Si è svolta a Milano il 12, 13 e 14 febbraio la terza edizione di
Infosecurity, la fiera dedicata alla sicurezza informatica.
Una cosa colpisce subito il visitatore: la maggior serietà dell'offerta, soprattutto
se confrontata ad esempio con SMAU dove, secondo me, nelle ultime edizioni si è
puntato più all'apparenza e meno al contenuto dei prodotti, insomma ad
Infosecurity la gente la si attirava con i prodotti e soluzioni non con i gadget
o altro.
Girando fra i vari stand si è potuto notare che la parte del leone l'ha
fatta l'offerta di firewall, sia come software che come appliance, di
sistemi antivirus, oltre alle ditte di consulenza che offrivano security
assesment e penetration test. Pochissime le ditte che andavano oltre
la sicurezza perimetrale. Pochissime le soluzioni ad esempio di riconoscimento
degli utenti basate su parametri biometrici o smart card.
Un altro grande assente è stato l'open source. Ho trovato una sola soluzione di
appliance firewall basata su Linux, quella della Thunderwall.
Oltre agli stand dei vari produttori è stato organizzato un nutrito numero
di seminari su vari temi legati alla sicurezza, a cui hanno partecipato, fra gli
altri, esperti dell'AIPA, della Polizia delle comunicazioni, della Guardia di
finanza, di istituti bancari e professori universitari.
Qui il tono era diverso. Si è parlato molto della sicurezza interna, della
necessità di monitorare costantemente i sistemi. Si è più volte raccomandato
di dedicare risorse all'analisi dei log dei sistemi.
Mi ha fatto piacere constatare che molti ritengono che le ditte italiane non
investano a sufficienza in risorse umane, e che sia stato evidenziato che il
dare la sicurezza in outsourcing ha senso solo per le piccole imprese dove il
costo sarebbe eccessivo, in tutti gli altri casi dovrebbe essere curata
internamente dedicando e specializzando molto alcune persone. E' stata auspicata
una maggior cooperazione fra pubblico e privato, ma sopratutto, finalmente, si
comincia a capire che il problema della sicurezza non è solo un problema
tecnico, ma è principalmente un problema di cultura e di organizzazione.
Al centro della fiera c'era un internet point da dove molte persone hanno
controllato la loro posta elettronica. Peccato che pochi o forse nessuno si sia
preoccupato di cancellare le tracce di ciò che aveva fatto, prima di
allontanarsi dalla postazione. Ho visto un signore leggere la posta via web
utilizzando il protocollo https (quindi in modo sicuro), ma quando ha finito non
si è preoccupato nemmeno di chiudere il browser, semplicemente se ne è andato
lasciando di fatto la sessione aperta. Infatti sarebbe stato sufficiente fare
clic su "pagina precedente" per vedere quello che aveva letto e quello
che aveva scritto. Questo purtroppo è il livello di cultura della sicurezza
informatica in Italia.
Per quanto riguarda il rapporto fra tecnologia e legislazione, è stato
osservatoancora una volta come i due settori vadano a velocità molto
differenti. Alcune leggi oggi in vigore, come la 547/93 sui reati informatici,
sono state scritte quando Internet era ancora confinata negli istituti di
ricerca e si navigava solo a linea di comando. Ho sentito affermare che sono
necessarie nuove leggi in materia informatica, personalmente però penso sia
più che sufficiente correggere quelle che già ci sono e non solo per tener
conto dell'evoluzione tecnologica che c'è stata negli ultimi anni, ma anche per
rendere il testo utilizzabile, soprattutto per noi tecnici che poi dobbiamo
arrampicarci sugli specchi per cercare di rispettare le norme.
In un intervento è stato evidenziato come in Italia manchi un coordinamento
che sia in grado di far fronte ad un eventuale problema serio. Se, ad esempio,
il virus che poche settimane fa ha colpito i sistemi su cui è installato
Microsoft SQL server, oltre a creare non pochi problemi di connessione
(tecnicamente un Denial of Service) avesse anche messo le mani dentro i
dati, magari cancellandone alcuni o, peggio, modificandone il contenuto, il
disastro sarebbe stato inimmaginabile.
In un solo intervento ho sentito parlare di open source e purtroppo in
maniera errata. Infatti l'open source è stato nominato come se si trattasse di
un marchio di un qualche nuovo produttore, mentre basterebbe tradurre le due
parole (open source = codice aperto) e ragionarci sopra per capire che di
tutt'altro si tratta. Il fatto che non sia scontato che la sicurezza dei
software open source sia migliore di quelli a codice chiuso posso anche capire
che non tutti lo intuiscano subito, ma basterebbe pensare che open source è
sinonimo di trasparenza, con tutto ciò che da qui discende, per capire che può
dare maggiori garanzie. La trasparenza è una delle cose più richieste da molti
e nel caso delle amministrazioni pubbliche dovrebbe essere la regola.
Nell'informatica la trasparenza è possibile, basterebbe prenderla in
considerazione.
Interessante l'intervento del colonnello Kevin McCrohan del NIPC (National
Infrastrcture Protection Center) dell'FBI che ha parlato non solo dei
crimini informatici, ma anche delle guerre che vengono combattute tramite
Internet. Ha evidenziato come il problema della sicurezza abbia nelle
comunicazioni il suo tallone d'Achille ed è lì che tutti dovrebbero porre
maggior attenzione.
Fra i vari dati che il colonello ha fornito mi ha colpito la notizia che ben il
70% degli attacchi informatici portati contro aziende che forniscono energia nel
2002 siano stati significativi.
Alla fine del suo intervento una delle domande è stata: "Che cosa si sta
facendo in America per migliorare la qualità del software e limitare i danni
causati dalle vulnerabilita?"
La risposta è iniziata con un significativo: "Well, Microsoft produces
most of our problems ..."