A Roma è proverbiale la storia di una vecchietta dei tempi
antichi che non voleva rassegnarsi a morire perché, pur essendo anzianissima,
ogni giorno scopriva una cosa nuova e sorprendente. Se quella vecchietta fosse
vissuta al giorno d’oggi chissà cosa avrebbe detto e fatto per assistere alle
cose inverosimili che accadono nel mondo delle cosiddette nuove tecnologie,
spesso così assurde e surreali da lasciare attoniti pure i cronisti più cinici
e disincantati.
Il fatto cui mi riferisco è noto a tutti, almeno nelle sue
linee essenziali, per il grande parlare che se ne è fatto negli scorsi giorni
anche su queste stesse pagine (si vedano i miei Attenti
all’hacker, si chiama Sony/BMG e Sony/BMG, virus, (dis)informazione).
Tuttavia mi viene voglia di riprenderlo e commentarlo, anche alla luce dei suoi
più recenti sviluppi, perché ci porta a ripensare il tema della sicurezza dei
sistemi da un punto di vista completamente differente rispetto a quello usuale.
Di solito, infatti, i problemi e le vulnerabilità hanno origine o in fatti
colposi causati da soggetti non ostili (quali i bug nei software di
comune utilizzo) o in fatti dolosi causati da soggetti ostili (quali i virus o i
sistemi di phishing); ma questa è la prima volta che mi capita il caso
di un fatto doloso perpetrato consapevolmente da un soggetto almeno teoricamente
non ostile! Si tratta di un capovolgimento di prospettiva piuttosto importante,
che apre prospettive e scenari nuovi ed inusitati.
Diversi sono gli ordini di considerazioni che il “caso Sony”
mi ha spinto a fare, e che vorrei riportare qui come spunti di pubblica
riflessione.
Paranoia costruttiva
La prima considerazione, forse un po’ deprimente ma
realistica, è che ormai l’unico modo per sopravvivere al moderno mondo della
tecnologia digitale è quello di mantenere un atteggiamento serenamente ma
fermamente paranoico nei confronti di tutto e di tutti. D’accordo, io sono
paranoico per vocazione, oltre che per professione, e quindi sono forse un po’
prevenuto; ma mi sembra davvero che non ci si possa più fidare a priori
di alcuna tecnologia minimamente complessa, o meglio delle motivazioni di
marketing e/o di profitto che l’hanno generata o che muovono gli interessi degli
operatori che vi stanno dietro. Purtroppo gli “spazi di manovra” tra le
pieghe della tecnologia sono tali e tanti da dare l’opportunità a chiunque di
fare quello che vuole a spese dell’utente sprovveduto o ignorante (in senso
latino: ossia, letteralmente, “che ignora alcuni fatti”).
Non voglio con questo dire che sia necessario rifiutare le
tecnologie ed evitare di usarle: questo sarebbe un errore gravissimo; è
tuttavia necessario alzare il livello di consapevolezza della gente, del
pubblico comune, affinché impari ad utilizzare le tecnologie in modo informato
e consapevole, evitandone le insidie e soprattutto adottando comportamenti non a
rischio.
Purtroppo ciò è facile a dirsi ma difficilissimo a farsi, e
la prova evidente di quanta strada ci sia ancora da fare la si vede nel numero
elevatissimo di coloro i quali ancor oggi cadono nelle più antiche ed eclatanti
truffe perpetrate per mezzo della tecnologia, dai dialer al phishing,
E se fino ad oggi non si è riusciti a sensibilizzare gli utenti contro le
azioni delittuose perpetrate in mala fede dai veri criminali, come si potrà
riuscire a prevenirli contro gli eventuali abusi messi in atto da coloro che,
almeno in teoria, sono nostri amici e alleati?
Il cliente come nemico
La seconda considerazione riguarda invece la sensazione,
purtroppo sempre più confermata da fatti del genere, che molti operatori
abbiano ormai superato il limite fra “legittima difesa” e “attacco
preventivo” e ritengano di poter fare il proprio comodo sui sistemi dei propri
clienti; il fine è quello di tutelare i propri presunti diritti, ma per farlo
agiscono di contro nel totale dispregio dei più elementari ed universali
diritti proprio degli utenti/consumatori.
Installare software su un sistema altrui senza spiegare
chiaramente cosa si sta facendo è certamente scorretto sul piano etico, e
potrebbe essere anche illecito su quello legale; se questo software, oltretutto,
altera in modo profondo, permanente e irreversibile le funzionalità del
sistema ospite, l’illecito è reale e gravissimo.
