La brevettabilità del software: perché non può funzionare - 1
di Nicola Walter Palmieri* - 30.10.03
L'approvazione in prima lettura (settembre 2003) da parte
del Parlamento europeo della proposta di direttiva sulla brevettabilità delle
invenzioni attuate attraverso elaboratori elettronici (vedi i contributi nel numero 265) non ha colto l'opportunità di fare chiarezza, e di porre un freno
alla tendenza di concedere sempre maggiore protezione agli oligopolisti della
proprietà intellettuale.
Diamo atto che la nuova proposta ha preso le distanze dal più disdicevole (e
insultante) sillogismo della proposta del 2002, quello
contenuto negli articoli 3 e 4. L'articolo 3 proponeva: "Gli Stati membri
assicurano che un'invenzione attuata per mezzo di elaboratori elettronici sia
considerata appartenente ad un settore della tecnologia". E l'articolo
4(2) aggiungeva: "Gli Stati membri assicurano che, affinché sia
considerata implicante un'attività inventiva, un'invenzione attuata per
mezzo di elaboratori elettronici arrechi un contributo tecnico". Come dire
che un'invenzione attuata per mezzo di elaboratore deve, per essere
brevettabile, arrecare un contributo tecnico; ma tutte le invenzioni attuate per
mezzo di elaboratore arrecano un contributo tecnico; quindi tutte le invenzioni
attuate per mezzo di elaboratore elettronico sono brevettabili.
Contrariamente a quanto sostiene la relatrice Arlene McCarthy,
non c'è solo un'alternativa, quella di approvare la proposta (con eventuali
emendamenti, come quelli da lei suggeriti - proposta asseritamente conforme
agli obblighi internazionali della UE), o rigettarla lasciando che l'Ufficio
europeo dei brevetti (UEB) continui la sua folle escalation. C'è
almeno una terza scelta, quella di semplicemente armonizzare la legge sui
brevetti in Europa statuendo, ancora una volta, che i programmi per computer non
sono brevettabili (la dicitura "in quanto tali" era chiarissima nel
contesto della Convenzione europea dei brevetti, ma è stata scandalosamente
"intepretata" contra legem).
Mettiamo in chiaro che qui non si parla della brevettabilità di un'invenzione
industriale attuata per mezzo o con l'ausilio di elaboratore. È fuori dubbio
che la protezione brevettuale abbracci l'intera invenzione, talché un sistema
innovativo di frenata, come l'ABS, è coperto da brevetto con tutti i suoi
elementi, inclusa la particolare computerizzazione del sistema. È concetto
pacifico, il massimo tribunale tedesco (BGH) lo ha confermato già nel 1980.
Ciò non toglie però che i singoli algoritmi - espressioni matematiche -
usati nell'ABS devono rimanere liberi da qualunque vincolo protettivo, e a
disposizione di tutti. Nella lucida sentenza del 1976, il BGH aveva statuito che
"qualsiasi tentativo di ottenere protezione delle conquiste della mente
attraverso l'estensione dei limiti del concetto di invenzione tecnica . . .
conduce a un sentiero proibito. Dobbiamo perciò insistere che una pura e
semplice regola di organizzazione e di calcolo, la cui sola relazione con il
mondo della tecnologia consiste nella sua utilizzabilità in normali operazioni
di un computer, non merita protezione brevettuale".
Questa sentenza non è piaciuta agli "uomini nuovi" - i "brevettualisti"
del software - uno dei quali, giudice del BGH degli anni 2000, non ha
esitato - oltrepassando i limiti anche del rispetto fra colleghi e della
cortesia - ad apostrofare il BGH del 1976 (cioè i suoi colleghi di allora)
come appartenenti all'era "paleolitica", e a sostenere che il nuovo
collegio del BGH, che si era nel frattempo attaccato al carro della frenesia
americana, stava finalmente traghettando il massimo tribunale tedesco nel
"neolitico" con la praticamente incondizionata brevettabilità del software.
Dato che non si parla della brevettabilità di invenzioni
"tecniche" che utilizzano programmi elettronici, di cosa si parla
allora? Non lo si capisce bene dalla relazione, ma immagino delle situazioni dei
brevetti sull'utilizzazione degli algoritmi che operano la correzione
ortografica premendo la barra di spazio (XyQuest), di quelli che ricalcolano i
valori matematici su tabulato quando viene modificato un fattore (Refac Int'l),
o di quelli che comprimono i dati (LZW); dei brevetti che coprono lo scorrimento
di finestre multiple ("hypercard"), la memorizzazione di
programmi multipli quando una finestra è oscurata (tecnica sviluppata dalla MIT
la quale però non può più liberamente usarla perché altri si sono nel
frattempo appropriati dell'idea dell'MIT e la hanno brevettata), la hyperlink
technology.
