La prima reazione suscitata dalla lettura della citazione spiccata da RTI s.p.a.
(controllata da Mediaset, a sua volta controllata da Fininvest) è sicuramente
di ammirazione per la completezza ed il dettaglio dell’atto, nonché della
pregevole analisi di tutti i possibili profili di violazioni normative ascritte
da RTI a Google e a YouTube (vedi il comunicato stampa di
Mediaset).
In effetti, ad una prima analisi è indiscutibile che, nella vigente
normativa, gli spezzoni di programmi Mediaset immessi dagli utenti su YouTube
sono parti di opere tutelate, i cui diritti fanno capo alla prima, e che, nella
logica e nel sistema attualmente vigenti, il titolare dei diritti abbia un
monopolio dominicale sulle opere, con quel che ne consegue in termini di
decisione in ordine al quando, dove e come l’opera, o una sua parte, possa
essere fruita dagli utenti.
A questo va aggiunto anche il “se”, dal momento che il titolare dei diritti
(va precisato che questa situazione soggettiva spetta a RTI quale produttore, e
non certamente quale autore) ha la facoltà di ritirare l’opera dal mercato e
pertanto impedirne la fruizione da parte del pubblico.
E’ quindi arduo negare il diritto di RTI di agire per la tutela dei suoi
programmi, che – in sostanza – rappresentano il suo asset primario.
Tuttavia, man mano che si procede nella lettura si fa strada una sensazione per
così di dire di disagio, paragonabile a quella del bravo contabile che si
accorge che un calcolo non torna; non è in grado di dire perché, ma “sa”
che quel risultato non è coerente con le cifre soprastanti. La verifica, poi,
solitamente gli dà ragione.
Il “disagio” nel caso di specie è la distanza tra il mondo degli
istituti giuridici descritti con tanta perizia nella citazione e la percezione
del valore in termini sociali ed economici delle piattaforme del genere di
YouTube, ed in particolare il ricorso da parte del gruppo di emittenti del
solito concetto in base al quale ad ogni esemplare di opere illegittimamente
messo in circolazione corrisponde la relativa mancata percezione dei diritti;
non solo, tale pregiudizio economico viene correlato alla singola
visualizzazione da parte degli utenti.
E’ stata già posta in evidenza la risalenza di questo argomento (usato da
sempre da BSA ad esempio) e la sua fallacia come teorema, vale a dire come
affermazione di carattere generale.
Nel caso di specie vi sono aspetti peculiari. A differenza del software,
ad esempio, in cui siamo di fronte ad una normale transazione commerciale per
cui il cliente paga una somma a fronte della concessione della licenza d’uso,
nell’ambito della fruizione di programmi televisivi l’utente finale è
considerato il classico convitato di pietra, preso in considerazione solamente
in termini di recettore di messaggi economici e – se possibile – di
possibile acquirente in futuro di dvd o edizioni internet dei medesimi
programmi.
Perché lo definisco convitato di pietra? Perché il comportamento dell’utente
viene ridotto a meccanismi tradizionali tipici di un mercato “classico”, in
cui l’utente finale sceglie tra più prodotti in concorrenza tra di loro. In
questa logica Mediaset avrebbe ragione. Tuttavia sono le premesse economiche del
ragionamento che non sono coerenti con la realtà, e ciò si riflette nella
individuazione del possibile danno economico.
Afferma RTI che sostanzialmente il pregiudizio subito si sarebbe manifestato
in due direzioni: a) ogni minuto speso dagli utenti a guardare un filmato su
YouTube costituirebbe un minuto in meno davanti al televisore; b) per buona
parte dei filmati il sito “rivideo” della stessa RTI avrebbe perduto una “vendita”
online.
Quanto al primo aspetto si è già accennato alla sua fallacia come regola
generale di giudizio. Indipendentemente dal contenuto, le diverse modalità di
fruizione del prodotto televisivo e del filmato su YouTube escludono
intrinsecamente la fungibilità tra i due. Oltre a non essere il medesimo
prodotto, il secondo può essere visto “tra una email e l’altra”, o in una
pausa nella scrittura di un testo, senza muoversi dalla scrivania. Inoltre, il
suo inserimento in una piattaforma organizzata permette all’utente di navigare
tra filmati diversissimi, balzando letteralmente di palo in frasca. In altri
termini, si tratta di una forma di intrattenimento diversa, agile, e non
alternativa alla tv.
L’utente che si rivolge a YouTube non si è posto in precedenza la scelta
se guardare la televisione (e poi solo i programmi di RTI?) ovvero YouTube
stesso.
Il che porta a prendere in considerazione il secondo profilo di danno, ossia
le presunte mancate vendite di programmi online. In primo luogo è bene
precisare alcuni profili tecnici. YouTube è indipendente dalla piattaforma
informatica, non richiede risorse hardware particolari; la maggior parte dei
filmati è costituita da spezzoni di pochi minuti e la qualità molte volte
lascia a desiderare.
L’offerta online di RTI invece non può essere fruita da tutti i naviganti,
utilizzando DRM Microsoft, e si basa su di un modello commerciale mutuato dal
settore di origine, vale a dire dalla tv. La fruizione del filmato acquistato
online è sottoposta a restrizioni di non poco rilievo: solo un computer e,
soprattutto, un tempo limitato per vedere il filmato.
Ora, è sufficiente osservare i numeri di una realtà economica nata ed
evolutasi negli ultimi cinque anni, il servizio iTunes Store, per rendersi conto
come in termini pratici ben difficilmente sia configurabile un rapporto
concorrenziale in concreto. L’utente non sembra interessato a guardare (ed a
scaricare) interi episodi di serie TV o affini se il prodotto è bloccato da
lucchetti temporali. Il fruitore desidera avere la libertà di “intrattenersi”
dove, come e quando preferisce, e non in base a scelte nell’esclusivo
interesse del titolare dei diritti.
Il punto nodale della vicenda, in particolare ai fini della quantificazione
dell’ipotetico danno, sta proprio nella inadeguatezza delle categorie logiche
tradizionali di fronte ad un fenomeno nuovo, per cui non può fondatamente e
credibilmente sostenersi che colui che ha visto uno spezzone di un prodotto RTI
su YouTube sarebbe stato davanti al televisore qualora YouTube non avesse messo
a disposizione quel materiale (a vedere cosa, poi? Sicuramente un programma
diverso e non quello “incriminato”).
Per concludere, l’impressione finale richiama la scena dell’uovo di
Colombo. I “ragazzi” creatori di YouTube hanno inventato (o scoperto) una
nuova chiave di lettura/fruizione del prodotto video, e gli operatori
tradizionali restano stupiti, un po’ scornati, ed infastiditi per non averci
pensato loro.
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