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Attualità

Tecnofobia e disinformazione

04.12.06

 

Di solito non credo alle teorie del complotto, ma questa volta credo di aver finalmente capito come stanno le cose: l’Italia è da anni governata, sotto mentite spoglie, da una classe politica appartenente alla comunità Amish. Non si spiega altrimenti la tecnofobia che, da tempo e nelle più svariate occasioni, sembra caratterizzare le azioni ed i pensieri dei nostri uomini politici più illustri.

Gli Amish, lo ricordo a beneficio dei più distratti, sono quei pacifici talebani occidentali appartenenti ad una chiesa di stampo protestante anabattista i quali, fuggiti dalla Svizzera verso il 1700 e stanziatisi tipicamente in Pennsylvania, rifiutano per motivi etico-religiosi ogni moderna tecnologia considerandola fonte di perdizione. Nelle comunità Amish non è così ammessa la corrente elettrica, e di conseguenza non vi sono elettrodomestici o televisori; le uniche fonti accettabili di energia sono quelle naturali quali sole, acqua e vento, oltre che quella muscolare; l’unica trazione impiegabile per i veicoli è quella animale; le transazioni economiche si fanno in contanti, essendo bandito il ricorso a carte di credito e simili. Un po’ come sarà l’Italia tra una cinquantina d’anni, se continuiamo così.

Ricordo ad esempio quando, solo pochi anni fa, un ministro dell’innovazione si vantò in un convegno pubblico della non comune resistenza del nostro Paese ad attacchi terroristici di tipo informatico miranti a sabotarne le infrastrutture critiche: tale invidiabile capacità veniva accreditata, con evidente soddisfazione, al fatto che da noi, contrariamente al resto del mondo, tali infrastrutture sono ancora realizzate con tecnologie non informatiche ed anzi decisamente obsolete, risultando così intrinsecamente non vulnerabili alle sofisticate minacce della moderna cyberwar. Un bel vanto, non c’è che dire!

E cosa pensare di un Garante per la tutela dei dati personali che non perde occasione di scagliare i propri anatemi contro il proliferare di diavolerie tecnologiche sospette e pericolose quali le telecamere o i sistemi di riconoscimento biometrico, sostanzialmente scoraggiandone (se non esplicitamente vietandone) l’uso in quasi ogni situazione di comune utilità?
Per non parlare infine del Parlamento tutto, il quale di tanto in tanto ritorna alla carica con tentativi di legge ottusi ed antistorici, ancorché bipartisan, miranti a reprimere l’utilizzo e la stessa diffusione di Internet e dei suoi servizi più innovativi ed utili, con la scusa del terrorismo o della tutela dei soggetti più deboli quali i minori.

In quest’ottica di tecnofobia dilagante si inserisce dunque oggi, a mo’ di preziosa ciliegina sulla torta, la devastante dichiarazione del nostro ministro dell’interno, il quale ci viene a dire che la firma digitale è in realtà una stregoneria illusoria ed inaffidabile, tutto sommato conviene rinunciare ai benefici dell’evoluzione tecnologica per affidarci alla sana vecchia carta. Una perfetta strategia per affrontare le sfide della società dell’informazione….

Ma c’è di più. Stando a quanto riportato dalle agenzie, infatti, il ministro ha sostenuto che “La firma elettronica può essere truccata e taroccata”: in che modo non è dato sapere, dato che non si è peritato di spiegarlo né al volgo né, immagino, alla comunità internazionale di ricercatori, scienziati e tecnici che da ormai trent’anni è fermamente convinta della bontà degli algoritmi di crittografia a chiave pubblica e della robustezza dei meccanismi di firma digitale. (Per combinazione è proprio nel 1976, infatti, che Diffie ed Hellmann pubblicarono il loro storico saggio New directions in cryptography il quale, ponendo le fondamenta matematiche per la creazione dei sistemi di crittografia a chiave pubblica, aprì la strada alle nuove e rivoluzionare tecniche di firma digitale con cui è possibile dare certezza dell'integrità e della provenienza dei documenti “smaterializzati”).