È indubbio che nel “caso Sony” l’utente venga
ingannato dal fornitore, soggetto di cui si fida, il quale sottace
particolari essenziali di quello che sta facendo e si maschera dietro il “legalese”
dell’accordo di licenza. Ma l’accettazione di un accordo di licenza non dà
diritto al fornitore di fare ciò che vuole su un sistema altrui, e non consente
neppure di derogare a principi del diritto assai più generali.
Da questo punto di vista è davvero sconcertante la
dichiarazione rilasciata dal presidente della divisione Global Digital Business
di Sony/BMG, Thomas Hesse, ad una radio americana (la si può ascoltare qui: http://www.npr.org/templates/story/story.php?storyId=4989260):
“la maggior parte della gente non sa neppure cosa sia un rootkit, e dunque
perché dovrebbe importargliene qualcosa?”. Parole arroganti e irrispettose,
che purtroppo si commentano da sole.
Effetto boomerang
Una terza considerazione è che sistemi idioti e vessatori
come quello adottato da Sony sono un terrificante boomerang che finirà per
danneggiare le Major più della stessa pirateria.
Vessare i propri clienti non è mai un’azione pagante in termini di marketing,
e tradirne la fiducia che nutrono nei propri confronti è un’azione
semplicemente suicida. Se un consumatore acquista al negozio un disco originale,
anziché scaricarlo dalla Rete o comprarlo dal pirata, sta facendo un’operazione
meritoria per cui dovrebbe essere premiato: e allora perché vessarlo e
penalizzarlo? E perché oltretutto farlo in modo surrettizio, tecnicamente
criticabile ed eticamente scorretto? In questo modo si otterrà un solo
risultato: che la prossima volta quel consumatore non comprerà più un disco
originale ma andrà direttamente dal pirata, il quale certamente non viene
fermato da alcun sistema anti-copia commerciale.
Nel caso in questione, scaricare brani piratati di artisti
Sony è addirittura più sicuro per l’utente che comprare i dischi
originali. Non è questo un agghiacciante paradosso?
La tecnologia come ostacolo
La quarta riguarda, più in generale, il modo in cui ci
stiamo “incartando” con la tecnologia perdendo di vista le sue finalità
originarie. Ci siamo dimenticati che ogni “strato” di tecnologia che
aggiungiamo ad un prodotto risolve alcuni problemi ma ne crea altri. Quando la
tecnologia riguarda le modalità di codifica dell’informazione, sia essa
testuale che audiovisiva, ogni strato che si aggiunge ci allontana dall’obiettivo
iniziale che era quello di rendere facilmente ricostruibile ed interpretabile l’informazione
originale.
Da questo punto di vista già il passaggio al digitale può
essere visto come una mossa pericolosa, perché obbliga a ricorrere ad un’intermediazione
assai complessa per accedere all’informazione; ed in mancanza dell’opportuna
tecnologia questa informazione, pur teoricamente presente, non è effettivamente
utilizzabile. Mi spiego con un esempio. Per leggere le tavolette cuneiformi
babilonesi non serve nulla: basta guardarle. Occorre ovviamente conoscere la
lingua in cui sono scritte e le convenzioni con cui sono tracciati i segni che
rappresentano i concetti, ma queste non sono questioni tecnologiche. Anche per
leggere la musica lasciata da Bach, o gli appunti di Einstein, non serve nulla
al di fuori della conoscenza concettuale dei formalismi impiegati nella
descrizione dei rispettivi concetti. Ascoltare la musica incisa su un disco “microsolco”
a 78 giri di un secolo fa, o su un rullo perforato da autopiano, non è invece
così semplice: per farlo ci serve un dispositivo, realizzato e
funzionante.
La tecnologia dunque ci allontana dall’immediata
fruizione dell’informazione: un po’ è necessario e fisiologico, ma non
occorre esagerare. Il problema sono le tecnologie digitali, che soffrono di una
obsolescenza rapidissima: l’importante in questo caso è non esacerbare la
situazione aggiungendo ulteriori strati di inutile complicazione tecnologica.
Leggere oggi un preistorico floppy da 8”, di quelli che
venivano comunemente usati dai computer degli anni ’70 prima dell’invenzione
dei personal, è possibile se si dispone di un apposito dispositivo; e ciò
perché il floppy è un oggetto passivo, nel quale l’informazione è
registrata e codificata staticamente. Anche i CD audio sono teoricamente oggetti
passivi, nati proprio per consentire la conservazione statica, ancorché
opportunamente codificata, della musica. Ed in teoria infatti io posso ascoltare
oggi su un lettore ultramoderno un CD fatto venti anni fa, senza avere problemi.
Ma nel caso dei CD “protetti” della Sony questo non è più necessariamente
vero. Essi infatti sono CD “ibridi”, e quando vengono letti tramite un
computer per prima cosa vi installano automaticamente il loro speciale software
di “limitazione d’uso” senza il quale non si può ascoltare la musica.
