Per la quarta volta, dal 1991, un’indagine Eurobarometro prende in esame la
percezione di cittadini ed imprese rispetto alla protezione dei dati personali
in Europa (http://ec.europa.eu/public_opinion/flash/fl_226_en.pdf; http://ec.europa.eu/public_opinion/flash/fl_225_en.pdf). Il quadro che emerge è molto composito.
Il campione comprende circa 27.000 cittadini nei 27 Paesi UE e 4.835 imprese (“titolari
di trattamento”), intervistati ad inizio 2008. Le domande poste ai due gruppi,
seppure formulate e organizzate in modo diverso, hanno riguardato
sostanzialmente la conoscenza della normativa nazionale e dei propri
diritti/doveri, la percezione del livello di pericolo per i propri dati
personali, anche rispetto all’uso di Internet, la conoscenza delle autorità
nazionali e del loro lavoro, il rapporto fra protezione dati e sorveglianza per
finalità connesse alla lotta contro il terrorismo.
Sul versante cittadini, colpisce soprattutto l’elevata preoccupazione
manifestata in tutti i Paesi per i propri dati personali (media: 64%), un dato
che rimane sostanzialmente invariato nel corso degli anni; in Italia, tuttavia,
solo 12 persone su 100 si dicono “molto preoccupate” al riguardo. I
cittadini hanno scarsissima fiducia, in particolare, nelle società che fanno
marketing, nelle centrali rischi e nelle agenzie di viaggio, mentre si fidano
dei medici, delle forze dell’ordine e degli organismi di previdenza sociale
– ed il livello di fiducia in questi ultimi soggetti è andato crescendo negli
anni. Quali sono gli elementi positivi? In primo luogo, il fatto che la
stragrande maggioranza dei cittadini sappia di avere alcuni diritti rispetto ai
propri dati personali (opporsi all’uso per scopi di marketing diretto, dare il
consenso, chiedere la cancellazione o rettifica) compreso il diritto ad un’informativa
adeguata (2/3); l’Italia si allinea sulla media europea in questi ambiti. Va
poi sottolineato che più dell’80% sa che si corrono rischi specifici su
Internet e che sono necessarie cautele adeguate a protezione dei dati; più del
40% di chi usa Internet (una percentuale molto più alta rispetto al 2004) sa
che esistono tecnologie che possono aiutare gli utenti a difendersi, ad esempio,
dal rischio di un furto di identità, e 1 su 4 vi ha fatto ricorso.
Sono però più numerose le ombre, come dicevamo. Più della metà dei cittadini
non ritiene che la protezione offerta ai propri dati (dalle norme nazionali) sia
sufficiente; più di un terzo, in media, non sa che un cittadino ha diritto al
risarcimento in caso di danni derivanti da abusi dei suoi dati personali (in
alcuni Paesi questa percentuale supera la metà degli intervistati); la metà
non sa che ha il diritto di accedere ai propri dati personali detenuti da terzi.
Appena 1 cittadino su 6 (17%) sa che non si possono trasferire dati verso Paesi
extra-Ue che non garantiscono un livello adeguato di protezione (in Italia
appena il 13% ne è consapevole). E poi: solo il 28% sa che esiste un’autorità
nazionale incaricata della protezione dei dati (in Italia 1 cittadino su 3 ne è
consapevole) – un dato che non è cambiato rispetto a quattro anni fa. Sembra
quindi che ci sia molto da fare, soprattutto per sensibilizzare i cittadini
rispetto ai propri diritti e far conoscere le attività ed i poteri delle
autorità nazionali – anche perché un dato comune è che la conoscenza di
diritti e doveri aumenta con il livello di educazione e l’età degli
intervistati. Il fattore educazione risulta quindi estremamente importante: è
su questo versante che le autorità sembrano chiamate ad impegnarsi di più.
Per quanto riguarda le “imprese”, l’indagine mostra invece qualche ombra
in meno. La metà non crede che le norme nazionali siano in grado di tutelare
sufficientemente i cittadini, e circa il 50% non ritiene sufficiente l’armonizzazione
delle norme a livello europeo; tuttavia, 9 imprese su 10 vedono positivamente l’esistenza
di norme (nazionali ed europee) a tutela dei diritti dei cittadini in questo
ambito, e solo 3 imprese su 10 non adottano misure di sicurezza nei
trasferimenti di dati personali effettuati attraverso Internet (prassi comune al
65% di esse). Oltre la metà sa che esistono strumenti (come le Pet, Privacy
Enhancing Technologies) che consentono di potenziare la tutela della privacy
online; in Italia la percentuale è superiore al 65%. La consapevolezza dei
doveri legati alla normativa in materia è diffusa, e qui l’Italia guida la
classifica: il 96% delle imprese italiane sa che deve fornire un’informativa
sulla privacy (o una privacy policy) e la aggiorna regolarmente, e più di 2/3
verifica quante volte la policy sia visitata dagli utenti. Ben 4 imprese su 10
in Italia hanno contattato il Garante (soprattutto per chiarimenti sulla
normativa e/o in materia di notificazione dei trattamenti) – contro una media
europea del 13%. Per l’80% delle imprese, inoltre, occorre concentrarsi in
futuro su norme più armonizzate in materia di informativa, e ben il 75% chiede
maggiori chiarimenti sull’applicazione di definizioni e concetti-chiave della
direttiva UE. Ancora una volta, c’è spazio per le attività di
sensibilizzazione ed educazione da parte delle autorità di protezione dati;
occorre rilevare, in modo particolare, che le iniziative adottate negli ultimi
anni anche dalla Commissione europea e dal Gruppo Articolo 29 per una “migliore
attuazione della direttiva” si sono concentrate sugli stessi obiettivi.
Tuttavia, resta evidentemente ancora molto da fare.
Un discorso a parte merita il rapporto fra protezione dati e lotta al
terrorismo, sul quale cittadini ed imprese hanno manifestato lo stesso
atteggiamento. La maggioranza è nettamente favorevole ad una sorveglianza
potenziata (telefono, Internet, linee aeree), ma è anche nettamente contraria a
misure generalizzate e di durata illimitata. Sì, dunque, a misure di
sorveglianza più severe se finalizzate alla lotta contro il terrorismo
internazionale, ma deve trattarsi di misure limitate nel tempo e focalizzate su
alcune categorie di soggetti (ad esempio, solo soggetti sospettati di
appartenere ad organizzazioni di stampo terroristico – indicazione espressa da
circa 1/3 degli intervistati).
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