Da qualche tempo si sono diffuse licenze di software, e prodotti software, che
legano uno o più programmi, o anche interi sistemi operativi, a una particolare
macchina. Un esempio piuttosto famoso è Windows XP. Ci si interroga se tale
pratica sia lecita e se i termini di licenza che tale pratica prevedano siano
vincolanti per l'utente.
Attraverso una procedura di “attivazione”, questi programmi applicano un
certo algoritmo che restituisce un codice, il quale identifica in modo univoco
quella particolare combinazione di hardware; in base a tale codice viene fornito
un corrispondente codice di attivazione il quale consente all'utente di
proseguire nell'uso successivamente a un periodo iniziale piuttosto breve (ad
esempio, 30 giorni). Tale procedura impedisce che lo stesso programma possa
essere poi installato su una differente macchina. Se l'utente dovesse operare
una modifica alla propria macchina, come ad esempio sostituire l'hard disk, ciò
altererebbe la configurazione in modo da disabilitare il programma, costringendo
così l'utente stesso a ripetere la procedura di abilitazione. Se l'incauto
utente si azzardasse a cambiare la scheda madre per ragioni diverse dalla
rottura della stessa, tale ri-abilitazione gli sarebbe inibita.
Protezione anticopia: pratica legittima. Ma...
La pratica di proteggere il software con un qualche tipo di strumento
elettronico “anticopia” è a un tempo diffusa e tutelata dall'ordinamento.
È infatti proibito, tra l'altro, manomettere tali strumenti o anche distribuire
dispositivi atti ad aggirare la protezione delle copie. Non c'è dubbio, dunque,
che si tratti di una pratica di per sé lecita.
Tale conclusione, tuttavia, non è sufficiente ai nostri fini. Vi sono esempi
diffusissimi di pratiche di per sé lecite che in determinati ambiti diventano
illecite. Un accordo di scambio di tecnologia è una pratica di per sé lecita,
tuttavia se concluso da parte di concorrenti in particolari condizioni, esso
diventa una pratica illecita da un punto di vista anticoncorrenziale. Effettuare
doni a Natale è una pratica lecita, ma se ciò avviene da un amministrato a un
pubblico funzionario per accattivarsi la sua benevolenza e ottenere vantaggi
illeciti, la pratica diventa illecita.
Esaminiamo dapprima la questione da un punto di vista tecnologico.
L'acquirente riceve un diritto legale di utilizzare una copia del
software in questione, la protezione serve a garantire che l'utente non abusi
della possibilità offerta dalla tecnologia di duplicare l'installazione,
usufruendo così di copie aggiuntive per le quali non possiede una valida
licenza. Allorché l'utente sia conscio di tale limitazione sia da un punto di
vista legale che tecnico, egli riceve quanto gli è stato promesso, e dunque il
programma non è difettoso.
Vizio o difetto di conformità
Il problema nasce invece quando l'utente finale vuole “trasportare” il
programma da una macchina all'altra, cessando l'utilizzo sulla prima. Ciò
pacificamente dovrebbe essergli concesso dall'ordinamento: egli continua a usare
una e una sola copia del software, installata su un diverso apparato.
In questo caso una limitazione tecnologica che glielo impedisse potrebbe essere
considerata contraria a questo suo diritto o a questa sua legittima aspettativa.
Caratteristica propria del software del tipo di quello in esame può essere
considerata quella di poter essere installata o reinstallata un numero infinito
di volte, sulla stessa macchina o su macchine diverse, ad esempio nel caso di
modifiche all'hardware (per danneggiamento, aggiornamento) o di dismissione di
una macchina a favore di una nuova, o anche nel caso non inaudito di una
compromissione irreversibile dell'installazione. L'impossibilità pratica di
farlo come lo stato della tecnica consentirebbe comporta l'inutilizzabilità di
ciò che si è acquistato. Tale inutilizzabilità è un vizio o un
difetto di conformità del prodotto software.
Tuttavia, allorché l'utente finale è reso edotto di questa particolare
limitazione tecnologica, e lo è attraverso il contratto di licenza, si potrebbe
in teoria affermare che egli conoscesse il vizio e l'abbia accettato, così
decadendo da ogni garanzia. Esattamente come chi acquista un capo “di seconda
scelta” sa che lo stesso può contenere difetti anche non indifferenti. Di
fatto, però, l'utente è in grado di conoscere la limitazione tecnologica e la
licenza che la annuncia solo una volta acquistato il prodotto. Anche così,
tuttavia, l'approvazione dell'accordo di licenza, ancorché successiva
all'acquisto del prodotto (come vedremo in seguito), potrebbe valere a
rinunciare alla garanzia, ovvero ad accettare il vizio per quello che è,
trattandosi di un vizio palese.
