Nota. Sui siti del governo francese non è ancora disponibile
il testo ufficiale del memorandum d'intesa. Qui
c'è una versione in inglese.
Credo che al di là degli appelli, il “patto alla francese”, frettolosamente
bollato come liberticida anche da alcune associazioni dei consumatori e da molti
mass-media, richieda un approfondimento. Perché sarebbe un peccato non prestare
la dovuta attenzione a quel che c’è di buono.
I lettori di InterLex sono certamente al corrente che da diversi anni i
titolari dei diritti di proprietà intellettuale, prime tra tutte le major
statunitensi, hanno organizzato una serie di centri servizi che verificano se la
“messa a disposizione” dei “contenuti” (film, brani musicali, etc.)
operata da chi utilizza le tecnologie P2P è fatta in violazione dei loro
diritti. L’operazione è concettualmente semplice: se qualcuno mette a
disposizione un contenuto perché chiunque possa accedervi, possono scaricarlo
anche i titolari dei diritti e prendere atto dell’eventuale violazione.
L’unica informazione che così si ottiene relativamente al soggetto che
opera la “messa a disposizione”, è l’indirizzo di rete utilizzato per la
presunta violazione. Gli unici soggetti che, con le dovute eccezioni, possono
risalire all’identità del cliente a cui è stato assegnato il numero di rete
sono i fornitori di accesso ad Internet. Di conseguenza i titolari dei diritti
tendono ad inondare i fornitori di accesso con segnalazioni circa i presunti
illeciti.
Segnalazioni che, in Italia, i fornitori di accesso non possono che
trasmettere all’autorità giudiziaria, perché in fase di recepimento della
direttiva europea sul commercio elettronico, i titolari dei diritti sono
riusciti a convincere il legislatore italiano ad aggiungere un codicillo secondo
il quale il fornitore del servizio, nel caso in cui venga a conoscenza dell’illecito,
ne diventa civilmente responsabile se non denuncia il fatto all’autorità.
Si stima che, se i fornitori di accesso non si rifiutassero di riceverle, le
segnalazioni così prodotte dai titolari dei diritti sarebbero, solo per l’Italia,
dell’ordine della diecina di miglia al giorno e i tribunali risulterebbero
intasati da milioni di denunce che rimarrebbero sostanzialmente lettera morta.
Un vero e proprio autogol, dal punto di vista dei titolari dei diritti, che
qualcuno (ricordate il caso Peppermint?) ha cercato di evitare chiedendo ai
fornitori di accesso, prima direttamente e poi per via giudiziaria, di
comunicare l’identità dei clienti al titolare dei diritti. Richiesta
inaccettabile se avanzata direttamente e che comunque ha sollevato l’intervento
del Garante della privacy.
Partendo dal presupposto che quello di essere pagato per il frutto del
proprio lavoro sia un sacrosanto diritto di chi scrive, compone, produce, edita,
pubblica, etc. etc, riconosciuto tra l’altro da quella stessa Costituzione che
invochiamo a tutela del sacrosanto diritto alla segretezza ed inviolabilità
delle comunicazioni e nella certezza che, una volta informati, i clienti si
asterrebbero in larga misura da ulteriori illeciti, i fornitori italiani di
accesso ad internet sollecitano da tempo una modifica del quadro normativo che
scongiuri qualsiasi ipotesi di filtraggio generalizzato del traffico – ipotesi
contro la quale si sono battuti al tempo dei famigerati “sceriffi della rete”
proposti dall’ex ministro Urbani – e consenta viceversa di inoltrare ai
clienti, per loro opportuna informazione e valutazione, le segnalazioni inviate
dai titolari dei diritti.
Ebbene, il “patto alla francese” prevede esattamente questo, anzi, offre
una garanzia in più: i titolari dei diritti devono inviare le proprie
segnalazioni ad una Autorità presieduta da un magistrato che le gira ai
fornitori di accesso perché a loro volta informino i clienti della diffida
emessa a loro carico. Con un corollario di sanzioni, in caso di recidiva, che
vanno dalla sospensione temporanea del collegamento ad Internet all’iscrizione
in un elenco di soggetti plurisanzionati.
La proposta merita la massima attenzione, anche se richiede qualche
mitigazione. Per mancata vigilanza si può multare il titolare dell’abbonamento,
ma non privare di un ormai indispensabile accesso ad Internet un intera
comunità familiare od aziendale.
Piuttosto che su questo aspetto, i commenti negativi si sono concentrati
sulla ipotesi di inaccettabili filtraggi generalizzati di tutto il traffico che
attraversa la rete. Sennonché, un esame più attento del patto alla francese
evidenzia che le (inaccettabili, come sopra ribadito) metodologie di analisi
globale del traffico sono citate come mera ipotesi di studio e che la loro
applicazione è subordinata al “caso in cui siano convincenti i risultati e
la loro applicazione tecnica e finanziaria possa essere ritenuta realistica”.
Tradotto dal politichese, significa che i fornitori di accesso si sono opposti
alle reiterate insistenze dei titoli dei diritti e che il problema viene
rinviato sine die. E comunque in Italia una previsione del genere, che
richiederebbe una modifica costituzionale, appare ancora più remota.
In definitiva, l’unica previsione pratica relativa al filtraggio è quella
che riguarda le piattaforme distributive, anche quelle P2P, che dovrebbero
essere modificate perché il download sia affiancato da una verifica della “filigrana
elettronica” eventualmente inserita nel “contenuto” al fine di consentire
al titolare dei diritti di negare l’autorizzazione allo scambio.
Su questo punto, ben diverso dal precedente, si può o meno essere d’accordo
sotto il profilo tecnico (un DRM Open Source potrebbe essere più pratico di una
banca dati di watermark), ma non sotto quello del bilanciamento tra
libertà di comunicazione e tutela dei diritti di proprietà intellettuale.
Liberta di comunicazione non può significare liberta di danneggiare il diritto
degli autori etc. ad essere retribuiti per il loro lavoro.
Alla luce di queste considerazioni, le violentissime critiche avanzate al
patto francese appaiono molto superficiali. Si è concentrata l’attenzione su
problemi che nascono da una lettura disattenta e dalla mancata considerazione
del quadro costituzionale, ma sono stati trascurati problemi sostanziali (la
medioevale punizione per il fatto del terzo). E quel che è peggio, si sono
persi totalmente di vista gli aspetti positivi del patto alla francese.
Sarebbe viceversa costruttivo mettersi all’opera per proporre un “patto
all’italiana” che prenda il buono di quello alla francese scartandone le
criticità.
Post scriptum. “Il nostro Paese detiene una delle più forti
industrie di contenuti esistenti nel pianeta; questo ci dà la possibilità di
preservare e sviluppare l’identità culturale e l’influenza della Francia in
Europa”.
Così esordisce il cosiddetto “accordo alla francese” tra Governo Sarkozy,
titolari dei diritti di proprietà intellettuale, fornitori di accesso ad
Internet e fornitori di piattaforme distributive di musica e film on-line per
proseguire con trionfalistico “Il nostro Paese beneficia inoltre di una tra le
più sviluppate industrie di accesso a Internet a banda larga in tutto il mondo”.
No, cari cugini d’Oltralpe, con 22,5 abbonati alla larga banda ogni 100
abitanti (OECD, giugno 2007) siete solo tredicesimi in classifica mondiale.
Meglio dell’Italia (al ventunesimo posto con un modesto 15,8 abbonati per 100
abitanti), ma molto peggio di Danimarca (prima in classifica con il 34,3),
Olanda (33,5) e un’altra decina di paesi; tra cui la Svizzera (30,7) e la
Corea (29,9).
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