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Diritto d'autore

Illegittimità delle limitazioni alla circolazione del software

di Carlo Piana* - 23.02.06

 
Da qualche tempo si sono diffuse licenze di software, e prodotti software, che legano uno o più programmi, o anche interi sistemi operativi, a una particolare macchina. Un esempio piuttosto famoso è Windows XP. Ci si interroga se tale pratica sia lecita e se i termini di licenza che tale pratica prevedano siano vincolanti per l'utente.

Attraverso una procedura di “attivazione”, questi programmi applicano un certo algoritmo che restituisce un codice, il quale identifica in modo univoco quella particolare combinazione di hardware; in base a tale codice viene fornito un corrispondente codice di attivazione il quale consente all'utente di proseguire nell'uso successivamente a un periodo iniziale piuttosto breve (ad esempio, 30 giorni). Tale procedura impedisce che lo stesso programma possa essere poi installato su una differente macchina. Se l'utente dovesse operare una modifica alla propria macchina, come ad esempio sostituire l'hard disk, ciò altererebbe la configurazione in modo da disabilitare il programma, costringendo così l'utente stesso a ripetere la procedura di abilitazione. Se l'incauto utente si azzardasse a cambiare la scheda madre per ragioni diverse dalla rottura della stessa, tale ri-abilitazione gli sarebbe inibita.

Protezione anticopia: pratica legittima. Ma...

La pratica di proteggere il software con un qualche tipo di strumento elettronico “anticopia” è a un tempo diffusa e tutelata dall'ordinamento. È infatti proibito, tra l'altro, manomettere tali strumenti o anche distribuire dispositivi atti ad aggirare la protezione delle copie. Non c'è dubbio, dunque, che si tratti di una pratica di per sé lecita.

Tale conclusione, tuttavia, non è sufficiente ai nostri fini. Vi sono esempi diffusissimi di pratiche di per sé lecite che in determinati ambiti diventano illecite. Un accordo di scambio di tecnologia è una pratica di per sé lecita, tuttavia se concluso da parte di concorrenti in particolari condizioni, esso diventa una pratica illecita da un punto di vista anticoncorrenziale. Effettuare doni a Natale è una pratica lecita, ma se ciò avviene da un amministrato a un pubblico funzionario per accattivarsi la sua benevolenza e ottenere vantaggi illeciti, la pratica diventa illecita.

Esaminiamo dapprima la questione da un punto di vista tecnologico. L'acquirente riceve un diritto legale di utilizzare una copia del software in questione, la protezione serve a garantire che l'utente non abusi della possibilità offerta dalla tecnologia di duplicare l'installazione, usufruendo così di copie aggiuntive per le quali non possiede una valida licenza. Allorché l'utente sia conscio di tale limitazione sia da un punto di vista legale che tecnico, egli riceve quanto gli è stato promesso, e dunque il programma non è difettoso.

Vizio o difetto di conformità

Il problema nasce invece quando l'utente finale vuole “trasportare” il programma da una macchina all'altra, cessando l'utilizzo sulla prima. Ciò pacificamente dovrebbe essergli concesso dall'ordinamento: egli continua a usare una e una sola copia del software, installata su un diverso apparato.
In questo caso una limitazione tecnologica che glielo impedisse potrebbe essere considerata contraria a questo suo diritto o a questa sua legittima aspettativa.

Caratteristica propria del software del tipo di quello in esame può essere considerata quella di poter essere installata o reinstallata un numero infinito di volte, sulla stessa macchina o su macchine diverse, ad esempio nel caso di modifiche all'hardware (per danneggiamento, aggiornamento) o di dismissione di una macchina a favore di una nuova, o anche nel caso non inaudito di una compromissione irreversibile dell'installazione. L'impossibilità pratica di farlo come lo stato della tecnica consentirebbe comporta l'inutilizzabilità di ciò che si è acquistato. Tale inutilizzabilità è un vizio o un difetto di conformità del prodotto software.