L'unico rimedio, dunque, sarebbe quello di non accettare la licenza e ritornare
il prodotto al produttore per farsi rimborsare il prezzo. Trattandosi di un
vizio, tuttavia, in difetto di una sua accettazione, la possibilità di valersi
di una facoltà di recesso non esclude la garanzia per i vizi, né i relativi
rimedi.
Sebbene negli esempi che abbiamo in mente la possibilità di sciogliersi
dalla licenza è espressamente riconosciuta e pubblicizzata, di fatto è resa
oltremodo scomoda, anche perché molto spesso i programmi vengono preinstallati
da un produttore indipendente dal fornitore del software (OEM), e sorgono
possibili equivoci su chi sia la controparte a cui rivolgersi per tale
restituzione. È ipotizzabile che l'unico interlocutore dell'utente finale sia
il venditore, che non è il produttore del software. Ma ciò esula dalla nostra
analisi.
Protezione del consumatore
Ben diverse considerazioni, invece, debbono essere fatte quando l'acquirente
finale è un consumatore (colui che agisce al di fuori della propria attività
professionale eventualmente esercitata). L'art. 1469-bis del codice civile,
infatti, stabilisce una serie di clausole contrattuali che si presumono
vessatorie, e dunque inefficaci. Tra esse, almeno un paio mi sembrano rilevanti.
Il punto numero 10 stabilisce l'abusività di imporre al consumatore
l'estensione dell'accordo a clausole che non ha avuto la possibilità di
conoscere prima della conclusione del contratto. È vero che il consumatore ha
la facoltà di non accettare le condizioni stesse, ma come detto ciò appare
più una facoltà di recesso da un contratto già perfezionatosi – almeno da
un punto di vista della transazione economica – con l'acquisto della
confezione del software o del macchinario su cui questo è installato. Appare
infatti piuttosto arduo ritenere che dopo aver scelto un prodotto, contrattato e
pagato il prezzo, ricevuto il prodotto, il compratore non abbia ancora una
signoria piena su tale bene acquistato, soprattutto se il compratore è un
consumatore che “laicamente” si attende che con ciò quello che ha
acquistato sia “suo”.
Soprattutto la numero 18 ritiene abusivo sancire a carico del consumatore “decadenze,
limitazioni della facoltà di opporre eccezioni [...] restrizioni alla libertà
contrattuale nei rapporti con i terzi”. La clausola che imponga la “riregistrazione”,
e la protezione tecnologica che rafforzi tale limitazione legale, mi pare
confliggere con tale previsione. La semplice sanzione civile imposta è quella
dell'inefficacia, la quale comporta che il contratto sia valido, mentre la
singola clausola non sia invocabile. Tale inefficacia, però, viene resa vana
dal controllo tecnologico che il fornitore conserva sul bene. Nessuno
accetterebbe, ad esempio, che un'auto non sia ulteriormente commerciabile dopo
il suo uso. Se un particolare marchingegno costringesse l'utente a recarsi a
un'officina autorizzata ogni sei mesi, e l'officina rifiutasse l'intervento
confermativo perché la vettura viene condotta da una persona diversa
dall'acquirente, ciò apparirebbe mostruosamente inaccettabile agli occhi di
tutti. Non vedo ragioni per ritenere che il software debba subire un trattamento
differente.
La sanzione dell'inefficacia non è l'unica fornita dall'ordinamento. Le
associazioni dei consumatori e le camere di commercio hanno la facoltà di
chiedere e ottenere l'inibitoria, ovvero che un giudice imponga la rimozione
delle clausole dai contratti, anche in via cautelare.