Bene, anche ammesso che si tratti di software lecito e non pericoloso, chi mi
garantisce che esso funzionerà sulle prossime versioni di Windows e sulle
prossime famiglie di microprocessori? Se compro un CD adesso avrò
presumibilmente il diritto di sentirlo anche tra dieci anni sui sistemi che
avrò all’epoca, no? O dovrò invece “upgradare” il mio parco di CD
musicali ogni volta che esce una nuova versione del sistema operativo più in
voga al momento?
Insomma: i CD musicali, come i libri, i dischi in vinile e le
cassette VHS, dovrebbero essere oggetti “statici” e passivi; la loro
fruizione dovrebbe dunque dipendere solo dalla tecnologia intrinseca con cui
sono fatti, e non da ulteriori ed incontrollabili strati tecnologici di natura
arbitraria che ne legano l’utilizzo ad una particolare combinazione di fattori
che non è destinata a durare nel tempo. Anche da questo punto di vista la
tecnologia impiegata da Sony è sbagliata: essa infatti è troppo strettamente
legata ad un particolare assieme di requisiti tecnici i quali non è detto che
esisteranno ancora in futuro.
Conclusioni
Che insegnamenti si possono trarre dall’affaire Sony?
Innanzitutto non si può non rimanere stupefatti davanti al grande potere della
Rete: solo pochi anni fa un problema del genere sarebbe passato sotto silenzio,
oggi invece la diffusione delle informazioni consente alla massa di utenti di
essere più consapevole e di poter anche esercitare una notevole pressione sul
mercato. Dopo aver provato dapprima ad ignorare il problema, e poi a
minimizzarlo, Sony ha dovuto ben presto capitolare e scusarsi dell’accaduto.
Un risultato eccezionale. Se il popolo della Rete si unisse nel boicottare
commercialmente tutte le iniziative arbitrarie, ad esempio dimostrando
chiaramente che non intende più acquistare titoli dotati di protezione dalla
copia, il mercato sarebbe costretto a prenderne atto.
In secondo luogo occorre finalmente valutare le cose per quel
che sono e ammettere finalmente ed apertamente ciò che tutti, fuorché le
Major, sanno: ossia che il problema dei DRM non è tecnico, e quindi non può
essere risolto con accorgimenti tecnici. Diversi mesi fa, in tempi non sospetti,
scrivevo su queste pagine: “Il problema della salvaguardia dei diritti non
è tecnologico ma economico e legale, nel senso che per risolverlo adeguatamente
occorre ripensare l’intero modello concettuale del diritto d’autore e della
distribuzione delle opere. […] Si tratta ora di vedere quanto tempo ci
metterà l’industria a capire che il controllo tecnologico sui dispositivi è
sbagliato ed antistorico, e a cambiare di conseguenza il proprio atteggiamento.
Purtroppo non sembrano esserci molti segnali che inducano all’ottimismo.”
(Vedi: I meccanismi di DRM non
funzionano e non funzioneranno mai ). È
bastato un Russinovich per scardinare in un pomeriggio tutto il meccanismo di
protezione Sony, costato sicuramente parecchi soldi. Se questi soldi fossero
stati risparmiati per mantenere invece più basso il prezzo dei CD, l’effetto
risultante sarebbe stato sicuramente migliore.
Aggiungo un’altra considerazione, forse più filosofica:
così come accade per i libri e i film, la fruizione di un CD musicale non
dovrebbe avere “effetti collaterali” sul fruitore. Nessun libro pretende di
modificarmi le lenti degli occhiali per farmi “leggere meglio”, o peggio
ancora per impedirmi di leggere “in modo illecito”; allo stesso modo vorrei
che neppure i CD audio fossero in grado di installarmi il player di loro scelta!
Infine vorrei ricordare a Sony ed alle altre Major che la
copia digitale da CD a CD non è l’unico modo possibile per far circolare
illecitamente un’opera musicale: quindi anche se si potesse inibire
completamente la copia via computer, il problema delle copie abusive rimarrebbe
tale e quale. Nessuno ad esempio può, con mezzi puramente tecnici, impedire che
qualcuno si copi un disco leggendolo con un lettore CD tradizionale e
prelevandone l’audio dall’uscita analogica: basta semplicemente
collegare l’uscita linea del proprio stereo all’ingresso audio del PC ed
utilizzare un qualsiasi software di conversione A/D per portare il segnale in
formato MP3. La qualità dei moderni sistemi audio su PC garantisce un risultato
eccellente della copia, con uno scadimento inferiore a quello operato dalla
compressione MP3. Con buona pace di tutti i sistemi anticopia presenti e futuri…
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