Tuttavia, allorché l'utente finale è reso edotto di questa particolare limitazione tecnologica, e lo è attraverso il contratto di licenza, si potrebbe in teoria affermare che egli conoscesse il vizio e l'abbia accettato, così decadendo da ogni garanzia. Esattamente come chi acquista un capo “di seconda scelta” sa che lo stesso può contenere difetti anche non indifferenti. Di fatto, però, l'utente è in grado di conoscere la limitazione tecnologica e la licenza che la annuncia solo una volta acquistato il prodotto. Anche così, tuttavia, l'approvazione dell'accordo di licenza, ancorché successiva all'acquisto del prodotto (come vedremo in seguito), potrebbe valere a rinunciare alla garanzia, ovvero ad accettare il vizio per quello che è, trattandosi di un vizio palese.
L'unico rimedio, dunque, sarebbe quello di non accettare la licenza e ritornare il prodotto al produttore per farsi rimborsare il prezzo. Trattandosi di un vizio, tuttavia, in difetto di una sua accettazione, la possibilità di valersi di una facoltà di recesso non esclude la garanzia per i vizi, né i relativi rimedi.

Sebbene negli esempi che abbiamo in mente la possibilità di sciogliersi dalla licenza è espressamente riconosciuta e pubblicizzata, di fatto è resa oltremodo scomoda, anche perché molto spesso i programmi vengono preinstallati da un produttore indipendente dal fornitore del software (OEM), e sorgono possibili equivoci su chi sia la controparte a cui rivolgersi per tale restituzione. È ipotizzabile che l'unico interlocutore dell'utente finale sia il venditore, che non è il produttore del software. Ma ciò esula dalla nostra analisi.

Protezione del consumatore

Ben diverse considerazioni, invece, debbono essere fatte quando l'acquirente finale è un consumatore (colui che agisce al di fuori della propria attività professionale eventualmente esercitata). L'art. 1469-bis del codice civile, infatti, stabilisce una serie di clausole contrattuali che si presumono vessatorie, e dunque inefficaci. Tra esse, almeno un paio mi sembrano rilevanti.

Il punto numero 10 stabilisce l'abusività di imporre al consumatore l'estensione dell'accordo a clausole che non ha avuto la possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto. È vero che il consumatore ha la facoltà di non accettare le condizioni stesse, ma come detto ciò appare più una facoltà di recesso da un contratto già perfezionatosi – almeno da un punto di vista della transazione economica – con l'acquisto della confezione del software o del macchinario su cui questo è installato. Appare infatti piuttosto arduo ritenere che dopo aver scelto un prodotto, contrattato e pagato il prezzo, ricevuto il prodotto, il compratore non abbia ancora una signoria piena su tale bene acquistato, soprattutto se il compratore è un consumatore che “laicamente” si attende che con ciò quello che ha acquistato sia “suo”.

Soprattutto la numero 18 ritiene abusivo sancire a carico del consumatore “decadenze, limitazioni della facoltà di opporre eccezioni [...] restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti con i terzi”. La clausola che imponga la “riregistrazione”, e la protezione tecnologica che rafforzi tale limitazione legale, mi pare confliggere con tale previsione. La semplice sanzione civile imposta è quella dell'inefficacia, la quale comporta che il contratto sia valido, mentre la singola clausola non sia invocabile. Tale inefficacia, però, viene resa vana dal controllo tecnologico che il fornitore conserva sul bene. Nessuno accetterebbe, ad esempio, che un'auto non sia ulteriormente commerciabile dopo il suo uso. Se un particolare marchingegno costringesse l'utente a recarsi a un'officina autorizzata ogni sei mesi, e l'officina rifiutasse l'intervento confermativo perché la vettura viene condotta da una persona diversa dall'acquirente, ciò apparirebbe mostruosamente inaccettabile agli occhi di tutti. Non vedo ragioni per ritenere che il software debba subire un trattamento differente.

La sanzione dell'inefficacia non è l'unica fornita dall'ordinamento. Le associazioni dei consumatori e le camere di commercio hanno la facoltà di chiedere e ottenere l'inibitoria, ovvero che un giudice imponga la rimozione delle clausole dai contratti, anche in via cautelare.

Vendita o “licenza”? Il principio di esaurimento

Quanto detto sopra può non convincere tutti. Si potrà affermare che l'accordo di licenza è semplicemente un contratto che legittima l'uso di un qualcosa che non è nostro, ma viene solo “affidato” all'utente finale (locazione, comodato), insomma non un bene acquistato, ma un contratto sottoscritto. Dunque la cessione del contratto sarebbe possibile solo con il consenso del licenziante. Ciò è smentito da varie considerazioni. La prima è che il nomen iuris “concessione di licenza” in realtà maschera una vera e propria vendita. La vendita è lo scambio di un bene o di un diritto con un prezzo. La licenza per l'utente finale scambia il diritto di usare una copia del software contro un prezzo perciò è una vendita, dunque le limitazioni cadono su un diritto che si è acquistato in forma piena e incondizionata con le forme d'uso.

