Cuius commodum eius et incommodum. Negli anni '60, chi
doveva gestire grandi archivi con le rudimentali (e lente) macchine elettroniche
del tempo, attribuiva "codici-clienti" che avevano una logica interna
di numerazione. Se una perforatrice sbagliava a "scrivere", la
macchina, programmata per verifica interna, se ne "accorgeva" e
scartava la scheda. Non è pensabile che 40 anni dopo, con computer di grande
capacità, velocissimi, non molto costosi, accessibili a tutti, interconnessi
con il mondo intero, non siamo in grado di effettuare in continuità (e in tempo
reale) verifiche incrociate, che includano ordini, utilizzo di materie prime,
comparazioni di peso prima e dopo le lavorazioni (indispensabili anche per
controllo emissioni), inventario, fatture, banche, cassa, i cui risultati
dovranno essere non solo disponibili al vertice delle aziende, ma dovranno
essere prontamente accessibili anche agli organi di controllo, le borse, gli
investitori.
E' inimmaginabile che non si possano oggigiorno controllare tutte le
operazioni su titoli mobiliari per rendere non eseguibili operazioni illegittime
o puramente speculative. Se non viene fatto, la ragione non può che essere una
sola: non lo si vuole fare. L'obiezione affrettata, e non convincente, è che
farlo costituirebbe compromissione della riservatezza delle aziende. Non si
possono rendere pubblici, si asserisce, dati che, anche se indirettamente,
potrebbero svelare costi di produzione, margini, strategie industriali, e, in
ultima analisi, compromettere la competitività. Vero. Ma la pretesa di
riservatezza deve trovare il compromesso con la vecchia regola del "cuius
commodum eius et incommodum": chi vuole godere dei vantaggi deve
accettare anche gli svantaggi, chi vuole mantenere riservate le proprie finanze
(e tutto il resto), dovrebbe astenersi dal sollecitare l'investimento privato, o
farlo in modo tale da garantire al pubblico informazione tempestiva, precoce,
completa, e in buona fede, su tutte le operazioni e su tutti gli eventi che
incidono, o potrebbero verosimilmente incidere sulla redditività dell'azienda e
sulla sua salute finanziaria. Con i mezzi oggi disponibili, è possibile farlo.
"Investitori di tutto il mondo, unitevi!" Così titolava un
articolo del "Fortune Magazine" del 24 giugno 2002. Era il tempo degli
scandali finanziari Enron, WorldCom (e altri). Con mossa inadeguata e maldestra,
gli Stati Uniti reagirono con una legge, il Sarbanes-Oxley Act of 2002
(applicabile alle grandi società quotate) con la quale vennero introdotte
regole più rigide rispetto a conflitti di interessi, obblighi di comunicazione,
perdita - in determinate circostanze e senza necessità di provare
colpevolezza - del "bonus" e dei profitti fatti con la
vendita di azioni (nell'anno immediatamente successivo a quello cui si
riferiscono tali guadagni), responsabilità personale civile e penale dei
presidenti e responsabili finanziari per la correttezza dei bilanci e rapporti
contabili periodici delle società.
La nuova legge enuncia, significativamente, che le società quotate avranno
l'obbligo di comunicare "su base rapida e aggiornata" (on a rapid
and current basis) e "in linguaggio comprensibile" (in plain
English) tutte le informazioni aggiuntive che si riferiscano a cambiamenti
importanti della condizione finanziaria od operativa dell'emittente.
La legge non manca di inasprire - come usa in situazioni critiche - le
conseguenze penali: prigione fino a 10 anni per presidenti (CEO) e direttori
finanziari (CFO) i quali certificano, nei rapporti periodici, che l'informazione
ivi contenuta "rappresenta correttamente in ogni suo aspetto rilevante le
condizioni finanziarie e i risultati operativi dell'emittente" pur sapendo
che ciò non corrisponde al vero (la prigione è fino a 20 anni per chi rende la
dichiarazione dolosamente). La prigione è inoltre di massimo 25 anni per chi si
rende colpevole di frode mobiliare, 10 anni per chi distrugge documenti
contabili (prima che sia scaduto il periodo obbligatorio di conservazione di
cinque anni dopo la fine dell'anno fiscale), 20 anni per chi altera documenti
per ostacolare un'investigazione federale, e 10 anni per chi intraprende azioni
di disturbo o ritorsione contro un informante.
