Ho letto con interesse le considerazioni
inviate da Infocert in risposta al mio articolo Se la firma digitale diventa
un'odissea, che ne confermano sostanzialmente il contenuto e non
aggiungono elementi di novità.
Oramai è chiaro che il problema della firma digitale è politico e non
tecnico. Se il legislatore avesse scelto di riconoscere il valore legale di
qualsiasi tipo di firma e di architettura di CA (per esempio, il web of trust di
PGP), allora l'unico giudice sarebbe stato - giustamente - il mercato. E ogni
certificatore avrebbe potuto fare le sue scelte tecnologiche nella massima
libertà. La scelta effettivamente compiuta, invece, crea un lock-in tecnologico
che costringe i cittadini a dover usare per forza i servizi dei certificatori
per accedere anche a servizi della pubblica amministrazione. Ma in questo caso,
non è ammissibile che lo Stato crei - o consenta a chiunque di creare -
discriminazioni tecnologiche come quelle che si sono create con la firma
digitale e che la stanno condannando alla "disapplicazione tacita".
A riprova, il Consiglio nazionale forense - presentando la
cosa come una "semplificazione" - ha appena comunicato che per
inviare telematicamente il "Modello 5" (una specie di dichiarazione
dei redditi) non è più necessaria la firma digitale, ma basta essere utenti
registrati.
A parte l'applicazione pedissequa dell'errore di diritto già presente nell'art.
65 del codice dell'amministrazione digitale, che confonde l'identificazione con
la sottoscrizione, è un fatto che la scelta di non utilizzare più la firma
digitale, perché è troppo complicata, è un fortissimo segnale su come il
mondo esterno percepisce questo strumento.
E nemmeno si può dare la colpa agli utenti, dicendo che non sono abbastanza
acculturati tecnologicamente. Nessuno ha chiesto di essere costretto a usare la
firma digitale, quindi è necessario che sia appetibile e facilmente
utilizzabile da chi vuole o deve servirsene.
(A. M.)
|