Di solito non credo alle teorie del complotto, ma questa
volta credo di aver finalmente capito come stanno le cose: l’Italia è da anni
governata, sotto mentite spoglie, da una classe politica appartenente alla
comunità Amish. Non si spiega altrimenti la tecnofobia che, da tempo e nelle
più svariate occasioni, sembra caratterizzare le azioni ed i pensieri dei
nostri uomini politici più illustri.
Gli Amish, lo ricordo a beneficio dei più distratti, sono
quei pacifici talebani occidentali appartenenti ad una chiesa di stampo
protestante anabattista i quali, fuggiti dalla Svizzera verso il 1700 e
stanziatisi tipicamente in Pennsylvania, rifiutano per motivi etico-religiosi
ogni moderna tecnologia considerandola fonte di perdizione. Nelle comunità
Amish non è così ammessa la corrente elettrica, e di conseguenza non vi sono
elettrodomestici o televisori; le uniche fonti accettabili di energia sono
quelle naturali quali sole, acqua e vento, oltre che quella muscolare; l’unica
trazione impiegabile per i veicoli è quella animale; le transazioni economiche
si fanno in contanti, essendo bandito il ricorso a carte di credito e simili. Un
po’ come sarà l’Italia tra una cinquantina d’anni, se continuiamo così.
Ricordo ad esempio quando, solo pochi anni fa, un ministro
dell’innovazione si vantò in un convegno pubblico della non comune resistenza
del nostro Paese ad attacchi terroristici di tipo informatico miranti a
sabotarne le infrastrutture critiche: tale invidiabile capacità veniva
accreditata, con evidente soddisfazione, al fatto che da noi, contrariamente al
resto del mondo, tali infrastrutture sono ancora realizzate con tecnologie non
informatiche ed anzi decisamente obsolete, risultando così intrinsecamente non
vulnerabili alle sofisticate minacce della moderna cyberwar. Un bel
vanto, non c’è che dire!
E cosa pensare di un Garante per la tutela dei dati personali
che non perde occasione di scagliare i propri anatemi contro il proliferare di
diavolerie tecnologiche sospette e pericolose quali le telecamere o i sistemi di
riconoscimento biometrico, sostanzialmente scoraggiandone (se non esplicitamente
vietandone) l’uso in quasi ogni situazione di comune utilità?
Per non parlare infine del Parlamento tutto, il quale di tanto in tanto ritorna
alla carica con tentativi di legge ottusi ed antistorici, ancorché bipartisan,
miranti a reprimere l’utilizzo e la stessa diffusione di Internet e dei suoi
servizi più innovativi ed utili, con la scusa del terrorismo o della tutela dei
soggetti più deboli quali i minori.
In quest’ottica di tecnofobia dilagante si inserisce dunque
oggi, a mo’ di preziosa ciliegina sulla torta, la devastante dichiarazione del
nostro ministro dell’interno, il quale ci viene a dire che la firma digitale
è in realtà una stregoneria illusoria ed inaffidabile, tutto sommato conviene
rinunciare ai benefici dell’evoluzione tecnologica per affidarci alla sana
vecchia carta. Una perfetta strategia per affrontare le sfide della società
dell’informazione….
Ma c’è di più. Stando a quanto riportato dalle agenzie,
infatti, il ministro ha sostenuto che “La firma elettronica può essere
truccata e taroccata”: in che modo non è dato sapere, dato che non si è
peritato di spiegarlo né al volgo né, immagino, alla comunità internazionale
di ricercatori, scienziati e tecnici che da ormai trent’anni è fermamente
convinta della bontà degli algoritmi di crittografia a chiave pubblica e della
robustezza dei meccanismi di firma digitale. (Per combinazione è proprio nel
1976, infatti, che Diffie ed Hellmann pubblicarono il loro storico saggio New
directions in cryptography il quale, ponendo le fondamenta matematiche per
la creazione dei sistemi di crittografia a chiave pubblica, aprì la strada alle
nuove e rivoluzionare tecniche di firma digitale con cui è possibile dare
certezza dell'integrità e della provenienza dei documenti “smaterializzati”).