Scandali finanziari: un fenomeno non solo americano. Il fenomeno di
rapporti contabili scorretti e di informazioni incomplete, intempestive e
lacunose non esiste solo negli Stati Uniti. Casi "enroneschi" si sono
susseguiti, dal 2002, in vari Paesi, inclusa l'Italia, dove fa scalpore, in
questi giorni, il tracollo della "Parmalat". La teoria del capitalismo
è che occorre lasciare che esso si corregga da sé. I bilanci delle società
torneranno a essere affidabili, la bolla di sapone si sgonfierà senza che il
governo debba venire in aiuto; questo è il concetto. Sarà anche giusto,
finché si tratta del corretto gioco di mercato; ma non è valido quando si
travalicano le barriere della frode e degli altri comportamenti illeciti e
disonesti. Sono purtroppo numerosi i gestori che sfruttano le falle del sistema
legislativo, approfittano di nascosto di conoscenze privilegiate, tengono
segreti i conflitti d'interesse, violano i doveri professionali, o addirittura
intenzionalmente gli obblighi verso gli azionisti. Per profitto, o semplice
trascuratezza e incompetenza.
Il presidente degli Stati Uniti disse, in luglio del 2002: "La mia
amministrazione farà tutto quanto in suo potere per segnare la fine dei libri
addomesticati, che nascondono la verità e violano la legge". E aggiunse:
"Il denaro che gli uomini del vertice di una società hanno ricevuto in
base a contabilità truccata dovrà essere restituito". E' già qualcosa.
Ma non basta. In America, nessuno crede che si faccia sul serio (salvo qualche
esemplare condanna a lunga reclusione): nonostante la retorica, il piano di
responsabilità delle società, annunciato da Bush, è definito in America
"pretty anemic". E lo è. Non sarà il Sarbanes-Oxley Act
a segnare l'inizio della riscoperta di un giusto senso di responsabilità del
vertice.
L'Italia farebbe bene a cercare una soluzione "tecnica" propria ai
problemi delle frodi finanziarie piuttosto che affidarsi a servile imitazione
dell'America (come è stato suggerito, recentemente, anche da esponenti
politici). Il semplicistico inasprimento delle pene detentive non va alla radice
del problema; e non lo risolve. Gli onesti non hanno bisogno del deterrente per
rimanere onesti, mentre i disonesti continueranno a ridersela del deterrente.
Mettere in prigione i responsabili di frode certo non nuoce (li rende
inoffensivi) ma giova marginalmente agli investitori danneggiati. Quello che
serve è un meccanismo che automaticamente impedisca l'attuazione di pratiche
finanziarie scorrette e fraudolenti, e garantisca restituzioni o risarcimenti
quando, nonostante tutto, le frodi riescono.
Rischio assunto diverso da quello contemplato. Si sono sentiti in questi
giorni commenti affrettati, e di larga approssimazione. Il presidente dell'ABI
avrebbe detto ( "Corriere" del 20 gennaio 2004), che "non va
rimborsato chi sapeva che, comprando obbligazioni Parmalat, si assumeva un
rischio". Naturalmente è giusto che chi si azzarda nell'investimento
azionario debba essere preparato a perdere il suo capitale. Occorre però
applicare (uso, scusandomi coi lettori, l'anglicismo ormai di moda) quello che
viene definito level playing field. Chi investe fa affidamento che i
bilanci delle società siano onesti e completi. I bilanci della WorldCom, come
quelli della Parmalat, erano ingannevoli. Gli investitori non lo sapevano (e non
avevano facile mezzo per scoprirlo). Il sistema capitalistico è basato sul
rischio, ma non funziona se al risparmiatore viene detta una cosa per un'altra,
se gli vengono occultati fatti determinanti per le sue scelte. Allora, il gioco
cambia perché l'investitore assume un rischio diverso da quello contemplato. E
deve essere risarcito.
Omnia patefacienda. Lo aveva già detto Cicerone: la buona fede esige
di comunicare ogni cosa che si sa per evitare che il venditore agisca sulla base
di conoscenze non note all'acquirente.
Il principio della correttezza pervade tutto il nostro codice civile ed è la
regola fondamentale dei nostri comportamenti sociali. La causa di un contratto
deve essere lecita, non in frode alla legge, sono nulli i patti preventivi di
esonero o limitazione di responsabilità per violazione di obblighi derivanti da
norme di ordine pubblico. La legge ammette l'azione di annullamento in caso di
vizio del consenso e di errore essenziale.