È proprio quello che occorre evitare. Barriere per nuovi entranti e mercati non
competitivi sono il costo sociale di questi brevetti di software, a tutto
vantaggio di chi domina il mercato.
I programmi da elaboratore erano un tempo "aperti", ognuno poteva
cambiarli, adattarli, migliorarli. Chi scrive oggi un programma in America -
da oltre vent'anni lo U.S. Patent & Trademark Office concede regolarmente
brevetti sul software nonostante il fatto che, anche lì, i tribunali
avevano stabilito che gli algoritmi utilizzati nei programmi di computer e nelle
tecniche di software non potevano essere brevettati - rischia di essere
citato in giudizio, e dovrà affrontare i costi legali e forse pagare
significativi risarcimenti. Non esiste possibilità pratica di eliminare questo
rischio: la ricerca dei brevetti che possono essere violati è difficile,
costosa, non affidabile e, comunque, la ricerca non rivela le domande di
brevetti pendenti: i relativi brevetti, se concessi, avranno efficacia
retroattiva alla data della domanda.
Con il proliferare dei brevetti sul software solo i giganti dell'industria
possono in USA - e potranno in Europa se si permette anche qui la
brevettabilità dei programmi da computer - permettersi di scrivere e
immettere in commercio, su larga scala, programmi elettronici perché solo loro
avranno sufficienti brevetti da concedere in licenza ai concorrenti,
"proprietari" di brevetti violati, di modo che, con lo scambio
reciproco di licenze, potranno assicurarsi, insieme, il monopolio del mercato.
Le piccole e medie imprese, i programmatori che scrivono software,
talvolta geniale, nel retrobottega o garage, e che hanno tradizionalmente
fornito il maggiore contributo alla innovazione, stanno scomparendo in America;
e scompariranno in Europa se si permetterà la brevettabilità del software.
I programmatori avversano i brevetti sul software che considerano una
minaccia all'efficienza dell'industria della programmazione elettronica.
Studi condotti negli USA hanno dimostrato che i brevetti su software (ne
sono stati concessi oltre 100.000) hanno ridotto lo scambio della conoscenza,
rallentato l'innovazione, limitato la competitività, creato un clima di
incertezza legale e scoraggiato la creazione di nuove imprese nel campo del software.
Tutto questo è dovuto anche alla generale inflazione di brevetti, che è un
risultato del cattivo funzionamento dell'ufficio brevetti che non di rado
concede la protezione a "invenzioni" che non dovrebbero essere
brevettate perché prive di novità e di livello inventivo nonché, nel caso
specifico del software, perché sono quasi sempre metodi intellettuali
senza carattere tecnico. Le procedure della concessione del brevetto sono
diventate mere formalità, l'Ufficio brevetti è interessato a concedere molti
brevetti per finanziarsi: quello che conta di più è il numero di brevetti
concessi non la qualità del contenuto. (V. i brevetti U.S. n. 6,485,773 o n.
6,497,718 - non sono brevetti software - come casi
anedottici del basso livello di qualità raggiunto dall'America).
Anche il Parlamento europeo vede la salvezza in una forte protezione della
proprietà intellettuale. In un emendamento apportato in aula durante la
discussione della proposta di direttiva sui brevetti software, esso si è
così espresso: "Con la presente tendenza dell'industria manufatturiera
di trasferire le sue attività in economie a basso costo fuori della UE, l'importanza
della proprietà intellettuale e specificamente della protezione dei brevetti è
dimostrata da se stessa, "is self-evident" (c'è sempre poco
da fidarsi di ciò che si dimostra "da se stesso").
La Commissione europea sa come stanno realmente le cose. Essa dispone, per
sua stessa ammissione, di dettagliati studi che confermano che i brevetti software
sono in conflitto con i principi fondamentali della non brevettabilità (leggi
di natura, verità scientifiche e loro espressione matematica), che i brevetti software
sono dannosi per la competitività e l'innovazione, e che essi male si
concilierebbero con il dichiarato obiettivo dell'Europa di posizionarsi all'avanguardia
dell'economia mondiale. Ciononostante, essa ha preferito seguire l'opinione
di minoranza ("poche" ditte di software che però rappresentano
un "grande" fatturato, ammette la stessa Commissione).