I casi allora sono due: o l’onorevole Amato ha parlato a
ragion veduta, magari sulla base di informazioni riservate che il suo ruolo di
ministro dell’interno gli consente di ottenere da quelle speciali agenzie
governative istituzionalmente dedite alla ricerca crittanalitica; oppure ha
semplicemente espresso i propri convincimenti personali, basati non su
conoscenze specifiche, ma su mere sensazioni tecnicamente infondate.
Nel primo caso farebbe bene a riferire al Parlamento,
rapidamente e con dovizia di particolari, in merito a tutto ciò che egli
conosce sulle vulnerabilità delle firme digitali: si tratta infatti di
informazioni vitali per la sopravvivenza dell’intera civiltà occidentale, la
quale si sta sempre più orientando a costruire la “società senza carta”
dando pieno valore legale ai documenti elettronici sottoscritti mediante firma
digitale (e l’Italia, grazie alla lungimiranza del ministro Bassanini e dell’allora
Autorità per l’informatica nella pubblica amministrazione, fu il primo Paese
al mondo a dotarsi di una legislazione organica in tal senso).
Nel secondo caso invece il Ministro ha compiuto un grave e
irresponsabile atto di disinformazione nei confronti dell’intera società,
denigrando e minando alla base la fiducia in quel complesso castello di norme e
tecnologie che, comunque, costituiscono tuttora legge dello Stato e sulle quali
da dieci anni l’intera pubblica amministrazione (per non parlare del settore
privato) sta giocando la sua stessa sopravvivenza e credibilità. In questa
seconda ipotesi, che a dire il vero sembra assai più probabile della prima, il
Ministro meriterebbe di essere iscritto anche lui nel registro degli indagati
assieme a Deaglio e Cremagnani per violazione dell’articolo 656 del Codice
Penale, avendo diffuso “notizie false, esagerate o tendenziose, per le quali
possa essere turbato l'ordine pubblico”.
In ogni caso rimane il rammarico per l’ennesima occasione
perduta. Le nuove tecnologie andrebbero promosse ed incentivate, ed andrebbe
spiegato alla gente il loro corretto uso mediante un’adeguata e corretta
informazione. La disinformazione invece, specie se proveniente da autorevoli
ambiti istituzionali, porta inevitabilmente al sospetto ed al rifiuto: e
rifiutare la tecnologia è proprio la cosa più sbagliata che possiamo fare,
almeno se vogliamo continuare a sedere al tavolo con gli altri membri del G8.
Ma non dimentichiamoci che l’Italia è quel Paese in cui
non molti anni fa, non appena iniziarono a diffondersi presso il grande pubblico
i mezzi di pagamento “virtuale”, il governo impose una tassa sulle
transazioni effettuate mediante carte di credito: così anziché favorirne l’uso,
con ovvii vantaggi sociali legati all’assenza di denaro contante ed alla
maggior sicurezza intrinseca dell’acquisto, se ne ostacolò l’accettazione
sociale. E che dire, alla luce di ciò, della a lungo vociferata intenzione di
tassare SMS e messaggi di posta elettronica?
Se tanto mi dà tanto non mi meraviglierei che, sull’onda
di un sacro furore neo-oscurantista, qualche politico di genio possa stabilire
che i computer e le reti sono tutto sommato inutili e insicuri, proponendone la
loro abolizione definitiva. Molto meglio penna e calamaio, come facevano i
nostri nonni; e per le comunicazioni a distanza, corrieri a cavallo e piccioni
viaggiatori. D’altronde in Pennsylvania le cose funzionano così da secoli, e
nessuno si lamenta. Pensate quanta corrente potremmo risparmiare abolendo l’informatica
nella pubblica amministrazione, e di quanto aumenteremmo la sicurezza dello
Stato contro gli hacker e i cyberterroristi! E poi, chissà… il
livello di efficienza della macchina statale potrebbe anche non peggiorare di
molto rispetto all’attuale…
(C. G.)
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