I casi allora sono due: o l’onorevole Amato ha parlato a ragion veduta, magari sulla base di informazioni riservate che il suo ruolo di ministro dell’interno gli consente di ottenere da quelle speciali agenzie governative istituzionalmente dedite alla ricerca crittanalitica; oppure ha semplicemente espresso i propri convincimenti personali, basati non su conoscenze specifiche, ma su mere sensazioni tecnicamente infondate.

Nel primo caso farebbe bene a riferire al Parlamento, rapidamente e con dovizia di particolari, in merito a tutto ciò che egli conosce sulle vulnerabilità delle firme digitali: si tratta infatti di informazioni vitali per la sopravvivenza dell’intera civiltà occidentale, la quale si sta sempre più orientando a costruire la “società senza carta” dando pieno valore legale ai documenti elettronici sottoscritti mediante firma digitale (e l’Italia, grazie alla lungimiranza del ministro Bassanini e dell’allora Autorità per l’informatica nella pubblica amministrazione, fu il primo Paese al mondo a dotarsi di una legislazione organica in tal senso).

Nel secondo caso invece il Ministro ha compiuto un grave e irresponsabile atto di disinformazione nei confronti dell’intera società, denigrando e minando alla base la fiducia in quel complesso castello di norme e tecnologie che, comunque, costituiscono tuttora legge dello Stato e sulle quali da dieci anni l’intera pubblica amministrazione (per non parlare del settore privato) sta giocando la sua stessa sopravvivenza e credibilità. In questa seconda ipotesi, che a dire il vero sembra assai più probabile della prima, il Ministro meriterebbe di essere iscritto anche lui nel registro degli indagati assieme a Deaglio e Cremagnani per violazione dell’articolo 656 del Codice Penale, avendo diffuso “notizie false, esagerate o tendenziose, per le quali possa essere turbato l'ordine pubblico”.

In ogni caso rimane il rammarico per l’ennesima occasione perduta. Le nuove tecnologie andrebbero promosse ed incentivate, ed andrebbe spiegato alla gente il loro corretto uso mediante un’adeguata e corretta informazione. La disinformazione invece, specie se proveniente da autorevoli ambiti istituzionali, porta inevitabilmente al sospetto ed al rifiuto: e rifiutare la tecnologia è proprio la cosa più sbagliata che possiamo fare, almeno se vogliamo continuare a sedere al tavolo con gli altri membri del G8.

Ma non dimentichiamoci che l’Italia è quel Paese in cui non molti anni fa, non appena iniziarono a diffondersi presso il grande pubblico i mezzi di pagamento “virtuale”, il governo impose una tassa sulle transazioni effettuate mediante carte di credito: così anziché favorirne l’uso, con ovvii vantaggi sociali legati all’assenza di denaro contante ed alla maggior sicurezza intrinseca dell’acquisto, se ne ostacolò l’accettazione sociale. E che dire, alla luce di ciò, della a lungo vociferata intenzione di tassare SMS e messaggi di posta elettronica?

Se tanto mi dà tanto non mi meraviglierei che, sull’onda di un sacro furore neo-oscurantista, qualche politico di genio possa stabilire che i computer e le reti sono tutto sommato inutili e insicuri, proponendone la loro abolizione definitiva. Molto meglio penna e calamaio, come facevano i nostri nonni; e per le comunicazioni a distanza, corrieri a cavallo e piccioni viaggiatori. D’altronde in Pennsylvania le cose funzionano così da secoli, e nessuno si lamenta. Pensate quanta corrente potremmo risparmiare abolendo l’informatica nella pubblica amministrazione, e di quanto aumenteremmo la sicurezza dello Stato contro gli hacker e i cyberterroristi! E poi, chissà… il livello di efficienza della macchina statale potrebbe anche non peggiorare di molto rispetto all’attuale…

(C. G.)

 

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