L'industria europea, secondo la Commissione, si troverebbe svantaggiata a
non concedere la brevettabilità del software quando l'America lo fa. A
mio avviso, è vero il contrario. Ma l'Europa ha purtroppo la tendenza di
ispirarsi all'esempio americano, anche quando l'America fornisce cattivi
modelli. Nella sua relazione, la relatrice spiega che "se cercassimo di
proibire tutti i brevetti [software]... sfavoriremmo i nostri
sviluppatori di software quando essi cercano di competere negli Stati
Uniti". In realtà, chi preme in Europa per ottenere la più ampia
brevettabilità dei programmi di computer sono le grandi case di software
americane. Esse dominano il mercato. La Commissione europea farebbe bene a
verificare il reale probabile impatto dei brevetti di software su
innovazione, competitività, sicurezza e consumatori in Europa, e ad assumere
una leadership propria, piuttosto che piegarsi alle richieste americane.
Giungerebbe alla conclusione che la direttiva da essa proposta viola il
Trattato di Roma, il quale impone che l'iniziativa delle istituzioni europee
deve essere in primo luogo a beneficio dei cittadini/consumatori europei. Per
agire in questa direzione e ottenere qualche risultato utile, sarebbe saggio che
la Commissione europea impedisse alle grandi società di software e agli
sfruttatori di brevetti americani di ottenere brevetti su programmi di computer
in Europa. Data la supremazia delle società americane quanto a numero di
invenzioni software che già hanno brevettato, e dato il loro potenziale
di invenzioni brevettabili in Europa, la bilancia fra costi e benefici pende
dalla parte di un'Europa senza brevetti software. Fra i due mali (se di
mali si può parlare), il non concedere brevetti software è il minore
perché gli americani hanno molto più da perdere che gli europei in un mondo UE
senza brevetti software.
È facile immaginare che centinaia di "proprietari" di brevetti software
americani stiano già affollando le anticamere dell'UEB in attesa dell'emanazione
della legge europea di brevettabilità del software, pronti ad attaccare
le imprese europee e imporre loro l'accettazione di licenze e il pagamento di
royalties.
L'Europa, si dice, non ha scelta: deve introdurre la brevettabilità del software
in base agli obblighi assunti con la Convenzione internazionale "Trade
related intellectual property rights" (TRIPS). Anche questo però non
è dimostrato. L'articolo 27 (1) TRIPS dispone che "brevetti dovranno
essere disponibili per qualsiasi invenzione, che si tratti di prodotti o
processi, in tutti i campi della tecnologia, a condizione che presentino il
carattere di novità, implichino un'attività inventiva e siano atte ad
un'applicazione industriale. . . . I brevetti dovranno essere concessi, e i
relativi diritti dovranno essere esercitabili, senza discriminazioni quanto . .
. al settore della tecnologia". I compilatori della proposta di direttiva software
del 2002 conclusero, dopo aver letto l'art. 27 (1): "Questi principi
valgono di conseguenza per le invenzioni attuate per mezzo di elaboratori
elettronici". Si può sostenere il contrario con uguale dignità e
legittimità.
Gli avvocati "brevettisti" - anche quelli europei - hanno
afferrato quanto le cause di violazione brevetti siano lucrative (le parcelle
arrivano facilmente all'ordine di grandezza di milioni di euro); essi danno
man forte alla grande industria (e ai "disturbatori" i quali
acquistano brevetti al solo scopo di usarli per intentare azioni legali), in
questa lotta per l'egemonia sul diritto di proprietà intellettuale nel campo
del software. L'assioma, sempre ripetuto, che forti brevetti
favoriscano innovazione e competitività, non è stato provato. La Commissione
propone un risultato senza sforzarsi di analizzarne le implicazioni, l'impatto
sociale, il gradimento dei cittadini, e senza chiedersi quale sia la
fondamentale giustificazione sociale, economica, e storica della
brevettabilità, cioè la disseminazione della conoscenza tecnica a beneficio
della società in generale.
Essa non concentra la sua attenzione sull'aspetto critico di un enorme e
costoso aumento di litigiosità cui i brevetti software inevitabilmente
condurranno. La Commissione conosce i numerosi esempi di cause per violazione di
brevetti software, concluse, transatte o pendenti in USA, alcune
spettacolari per la loro temerarietà. Essa sa dell'enorme spreco di denaro e
risorse umane, tutto a vantaggio di poche grandi società di software, di
qualche avventuriero dedito all'acquisto di brevetti (non per la loro
realizzazione industriale bensì solo a scopo di disturbo dell'industria), e
della categoria degli avvocati brevettualisti. La Commissione sa anche che l'Europa
è rimasta più o meno al riparo dalla dissennata escalation americana
grazie alla giudiziosa norma dell'art. 52 della Convenzione europea brevetti
(e ciò nonostante la pervicace insistenza dell'UEB e di alcuni tribunali
tedeschi di volersi coinvolgere nel marasma americano). Tutto questo non sembra
però indurla alla doverosa "precauzione", prima di lanciarsi nell'avventura
che imporrà la brevettabilità del software a tutti gli Stati dell'Unione.
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