Con la sentenza n. 549, emanata lo scorso 28 febbraio 2006, la prima sezione
civile della Corte di cassazione francese ha avanzato un’interpretazione del
diritto alla copia privata che non può essere accettata in Italia, alla luce
dell’art. 64-ter della legge sul diritto d’autore. Questo il
passaggio-chiave della sentenza:
Ritenuto che l’eccezione della copia privata stabilita negli articoli L.
122-5 et L. 211-3 del Codice della proprietà intellettuale, così come deve
essere interpretato alla luce della direttiva comunitaria suindicata non può
costituire un ostacolo all’inserimento nei supporti sui quali è riprodotta un’opera
protetta, delle misure tecniche di protezione destinate a impedire la copia, nel
caso in cui potrebbe avere un effetto di recare pericolo all’utilizzo normale
dell’opera...
Queste frasi concretizzano l’ennesimo atto di arroganza e supremazia delle
major dell’audiovisivo nei confronti dei consumatori che hanno acquisito –
pagando – il diritto di fruire di un’opera protetta.
In sintesi – dice la sentenza – ci sarebbe pure una vaga legittimità
nella richiesta dei consumatori di potersi fare la copia di riserva di un
qualcosa che è stato legittimamente acquistato. Ma è fuori discussione che
ciò possa avvenire impedendo ai padroni delle idee di proteggere i “gioielli
di famiglia”. L’operazione compiuta da questa sentenza è doppiamente
subdola. In primo luogo inverte i termini del problema (da “i DRM non possono
limitare la copia privata” a “la copia privata non può essere un limite all’uso
dei DRM”) e poi crea il concetto di “eccezione” come “non diritto” (la
copia privata non è un diritto, ma una concessione del titolare dei diritti).
Il ragionamento è tutt’altro che nuovo, se è vero che – con una
coerenza da incubo – la Corte suprema francese ha recepito supinamente le tesi
provenienti da oltreoceano sulla “eccezionalità” della copia privata
(opinione, questa, sostenuta anche dai nostrani lobbisti dell’audiovisivo).
Non conosco abbastanza la legge francese per poter esprimere un’opinione sulla
bislacca costruzione giuridica secondo cui quello alla copia privata non sarebbe
un “diritto” ma, appunto, una eccezione alla regola stabilita dal titolare
dei diritti. Certo, mi pare strano che nel sistema giuridico francese oltre ai
“diritti” esistano i “non diritti” che, appunto, diritti non sono, ma
tant’è; paese che vai...
Quello che è certo, invece (e non si sa fino a quando) dalle nostre parti le
cose sono diverse.
Il comma II dell’art. 64 ter della legge italiana sul diritto d’autore
stabilisce un principio estremamente chiaro:
Non può essere impedito per contratto, a chi ha il diritto di usare una copia
del programma per elaboratore di effettuare una copia di riserva del programma,
qualora tale copia sia necessaria per l'uso.
Dunque, se un qualcosa non può essermi impedito vuol dire che ho il diritto
di ottenere l’applicazione di questa posizione giuridica soggettiva nei
confronti di chi mi ostacola. Possiamo chiamarlo “diritto”, “eccezione”
o anche “giovanni”, poco importa. Fatto sta che grazie a “giovanni”
posso rivolgermi a un giudice e chiedere conto di una azione abusiva.
Ma questo vale per il software! – immagino direbbe l’ipotetico zelante
difensore dei titolari dei diritti di sfuttamento economico – e non per la
musica o i video!
Obiezione di poco momento, se si considera che da quasi dieci anni la
giurisprudenza ha esteso analogicamente il vigore dell’art. 64 ter lda anche
alle opere audiovisive rendendo quindi possibile una osmosi delle norme a tutela
del consumatore. E poi vale la pena di notare che il diritto alla copia privata
è rinforzato anche dall’esistenza dell’equo compenso (la famigerata “tassa”
sui supporti): visto che nel prezzo dei supporti è incluso il pagamento della
copia personale, questa deve essere concessa, altrimenti l’aumento coatto del
prezzo dei supporti sarebbe privo di contropartita.
Pretendere nello stesso tempo di incassare la gabella sui supporti senza
consentire la fruizione dell’opera, francamente, è davvero, davvero troppo.
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