alla difesa dell'interesse
giuridico del soggetto richiedente, ma è anche necessario che l'amministrazione
sia autorizzata - a comunicare dati per la cura o la difesa di
propri interessi giuridici - da una espressa disposizione di legge.
Del resto, ha sottolineato il Consiglio di Stato, il diritto alla
difesa non deve essere assolutizzato rispetto a quello alla
riservatezza, dovendo l'amministrazione limitare al minimo le
lesioni che possono derivare ai terzi dall'esercizio del diritto di
accesso per esigenze di difesa. Venendo a quel che si era già detto
in precedenza, l'amministrazione non può comunicare dati sensibili
a terzi al di fuori di esplicite e tassative previsioni di legge,
potendo le esigenze conoscitive essere sempre soddisfatte in sede
giurisdizionale, senza con ciò compromettere irrimediabilmente il
diritto alla riservatezza.
Occorre ora verificare se con l'emanazione del dlgv 135/99 in
materia di trattamento di dati sensibili la normativa in materia di
accesso ai documenti amministrativi offra ancora un adeguato quadro di
garanzie.
Con il decreto in parola il legislatore ha aggiunto una seconda parte
a tenore della quale "In mancanza di espressa disposizione
[..] i soggetti pubblici possono richiedere al Garante, nelle more
della specificazione legislativa, l'individuazione delle attività,
tra quelle demandate ai medesimi soggetti dalla legge, che perseguono
rilevanti finalità di interesse pubblico" per le quali è
autorizzato il trattamento dei dati.
Al comma 3 bis è stata introdotta un ulteriore norma di
salvaguardia: "Nei casi in cui è specificata a norma del comma
3, la finalità di rilevante interesse pubblico, ma non sono
specificati i tipi di dati e le operazioni eseguibili, i soggetti
pubblici [.] identificano e rendono pubblici, secondo i rispettivi
ordinamenti, i tipi di dati e di operazioni strettamente pertinenti e
necessari in relazione alle finalità perseguite nei singoli casi,
aggiornando tale identificazione periodicamente".
Con questa norma il legislatore delegato, rendendo più morbida ed
elastica la disciplina dettata nel '96, ma anche in coerenza con l'impianto
di fondo della legge, ha ritenuto che l'individuazione della
finalità di rilevante interesse pubblico fosse di per sé valido
presupposto di legittimità del trattamento. Si osservi, infatti, che
anche in mancanza di espressa disposizione di legge, il trattamento di
dati è ugualmente consentito ove i soggetti pubblici richiedano al
Garante l'individuazione delle attività, tra quelle agli stessi
demandate per legge, che perseguono rilevanti finalità di interesse
pubblico (articolo 22, comma 3, seconda parte), e che anche se non
sono specificati i tipi di dati e le operazioni eseguibili i soggetti
pubblici possono continuare a trattare dati sensibili, salvo
completare, in un momento necessariamente successivo, la normativa
primaria (art. 22, comma 3 bis e comma 4).
L'individuazione della finalità deve considerarsi, quindi,
rispetto alle altre garanzie previste, condizione necessaria e
sufficiente. Detto in altri termini, l'individuazione della
finalità del trattamento, la quale rientri tra quelle di rilevante
interesse pubblico che il dlgv 135/99 elenca, ovvero sia altrimenti
individuata, soddisfa ex se i requisiti di legittimità del
trattamento richiesti dalla legge.
A tal riguardo si veda il capo II del decreto che individua alcune
rilevanti finalità di interesse pubblico. Ai sensi dell'articolo 16,
comma 1, si considerano, infatti, di rilevante interesse pubblico i
trattamenti di dati sensibili "necessari per far valere il
diritto di difesa in sede amministrativa o giudiziaria, anche da parte
di un terzo" (lett. b), nonché quelli "effettuati in
conformità alle leggi e ai regolamenti per l'applicazione della
disciplina sull'accesso ai documenti amministrativi" (lett. c).
