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Diritto d'autore

Mediaset contro YouTube: un teorema fallace

di Daniele Coliva – 11.09.08

 
La prima reazione suscitata dalla lettura della citazione spiccata da RTI s.p.a. (controllata da Mediaset, a sua volta controllata da Fininvest) è sicuramente di ammirazione per la completezza ed il dettaglio dell’atto, nonché della pregevole analisi di tutti i possibili profili di violazioni normative ascritte da RTI a Google e a YouTube (vedi il comunicato stampa di Mediaset).

In effetti, ad una prima analisi è indiscutibile che, nella vigente normativa, gli spezzoni di programmi Mediaset immessi dagli utenti su YouTube sono parti di opere tutelate, i cui diritti fanno capo alla prima, e che, nella logica e nel sistema attualmente vigenti, il titolare dei diritti abbia un monopolio dominicale sulle opere, con quel che ne consegue in termini di decisione in ordine al quando, dove e come l’opera, o una sua parte, possa essere fruita dagli utenti.
A questo va aggiunto anche il “se”, dal momento che il titolare dei diritti (va precisato che questa situazione soggettiva spetta a RTI quale produttore, e non certamente quale autore) ha la facoltà di ritirare l’opera dal mercato e pertanto impedirne la fruizione da parte del pubblico.

E’ quindi arduo negare il diritto di RTI di agire per la tutela dei suoi programmi, che – in sostanza – rappresentano il suo asset primario.
Tuttavia, man mano che si procede nella lettura si fa strada una sensazione per così di dire di disagio, paragonabile a quella del bravo contabile che si accorge che un calcolo non torna; non è in grado di dire perché, ma “sa” che quel risultato non è coerente con le cifre soprastanti. La verifica, poi, solitamente gli dà ragione.

Il “disagio” nel caso di specie è la distanza tra il mondo degli istituti giuridici descritti con tanta perizia nella citazione e la percezione del valore in termini sociali ed economici delle piattaforme del genere di YouTube, ed in particolare il ricorso da parte del gruppo di emittenti del solito concetto in base al quale ad ogni esemplare di opere illegittimamente messo in circolazione corrisponde la relativa mancata percezione dei diritti; non solo, tale pregiudizio economico viene correlato alla singola visualizzazione da parte degli utenti.

E’ stata già posta in evidenza la risalenza di questo argomento (usato da sempre da BSA ad esempio) e la sua fallacia come teorema, vale a dire come affermazione di carattere generale.
Nel caso di specie vi sono aspetti peculiari. A differenza del software, ad esempio, in cui siamo di fronte ad una normale transazione commerciale per cui il cliente paga una somma a fronte della concessione della licenza d’uso, nell’ambito della fruizione di programmi televisivi l’utente finale è considerato il classico convitato di pietra, preso in considerazione solamente in termini di recettore di messaggi economici e – se possibile – di possibile acquirente in futuro di dvd o edizioni internet dei medesimi programmi.

Perché lo definisco convitato di pietra? Perché il comportamento dell’utente viene ridotto a meccanismi tradizionali tipici di un mercato “classico”, in cui l’utente finale sceglie tra più prodotti in concorrenza tra di loro. In questa logica Mediaset avrebbe ragione. Tuttavia sono le premesse economiche del ragionamento che non sono coerenti con la realtà, e ciò si riflette nella individuazione del possibile danno economico.

Afferma RTI che sostanzialmente il pregiudizio subito si sarebbe manifestato in due direzioni: a) ogni minuto speso dagli utenti a guardare un filmato su YouTube costituirebbe un minuto in meno davanti al televisore; b) per buona parte dei filmati il sito “rivideo” della stessa RTI avrebbe perduto una “vendita” online.

Quanto al primo aspetto si è già accennato alla sua fallacia come regola generale di giudizio. Indipendentemente dal contenuto, le diverse modalità di fruizione del prodotto televisivo e del filmato su YouTube escludono intrinsecamente la fungibilità tra i due. Oltre a non essere il medesimo prodotto, il secondo può essere visto “tra una email e l’altra”, o in una pausa nella scrittura di un testo, senza muoversi dalla scrivania. Inoltre, il suo inserimento in una piattaforma organizzata permette all’utente di navigare tra filmati diversissimi, balzando letteralmente di palo in frasca. In altri termini, si tratta di una forma di intrattenimento diversa, agile, e non alternativa alla tv.

L’utente che si rivolge a YouTube non si è posto in precedenza la scelta se guardare la televisione (e poi solo i programmi di RTI?) ovvero YouTube stesso.

Il che porta a prendere in considerazione il secondo profilo di danno, ossia le presunte mancate vendite di programmi online. In primo luogo è bene precisare alcuni profili tecnici. YouTube è indipendente dalla piattaforma informatica, non richiede risorse hardware particolari; la maggior parte dei filmati è costituita da spezzoni di pochi minuti e la qualità molte volte lascia a desiderare.
L’offerta online di RTI invece non può essere fruita da tutti i naviganti, utilizzando DRM Microsoft, e si basa su di un modello commerciale mutuato dal settore di origine, vale a dire dalla tv. La fruizione del filmato acquistato online è sottoposta a restrizioni di non poco rilievo: solo un computer e, soprattutto, un tempo limitato per vedere il filmato.

Ora, è sufficiente osservare i numeri di una realtà economica nata ed evolutasi negli ultimi cinque anni, il servizio iTunes Store, per rendersi conto come in termini pratici ben difficilmente sia configurabile un rapporto concorrenziale in concreto. L’utente non sembra interessato a guardare (ed a scaricare) interi episodi di serie TV o affini se il prodotto è bloccato da lucchetti temporali. Il fruitore desidera avere la libertà di “intrattenersi” dove, come e quando preferisce, e non in base a scelte nell’esclusivo interesse del titolare dei diritti.

Il punto nodale della vicenda, in particolare ai fini della quantificazione dell’ipotetico danno, sta proprio nella inadeguatezza delle categorie logiche tradizionali di fronte ad un fenomeno nuovo, per cui non può fondatamente e credibilmente sostenersi che colui che ha visto uno spezzone di un prodotto RTI su YouTube sarebbe stato davanti al televisore qualora YouTube non avesse messo a disposizione quel materiale (a vedere cosa, poi? Sicuramente un programma diverso e non quello “incriminato”).

Per concludere, l’impressione finale richiama la scena dell’uovo di Colombo. I “ragazzi” creatori di YouTube hanno inventato (o scoperto) una nuova chiave di lettura/fruizione del prodotto video, e gli operatori tradizionali restano stupiti, un po’ scornati, ed infastiditi per non averci pensato loro.

 

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