La firma digitale è ancora equivalente alla
sottoscrizione autografa?
di Giorgio Rognetta* - 03.07.03Nel convegno di Catania sul
diritto amministrativo elettronico (DAE 2003), durante la sessione dedicata
principalmente alle firme elettroniche, che ho avuto l'onore di presiedere,
sono state sollevate diverse critiche al DPR 137/2003. Ne è derivata una
discussione che ci siamo riproposti di continuare tramite Internet: ecco,
quindi, il mio contributo su uno dei punti più contestati, cioè l'eliminazione
del principio di equivalenza tra firma digitale e sottoscrizione autografa,
già consacrato nell'art. 23, comma 2, del DPR 445/2000 (e, prima ancora,
nell'art. 10, comma 2, del DPR 513/1997).
Quali sono le conseguenze, sul piano giuridico, di tale scelta operata con il
DPR 137/2003?
Per dare una risposta dobbiamo esaminare, innanzi tutto, quale sia stata la
reale portata dell'equivalenza sancita nelle norme sopra indicate.
Nell'ambito della originaria disciplina della documentazione informatica,
delineata dall'art. 15, comma 2, della legge 59/1997, dal DPR 513/1997 (poi
confluito nel DPR 445/2000) e dal DPCM 8.2.1999 (regole tecniche), emerge una incontrovertibile
verità: la firma digitale, grazie ai suoi rigorosi requisiti tecnici, è in
grado di soddisfare le funzioni tipiche della sottoscrizione (funzioni
indicativa, dichiarativa, probatoria). Tali funzioni, com'è noto, non sono
il frutto di un rigido dettato normativo, ma di una pacifica elaborazione
dottrinaria. La stessa nozione di sottoscrizione non risulta racchiusa in una
limitante cornice legislativa.
Il nostro ordinamento giuridico, dunque, pur essendo fondato sulla
documentazione cartacea, non appare restio ad accogliere modalità di
sottoscrizione equivalenti a quella tradizionale. Pertanto, quando la
tecnologia riesce a condensare in uno strumento come la firma digitale le
funzioni tipiche della sottoscrizione autografa, e quando tale strumento è
inserito dal legislatore nell'ordinamento giuridico, l'equivalenza può
ritenersi già raggiunta: non è indispensabile, ma solo opportuno, che tale
equivalenza sia confermata con una specifica norma.
E' opportuno perché si tratta di una materia di traumatico impatto
sociale, che opera uno sconvolgimento di radicate culture documentali: ecco
perché il legislatore è tenuto a rassicurare i fruitori di tali innovativi
strumenti di documentazione. Ribadire, quindi, che la firma digitale equivale
alla sottoscrizione autografa, è senza dubbio conveniente, anche se non
strettamente necessario.
D'altro canto occorre considerare che, dopo i primi prevedibili timori,
la firma digitale ha già conquistato una sua forza applicativa, sia nella
coscienza sociale, sia attraverso taluni obblighi o facoltà: una
testimonianza in tal senso è proprio nella cronaca di questi giorni relativa
al registro delle imprese.
Su tale scenario irrompe, quindi, il DPR 137/2003 che, però, elimina soltanto
il simbolico involucro dell'equivalenza, non la concreta capacità della
firma digitale di soddisfare le funzioni della sottoscrizione che, del resto,
continuano ad essere dimostrate sul campo, sia pure con talune comprensibili
difficoltà da rodaggio.
Per quale motivo, allora, il DPR n. 137 ha eliminato il principio di
equivalenza? E' probabile che ciò sia avvenuto perché l'equivalenza era
riferita alla sola firma digitale e, quindi, si sia voluto evitare che, nel
disordine derivato dal faticoso recepimento della direttiva, potessero nascere
ulteriori problemi relativi ad una pretesa esclusiva dignità della firma
digitale rispetto alle firme elettroniche avanzate-qualificate.
Quale che sia la motivazione della novità introdotta dal DPR n. 137,
suggerisco, nel dibattito già iniziato con allarmate interpretazioni, la
seguente conclusione forse più rassicurante: una doverosa interpretazione
sistematica della materia, dopo il coordinamento tentato dal DPR n. 137/2003,
conduce ad escludere che la firma digitale non sia più equivalente alla
sottoscrizione autografa.
|