Le banche che conoscevano, o avrebbero potuto conoscere, in base a dati
disponibili o procurabili, la situazione finanziaria delle società emittenti,
ma hanno ciononostante consigliato, invogliato, incoraggiato i loro clienti ad
acquistare valori mobiliari poco affidabili, o hanno semplicemente taciuto in
violazione dell'obbligo di parlare, hanno violato gli obblighi inerenti alla
fiducia in esse riposti; e sono tenute a tenere indenni i risparmiatori che esse
hanno indotti all'incauto acquisto che ha causato danno.
Non è concetto nuovo. Già nel 1990, in un caso in cui la banca
intermediaria (che non aveva essa stessa emesso il prospetto) aveva, con la sua
consulenza, indotto i clienti a trasferire risparmi su titoli diversi, e questi
avevano subito perdite, la corte d'appello di Milano statuì che la banca doveva
rispondere, non in base al concetto generale della responsabilità
extracontrattuale, basata sul neminem laedere, ma in base alla violazione
della fiducia che i clienti avevano in essa riposta. Questa responsabilità,
secondo la corte, si basava sull'art. 1337 codice civile perché culpa in
contrahendo, oltre a proteggere l'affidamento che una parte ha riposto nelle
comunicazioni ricevute dall'altra, è intesa ad assicurare, nell'interesse
generale della società, la funzionalità del mercato e l'ordinato flusso dei
commerci.
Le parti possono certamente accordarsi a escludere specifici obblighi di
comunicazione, a condizione che tali esclusioni non offendano il principio
superiore di onestà, fiducia e cooperazione, indispensabili per ogni relazione
commerciale basata su connotazioni etiche.
Occorre costantemente ricordare a noi stessi quali comportamenti etici la
legge impone nelle relazioni d'affari. In Italia, la regola è chiara: le parti
che entrano in trattative per concludere un affare devono comunicarsi tutti i
fatti rilevanti che esse conoscono (o dovrebbero conoscere). Una corretta
impostazione delle relazioni d'affari esige che l'acquirente acquisti e il
venditore venda a condizioni commisurate alle reciproche aspettative.
Alla fine, quello che conta è di stabilire in quale tipo di società si vuole
vivere e quali norme etiche debbano essere imposte nelle relazioni d'affari. Se
si permettesse l'occultamento di informazione in violazione a questa
comprensione dell'essenza dell'affare, si creerebbe inefficienza economica
(oltre ad alimentare il terreno della frode). La legge non deve esigere che si
mettano in atto costose misure difensive per proteggersi contro la mala fede. E
infatti, non lo fa.
Prevenzione automatica. Gli esperti sanno come controllare le finanze di
un'impresa, ma non sono, apparentemente, in grado di evitare, o mettere subito a
nudo, le manipolazioni, ardite, ingegnose, e sfacciate, come quelle messe in
atto da Enron, WorldCom o Parmalat. Le leggi ci sono (basti pensare, per quanto
riguarda gli Stati Uniti, al Securities Act of 1933 o alle Blue Sky
Laws statali, sui libri da cent'anni) ma si sono dimostrate inadeguate a
impedire le grandi frodi finanziarie: le reazione e gli interventi umani sono
lenti, e sono prevalentemente orientati alla repressione e non alla prevenzione.
Eventi come quelli qui esaminati, che incidono sull'esistenza di un grande
numero di persone, dovrebbero costringere gli individui e le comunità che ne
sono colpiti a riesaminare se stessi, a prendere coscienza delle situazioni, e a
reagire; ricavandone utili esperienze e stimoli al miglioramento. Gli uomini
preferiscono in genere non soffermarsi su questi problemi. Pensare è di per sè
un esercizio faticoso. Come disse T.S. Eliot, "il genere umano non è
capace di sopportare molta realtà". Prevedere eventi disastrosi, meditare
seriamente sul modo di prevenirli e di mitigarne le conseguenze, analizzarli
dopo che si sono verificati per ricavarne regole per l'avvenire, prendere gli
opportuni e necessari provvedimenti, è un'attività che, oltre a essere
faticosa, impone scelte costose e spesso dolorose, impegnative e ingrate.
Prevale generalmente la pigrizia che si traduce nel rifiuto di mettere in atto
le indispensabili azioni correttive.
La prevenzione degli eventi che possono arrecare danno è sempre una
questione di coraggio, disinteresse personale, onestà. Le virtù che permettono
di realizzare le misure correttive sono la capacità di fare un costante esame
della situazione, lo sforzo di prevedere lucidamente le potenzialità degli
eventi, il coraggio di prendere i provvedimenti che la situazione richiede, la
perseveranza e coerenza nel portarli a esecuzione. Occorre sapere e volere
riconoscere le micce, quando sono ancora spente o quando sono state appena
accese, e agire rapidamente, prima di perdere il controllo e giungere al fatale
effetto dell'inazione. Chi fa di queste virtù intellettuali e morali uno stile
di vita, è ben preparato ad affrontare gli eventi contrari quando essi si
presentano.