Vendita o “licenza”? Il principio di esaurimento
Quanto detto sopra può non convincere tutti. Si potrà affermare che
l'accordo di licenza è semplicemente un contratto che legittima l'uso di un
qualcosa che non è nostro, ma viene solo “affidato” all'utente finale
(locazione, comodato), insomma non un bene acquistato, ma un contratto
sottoscritto. Dunque la cessione del contratto sarebbe possibile solo con il
consenso del licenziante. Ciò è smentito da varie considerazioni. La prima è
che il nomen iuris “concessione di licenza” in realtà maschera una
vera e propria vendita. La vendita è lo scambio di un bene o di un diritto con
un prezzo. La licenza per l'utente finale scambia il diritto di usare una copia
del software contro un prezzo perciò è una vendita, dunque le limitazioni
cadono su un diritto che si è acquistato in forma piena e incondizionata con le
forme d'uso.
Tale considerazione è confermata in maniera più netta dal cosiddetto “principio
di esaurimento”. Il principio di esaurimento afferma che i diritti di
sfruttamento economico di un'opera su una copia cessano con la vendita di tale
copia sul territorio comunitario. Dunque successivamente alla vendita la copia
non è più controllabile, salvo il diritto di impedire di trarre più copie di
quelle acquistate, o l'ulteriore locazione della copia, salvo gli scopi e gli
usi garantiti dalla legge. Ogni patto contrario è nullo (art. 64-ter legge sul
diritto d'autore). Ciò conferma che la cessione a titolo oneroso di una copia
del software sia una vera e propria vendita di un diritto.
Il principio di esaurimento, dunque, fa sì che il venditore non possa
sindacare l'uso che l'utente fa del programma successivamente alla vendita, se
non per quanto sia vietato espressamente (come ad esempio, la concessione in
locazione, l'estrazione di copie non consentite, ecc.). Il controllo sull'uso
successivo del software legittimamente “acquistato”, uscito dalla finestra
dei diritti, rientra però dalla porta delle protezioni tecnologiche.
Prescindendo dall'apposizione di clausole di incedibilità, il principio di
esaurimento farebbe sì che il consumatore finale avrebbe “naturalmente” il
diritto di rivendere la propria copia o di trasferirla su un nuovo computer,
mentre qui non solo contrattualmente, ma tecnologicamente glielo si impedisce.
Ciò impone da un lato un ragionamento sui cosiddetti DRM (Digital Rights
Management), che si sovrappongono alla normativa e in non pochi casi
impongono una “norma privata” incompatibile con il diritto, soprattutto la
parte inderogabile di esso.
Da un altro lato occorre porsi il problema della legittimità di una
protezione tecnologica che ha come effetto quello di imporre unilateralmente e
indissolubilmente ciò che contrattualmente non è possibile convenire, e dei
rimedi che possono essere presi a tutela dell'utente finale.
Normalmente il potere dell'utente finale è quello di scegliere un prodotto
piuttosto che un altro, dunque il tutto si risolve in un'adeguata informazione,
che non risolve i problemi, ma sicuramente li attenua.
Spesso, tuttavia, la decisione di usare un prodotto piuttosto che un altro
non è dettata dalla scelta della convenienza o da preferenze personali, ma da
costrizioni tecnologiche, incompatibilità introdotte ad arte, mancanza di una
reale scelta. Il che è una realtà soprattutto nel mercato dei sistemi
operativi, dei formati dei documenti e, seppur in minor misura, dei sistemi di
accesso a risorse multimediali. Laddove il produttore ha una posizione di
sostanziale monopolio, poi, ogni facoltà di scelta è particolarmente
compromessa, e maggiori tutele debbono essere approntate dall'ordinamento.
Casi particolari: l'aggiornamento e il bundling
In due occasioni il principio di esaurimento viene posto in dubbio: nei casi
di licenze di aggiornamento, o quando un'offerta commerciale sia legata
all'acquisto di un particolare prodotto diverso da quello dato in licenza (bundling).
Iniziamo dall'aggiornamento. Molto spesso le copie di aggiornamento vengono
fornite non come aggiunta differenziale rispetto a un programma già posseduto (patch,
delta), ma come un programma integralmente funzionante destinato a
rimpiazzare quello in precedenza acquistato. In tal caso l'acquisto del
programma presuppone il possesso legittimo di una copia del prodotto da
aggiornare, per cui la licenza effettivamente nasce come “differenziale”. Il
consenso all'uso dell'aggiornamento avviene sul presupposto della titolarità (e
dunque dell'acquisto) di un altro prodotto. Una parte non può circolare senza
l'altra. In tal caso, tuttavia, per legittimamente acquistare l'aggiornamento è
sufficiente aver acquistato, anche attraverso una cessione a titolo gratuito,
una copia del programma originale, cosicché il principio di esaurimento non
viene compromesso. Ovviamente però esso viene riferito al complesso di due
programmi, uno da aggiornare e uno che costituisce l'aggiornamento. Resta la
possibilità che si abusi di tale situazione, ma si tratta per lo più di casi
specifici e non (ancora) di una pratica diffusissima.