Dunque, il trattamento di dati effettuato in conformità alla
legge che disciplina il diritto di accesso risponde, in virtù del
dlgv 135/99, ad una finalità di rilevante interesse pubblico, cioè
essa risulta perciò solo sufficiente a legittimare il trattamento e
sempre che sia fatta salva l'esigenza che i dati acquisiti in sede
di accesso ai documenti amministrativi vengano utilizzati
esclusivamente per la tutela di quelle situazioni giuridicamente
rilevanti che hanno giustificato l'accesso.
Orbene, se basta la finalità di rilevante interesse pubblico per
ritenere il trattamento legittimo, salvo poi lasciare che le pubbliche
amministrazioni rendano pubblici i tipi di dati e di operazioni
strettamente pertinenti e necessarie in relazione alle finalità
perseguite nei singoli casi, si apre uno spiraglio di luce per la
legge del '90 che, viceversa, fino al decreto n. 135/99 non poteva
soddisfare questi requisiti, essendo richiesta, a tutela della
riservatezza dei terzi, una espressa e qualificata disposizione di
legge.
Ciò confermerebbe che il legislatore, ben lontano dall'aver
introdotto un regime di totale e assoluta riservatezza dei dati, si
muove lungo un percorso che valorizza in modo ancora più forte un
valore di grande civiltà quale è quello della trasparenza dell'attività
amministrativa.
V'è da rilevare comunque che l'accesso è sì finalità di
rilevante interesse pubblico, ai sensi del decreto 135/99, ciò
nondimeno deve ritenersi ulteriore ed eventuale rispetto a quella
propria istituzionale perseguita dall'amministrazione, nel senso che
l'amministrazione non procede al trattamento dei dati personali per
una finalità tipica d'accesso, ma l'accesso è riconosciuto al
fine di assicurare la trasparenza e di favorire lo svolgimento
imparziale dell'attività amministrativa, cioè assolve ad una
funzione, per così dire, strumentale o trasversale rispetto a tutta l'attività
della pubblica amministrazione.
È logico ipotizzare, pertanto, che l'amministrazione, che in
questa fase di attuazione della legge è tenuta ad individuare e i
tipi di dati e le operazioni del trattamento in relazione alle singole
finalità perseguite, si troverà a distinguere quali tra i dati
sensibili che legittimamente tratta per le proprie finalità
istituzionali debbano ritenersi anche accessibili dal soggetto che ne
faccia istanza per la tutela di un proprio interesse giuridico.
Con ogni probabilità non tutti i dati sensibili che l'amministrazione
tratta per le proprie funzioni istituzionali saranno, perciò solo,
accessibili dal soggetto che lo richieda. Non solo perché altra è la
finalità per la quale i dati sono stati originariamente raccolti, e
questa finalità imprime un vincolo di destinazione sui dati trattati,
ma anche perché sono da ritenere accessibili non tutti i dati, ma
tutti e solo quelli pertinenti alla finalità di tutela che ha
motivato l'accesso, e di tutela di un interesse almeno pari a quello
della riservatezza dei terzi.
Non sembra ozioso chiedersi in quale misura l'amministrazione
valuterà discrezionalmente ciò che in concreto ritiene necessario,
per due ordini di ragioni. Una più pragmatica: non tutti i dati
pertinenti, ovvero i dati destinati a servire a quello scopo, si
rivelano di fatto necessari. L'altra, teorica ma a questa collegata,
impone che solo nel rispetto delle norme sulla qualità dei dati si
definisca il contenuto delle diverse posizioni giuridiche delle parti
di questo rapporto: l'amministrazione, i soggetti i cui dati l'amministrazione
tratta per proprie finalità istituzionali, i soggetti titolari del
diritto di accesso a quei documenti amministrativi in cui sono
detenuti i dati personali dei primi.
Una volta riconosciuto il diritto di accesso sulla base dell'interesse
sostanziale che vi sottende, sarà dunque cura dell'amministrazione
valutare l'opportunità di un accesso parziale, eliminando dal
documento ogni altro dato riferito a terzi che si riveli non
strettamente necessario o che non aggiunga altra utilità a quella
sufficiente a raggiungere lo scopo. In nessun caso l'amministrazione
potrà e dovrà riconoscere accesso al soggetto che in modo
pretestuoso voglia conoscere dati di terzi che l'amministrazione
possiede per altra finalità.