Quando non si sono affrontati con competenza e capacità di previsione i
prodromi di un evento catastrofico nelle sue componenti prossime e remote, non
è stata gestita la crisi che ne segue con tutto l'impegno realisticamente e
oggettivamente possibile, e ne è seguita perdita significativa di proprietà
pubblica o privata, la causa ultima è sempre una deficienza del sistema, o il
suo troppo stretto aggancio a rigide strutture. Chi detiene l'autorità per
prevenire, gestire, mitigare è, per definizione, il soggetto che deve
rispondere, e non può né incolpare il fato, né scaricare la responsabilità
su collaboratori, e neppure diluirla sulla società e i suoi membri.
Al giorno d'oggi, gli sforzi intesi alla prevenzione non possono essere
empirici, lasciati al buon senso e all'esperienza pratica. Tutti i mezzi tecnici
devono essere applicati; con metodi scientifici. Nessuna trascuratezza può
essere tollerata.
L'ora degli "HAL". Faccio mia, a questo punto, la frase di
Thierry Pauchant: "La voce della realtà è un'accusa basata su
indignazione morale perché gestiamo tecnologie del 21° secolo, di incredibile
complessità, con impostazioni mentali del 19° secolo. Una delle maggiori
ragioni per cui stiamo assistendo a un'epidemia di grandi crisi è che i manager
delle organizzazioni, i quali dovrebbero sviluppare e controllare queste
tecnologie, sono irrimediabilmente arretrati e quindi incapaci di svolgere il
loro compito". Agli incapaci si aggiungono i numerosi manager che
negligentemente, o anche intenzionalmente, violano i precetti di buona gestione,
per ambizione, per il proprio successo, per la ricerca esasperata del profitto e
dell'arricchimento.
Incompetenza e frode spesso riescono a realizzare il loro potenziale
distruttivo perché sono più veloci degli apprestamenti legislativi intesi a
neutralizzarli. Occorrerà quindi (come ho accennato all'inizio) mettere di
sentinella le tecnologie avanzate, affidarsi ai controlli automatici da parte
delle macchine, non degli uomini. Allora le situazioni prodromiche degli eventi
anomali della finanza di un'azienda verranno sistematicamente riconosciute e
analizzate, corrette e mitigate dalle macchine "intelligenti"; le
quali ordineranno le misure di protezione e di intervento, e il modo di come
eseguirle. Gli "HAL" avranno a disposizione tutta l'informazione, la
elaboreranno, scruteranno la presenza di operazioni inusuali non in linea con le
prassi regresse. Saranno loro, non gli uomini, a dire: "spiacenti, non
possiamo permettervi di fare quello che volete fare (o non fare)". E
bloccheranno i sistemi, che non potranno riprendere a marciare se non dopo la
correzione delle anomalie. Il mondo delle operazioni finanziarie sarà soggetto
a costanti controlli automatizzati. Gli HAL diffonderanno i risultati delle loro
elaborazioni, tattenendo i dettagli per rispettare la riservatezza delle
informazioni proprietarie. Sarà assicurata l'informazione precoce.
La macchina delle idee. Cosa le macchine sanno fare è stato recentemente
dimostrato da ricercatori della Stanford University: hanno sviluppato il "genetic
programming", un software che gestirà, con principi di
"evoluzione darwiniana", operazioni complesse, come la elaborazione,
per mezzo di computer, di idee inventive che non violino la proprietà
intellettuale esistente. Sono le "macchine delle idee". Potranno
essere efficacemente impiegate anche nel mondo delle operazioni finanziarie.
Basta volerlo. Come dicono i processualisti "vigilantibus iura
succurrunt".
Ci sarà, immancabilmente, un dibattito sul se il piano d'azione del computer
sia superiore a quello che farebbero gli umani. Questi sosterranno che l'azione
umana è sempre la migliore. Ma l'intelligenza dei computer è diversa da quella
umana: sistematica, senza emozioni; tratta tutti allo stesso modo, stabilisce
priorità con processi logici; sa dove trovare le risorse per gli interventi, ne
fissa il rango e velocemente lo cambia, se necessario; sa fare cose che la mente
umana non è capace di elaborare, sa prendere le decisioni e gestire i sistemi
che sono diventati troppo complessi per la dimensione dell'intelligenza umana.
|