Tale considerazione è confermata in maniera più netta dal cosiddetto “principio di esaurimento”. Il principio di esaurimento afferma che i diritti di sfruttamento economico di un'opera su una copia cessano con la vendita di tale copia sul territorio comunitario. Dunque successivamente alla vendita la copia non è più controllabile, salvo il diritto di impedire di trarre più copie di quelle acquistate, o l'ulteriore locazione della copia, salvo gli scopi e gli usi garantiti dalla legge. Ogni patto contrario è nullo (art. 64-ter legge sul diritto d'autore). Ciò conferma che la cessione a titolo oneroso di una copia del software sia una vera e propria vendita di un diritto.

Il principio di esaurimento, dunque, fa sì che il venditore non possa sindacare l'uso che l'utente fa del programma successivamente alla vendita, se non per quanto sia vietato espressamente (come ad esempio, la concessione in locazione, l'estrazione di copie non consentite, ecc.). Il controllo sull'uso successivo del software legittimamente “acquistato”, uscito dalla finestra dei diritti, rientra però dalla porta delle protezioni tecnologiche.

Prescindendo dall'apposizione di clausole di incedibilità, il principio di esaurimento farebbe sì che il consumatore finale avrebbe “naturalmente” il diritto di rivendere la propria copia o di trasferirla su un nuovo computer, mentre qui non solo contrattualmente, ma tecnologicamente glielo si impedisce. Ciò impone da un lato un ragionamento sui cosiddetti DRM (Digital Rights Management), che si sovrappongono alla normativa e in non pochi casi impongono una “norma privata” incompatibile con il diritto, soprattutto la parte inderogabile di esso.

Da un altro lato occorre porsi il problema della legittimità di una protezione tecnologica che ha come effetto quello di imporre unilateralmente e indissolubilmente ciò che contrattualmente non è possibile convenire, e dei rimedi che possono essere presi a tutela dell'utente finale.
Normalmente il potere dell'utente finale è quello di scegliere un prodotto piuttosto che un altro, dunque il tutto si risolve in un'adeguata informazione, che non risolve i problemi, ma sicuramente li attenua.

Spesso, tuttavia, la decisione di usare un prodotto piuttosto che un altro non è dettata dalla scelta della convenienza o da preferenze personali, ma da costrizioni tecnologiche, incompatibilità introdotte ad arte, mancanza di una reale scelta. Il che è una realtà soprattutto nel mercato dei sistemi operativi, dei formati dei documenti e, seppur in minor misura, dei sistemi di accesso a risorse multimediali. Laddove il produttore ha una posizione di sostanziale monopolio, poi, ogni facoltà di scelta è particolarmente compromessa, e maggiori tutele debbono essere approntate dall'ordinamento.

Casi particolari: l'aggiornamento e il bundling

In due occasioni il principio di esaurimento viene posto in dubbio: nei casi di licenze di aggiornamento, o quando un'offerta commerciale sia legata all'acquisto di un particolare prodotto diverso da quello dato in licenza (bundling).

Iniziamo dall'aggiornamento. Molto spesso le copie di aggiornamento vengono fornite non come aggiunta differenziale rispetto a un programma già posseduto (patch, delta), ma come un programma integralmente funzionante destinato a rimpiazzare quello in precedenza acquistato. In tal caso l'acquisto del programma presuppone il possesso legittimo di una copia del prodotto da aggiornare, per cui la licenza effettivamente nasce come “differenziale”. Il consenso all'uso dell'aggiornamento avviene sul presupposto della titolarità (e dunque dell'acquisto) di un altro prodotto. Una parte non può circolare senza l'altra. In tal caso, tuttavia, per legittimamente acquistare l'aggiornamento è sufficiente aver acquistato, anche attraverso una cessione a titolo gratuito, una copia del programma originale, cosicché il principio di esaurimento non viene compromesso. Ovviamente però esso viene riferito al complesso di due programmi, uno da aggiornare e uno che costituisce l'aggiornamento. Resta la possibilità che si abusi di tale situazione, ma si tratta per lo più di casi specifici e non (ancora) di una pratica diffusissima.