Per quanto riguarda il bundling, si tratta della vendita (anche a
costo zero) di un prodotto effettuato unicamente in abbinamento a un determinato
altro. Si vuole sostenere che in tal caso l'utente debba dimostrare, per la
liceità della licenza, di aver posseduto e di continuare a possedere entrambi i
prodotti. Ad esempio, acquisto una scheda video o una macchina fotografica
digitale e mi viene “regalata” una versione senza manuali di un programma di
fotoritocco. Secondo un'interpretazione infondata, la liceità dell'uso di tale
programma dovrebbe persistere solo in capo a chi sia proprietario del prodotto
collegato, per cui se vendo la macchina fotografica dovrei vendere il programma.
Tuttavia non mi pare che niente “leghi” il possesso della licenza in bundling
al prodotto collegato. Semplicemente si può ritenere che si tratti di uno
sconto o di un regalo, il quale una volta completato l'acquisto fa riemergere
pienamente il diritto di far circolare i prodotti collegati anche separatamente.
Non diversamente, se si acquista un'autovettura che fa omaggio di un
aspirapolvere portatile, l'acquirente può rivendere separatamente autovettura e
aspirapolvere. O se si vince un CD grazie ai punti della benzina, il CD può
essere rivenduto a chicchessia, mentre la benzina, ahimè, viene consumata (e
comunque non può essere rivenduta).
Né è possibile sostenere che si tratti di prodotti “indissolubili”.
Nulla distinguerebbe una versione OEM di un programma software dalla stessa
versione in vendita separatamente (a parte i manuali e un supporto di
installazione) se non la licenza. Ma la liceità della licenza sul presupposto
della indissolubilità software/hardware non può essere predicata... a partire
dalla licenza, si tratterebbe di un'evidente petizione di principio.
L'indissolubilità deve partire da un'esigenza tecnica o da un sostrato naturale
o sociale che facciano esulare il caso concreto dalla fattispecie astratta, non
da una scelta arbitraria di chi se ne vuole giovare per evitare una norma
imperativa.
Tantopiù che il nostro ordinamento conosce l'ipotesi del contratto in frode
alla legge (art. 1344 codice civile), prevista nel caso in cui il contratto
costituisca il mezzo per eludere l'applicazione di una norma imperativa.
Facciamo il caso di specie. Tizio conviene con Caio che la copia che acquista
non può essere rivenduta. La clausola è nulla. Altro caso. Tizio conviene con
Caio che la prova di legittimità del possesso della copia acquistata può
essere data solo da un adesivo incollato al computer in cui la copia è
installata. La copia acquistata è teoricamente alienabile, ma di fatto se non
si trasmette il computer intero il terzo acquirente (della licenza, dunque dei
suoi termini) non può dimostrare la legittimità dell'acquisto. La clausola
(ove efficace per il terzo, cosa di cui dubito) costituisce un aggiramento
diretto a evitare una norma imperativa per perseguire gli stessi effetti
vietati, la clausola è nulla.
Conclusioni
Concludendo, la pratica – di per sé lecita – di controllare per mezzo di
protezioni elettroniche o contrattuali le ulteriori copie di un programma
diventa illecita se attraverso tali protezioni si intende perseguire o si
raggiunge l'effetto di controllare l'ulteriore circolazione di un bene
(giuridico, il diritto di usare una copia) legittimamente acquistato, o di
impedire uno degli usi che l'utente finale legittimamente si aspetta di
effettuare. Tale discorso, in realtà, è più esteso, e invade anche i
cosiddetti DRM sulla musica, che ad esempio impediscono a chi acquista un CD di
sentirlo su un PC o su un player portatile. I DRM, di fatto, si sostituiscono
pericolosamente alla norma statuale, imponendo una norma privata e tecnologica
anche in deroga a disposizioni inderogabili, svuotandole di fatto, in funzione
palesemente anticoncorrenziale, il che sembra francamente inaccettabile per uno
Stato che voglia dirsi sovrano.
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