Per quanto riguarda il bundling, si tratta della vendita (anche a costo zero) di un prodotto effettuato unicamente in abbinamento a un determinato altro. Si vuole sostenere che in tal caso l'utente debba dimostrare, per la liceità della licenza, di aver posseduto e di continuare a possedere entrambi i prodotti. Ad esempio, acquisto una scheda video o una macchina fotografica digitale e mi viene “regalata” una versione senza manuali di un programma di fotoritocco. Secondo un'interpretazione infondata, la liceità dell'uso di tale programma dovrebbe persistere solo in capo a chi sia proprietario del prodotto collegato, per cui se vendo la macchina fotografica dovrei vendere il programma.

Tuttavia non mi pare che niente “leghi” il possesso della licenza in bundling al prodotto collegato. Semplicemente si può ritenere che si tratti di uno sconto o di un regalo, il quale una volta completato l'acquisto fa riemergere pienamente il diritto di far circolare i prodotti collegati anche separatamente. Non diversamente, se si acquista un'autovettura che fa omaggio di un aspirapolvere portatile, l'acquirente può rivendere separatamente autovettura e aspirapolvere. O se si vince un CD grazie ai punti della benzina, il CD può essere rivenduto a chicchessia, mentre la benzina, ahimè, viene consumata (e comunque non può essere rivenduta).

Né è possibile sostenere che si tratti di prodotti “indissolubili”. Nulla distinguerebbe una versione OEM di un programma software dalla stessa versione in vendita separatamente (a parte i manuali e un supporto di installazione) se non la licenza. Ma la liceità della licenza sul presupposto della indissolubilità software/hardware non può essere predicata... a partire dalla licenza, si tratterebbe di un'evidente petizione di principio. L'indissolubilità deve partire da un'esigenza tecnica o da un sostrato naturale o sociale che facciano esulare il caso concreto dalla fattispecie astratta, non da una scelta arbitraria di chi se ne vuole giovare per evitare una norma imperativa.

Tantopiù che il nostro ordinamento conosce l'ipotesi del contratto in frode alla legge (art. 1344 codice civile), prevista nel caso in cui il contratto costituisca il mezzo per eludere l'applicazione di una norma imperativa.
Facciamo il caso di specie. Tizio conviene con Caio che la copia che acquista non può essere rivenduta. La clausola è nulla. Altro caso. Tizio conviene con Caio che la prova di legittimità del possesso della copia acquistata può essere data solo da un adesivo incollato al computer in cui la copia è installata. La copia acquistata è teoricamente alienabile, ma di fatto se non si trasmette il computer intero il terzo acquirente (della licenza, dunque dei suoi termini) non può dimostrare la legittimità dell'acquisto. La clausola (ove efficace per il terzo, cosa di cui dubito) costituisce un aggiramento diretto a evitare una norma imperativa per perseguire gli stessi effetti vietati, la clausola è nulla.

Conclusioni

Concludendo, la pratica – di per sé lecita – di controllare per mezzo di protezioni elettroniche o contrattuali le ulteriori copie di un programma diventa illecita se attraverso tali protezioni si intende perseguire o si raggiunge l'effetto di controllare l'ulteriore circolazione di un bene (giuridico, il diritto di usare una copia) legittimamente acquistato, o di impedire uno degli usi che l'utente finale legittimamente si aspetta di effettuare. Tale discorso, in realtà, è più esteso, e invade anche i cosiddetti DRM sulla musica, che ad esempio impediscono a chi acquista un CD di sentirlo su un PC o su un player portatile. I DRM, di fatto, si sostituiscono pericolosamente alla norma statuale, imponendo una norma privata e tecnologica anche in deroga a disposizioni inderogabili, svuotandole di fatto, in funzione palesemente anticoncorrenziale, il che sembra francamente inaccettabile per uno Stato che voglia dirsi sovrano.
 

*Avvocato in Milano, Studio legale Tamos Piana & Partners - http://www.avvocatinteam.com.
Dichiarazione d'interessi: Carlo Piana è l'avvocato che rappresenta la Free Software Foundation Europe e il Samba Team nelle causa T-201/04 e T-313/05 Microsoft contro Commissione avanti la Corte di Giustizia delle Comunità Europee.

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