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 Commercio elettronico

Commercio elettronico: una nuova frontiera per il diritto
di Enzo Maria Tripodi* e Massimiliano Granieri** - 16.12.99

1. I "confini" del commercio elettronico

L'espressione, entrata nel linguaggio comune, di "commercio elettronico" ha più o meno implicitamente condizionato l'inquadramento del fenomeno, inducendo a pensare, proprio perché si parla di commercio e per la capillarità dello stesso, che le uniche transazioni interessate siano quelle che si svolgono sotto forma di operazioni di massa. Da qui a chiamare in causa il consumatore, il passo è breve. Ma, così facendo, si trascura probabilmente una porzione consistente del tema e dei problemi ad esso connessi, quale quelli dei rapporti tra imprenditori.

Quello della terminologia è, evidentemente, solo un falso problema. Parlare di commercio elettronico, piuttosto che di commercio telematico e di scambi in rete, di e-comm, e-trade o e-business è questione meramente stipulatoria.
Quel che conta, invece, è prendere coscienza del fatto che la possibilità di realizzare transazioni avvalendosi degli strumenti offerti dalle moderne tecnologie costituisce un risvolto dell'avvento delle stesse, destinate a influenzare comparti ben più ampi di quelli che la semplice idea dello scambio lascerebbe immaginare. Non si deve dimenticare, infatti, che la ragione per la quale e a partire dalla quale si è iniziato a riflettere intorno all'e-commerce è stata l'adozione della normativa italiana in materia di firma digitale e di documento informatico. Normativa, si badi, di matrice apertamente ed innegabilmente amministrativistica, collocata com'era all'interno del disegno, perseguito dalla legislazione Bassanini, di ristrutturare la pubblica amministrazione.

In ragione dei molteplici ambiti nei quali le tecniche informatiche possono incidere, come di fatto incidono, occorre prendere atto che il tema non è univoco; esso, al contrario, appare frastagliato, ed ogni suo aspetto chiama in causa settori diversi del diritto. Così, se è vero che i rapporti business to business o busness to consumers mettono capo sicuramente e pressoché esclusivamente al sistema normativo del diritto privato, non altrettanto può dirsi dei rapporti tra P.A. e imprese, almeno quando l'amministrazione non agisce jure privatorum; mentre è certo che il rapporto tra amministrazione e cittadini risente prevalentemente della normativa amministrativistica.

Sulla scorta delle superiori premesse, ogni serio discorso intorno al commercio elettronico dovrebbe prendere le mosse dall'idea che il fenomeno non ha caratteri stabili ed omogenei per tutte le sue manifestazioni. In questa chiave, va affrontato il tema della fattibilità e delle garanzie del commercio elettronico business to business (d'ora in avanti B2B), non tanto enfatizzando sulle grandi opportunità offerte alle imprese da questa nuova forma di penetrazione del mercato, quanto tentando di giuridicizzare il discorso, partendo dai presupposti di un intervento di tipo regolatorio.

2. Un campionario delle problematiche del commercio elettronico

L'argomento del commercio elettronico solleva una coltre densa di questioni giuridiche che sono state sino ad ora semplicemente elencate, talora giustapposte. Di (talune di) esse occorre dar brevemente conto, poiché esse rappresentano anche dei fattori di criticità per lo sviluppo.
Per darsi ragione dei problemi posti dal commercio elettronico B2B, e dall'e-comm in genere, occorre muovere da quelle caratteristiche che sembrano condensare la particolarità dello scambio in rete.
In primo luogo, la transnazionalità, legata alla struttura stessa di Internet, che limita fortemente le attitudini regolatorie di interventi normativi di tipo municipale.
In secondo luogo, la velocità dello scambio, che rende desueto ogni intervento non in grado di rivolgersi agli aspetti indefettibili del fenomeno.
Terzo, la non fisicità, che rende lo scambio assolutamente privo di ogni forma di contatto, dal momento della negoziazione a quello della conclusione ed esecuzione.

Attorno a siffatte tre indefettibili caratteristiche ruotano i problemi del commercio elettronico B2B, primo tra tutti, in ogni caso - anche in considerazione delle ricadute economiche dello sviluppo del commercio elettronico - è quello dell'accesso alla rete, che mette capo ad una questione di non poco momento, quale quello della concorrenza nel settore latamente inteso delle comunicazioni. Di questa ricaduta, tuttavia, pur registrando la sua importanza, non mette conto occuparsi in questa sede, trattandosi di un argomento attratto e trattato, ratione materiae, dalla disciplina antitrust.
Ma a parte quello da ultimo considerato, i problemi ulteriori e ben più pregnanti possono essere così individuati.

  • La legge applicabile alle transazioni commerciali effettuate tra soggetti distanti, anche non appartenenti allo stesso Stato, anche non appartenenti alla Unione europea. All'interno di questa problematica, rivesta una sua autonoma importanza il problema della giurisdizione competente a conoscere delle eventuali controversie che possono sorgere in relazione alla formazione ed esecuzione dei contratti stipulati via Internet.
  • L'efficacia ed opponibilità degli strumenti di autoregolamentazione, sviluppati dagli operatori che promuovono la contrattazione telematica e offrono beni e servizi attraverso il World Wide Web. In particolare, si tratta di verificare le modalità giuridiche di estensione dell'efficacia delle norme autoregolamentari ai soggetti coinvolti nelle transazioni.
  • La tutela dell'affidamento delle imprese e dei consumatori che decidono di acquistare beni e richiedere servizi attraverso Internet.
  • La tutela della privacy delle parti coinvolte nelle transazioni e sicurezza dei dati personali richiesti al fine di eseguire le varie operazioni negoziali, nel rispetto delle normative applicabili sul consenso informato per la circolazione dei dati personali.
  • La disciplina della sicurezza nelle operazioni di money transfer, ove previste, e dei pagamenti effettuati via Internet.
  • La tutela dei marchi e dei segni distintivi di cui siano titolari le aziende che offrono beni e servizi in via telematica; tutela dei domain names notori, impiegati dalle stesse aziende; tutela della proprietà industriale quando viene fatta oggetto di transazioni sulla rete.
  • I profili fiscali delle operazioni delle cessioni di beni e prestazioni di servizi svolte tramite Internet, problematica - va da sé - destinata ad essere sicuramente influenzata dalla qualificazione civilistica delle operazioni di scambio.

Non è possibile occuparsi di tutte le problematiche appena sollevate. Peraltro, ve ne sono alcune che assumono rilievo preponderante e la cui trattazione dovrebbe dare delle indicazioni, anche de jure condendo, sia nel senso della fattibilità, che nel senso delle garanzie del commercio elettronico.

La legge applicabile al commercio elettronico

Problema assolutamente predominante e pregiudiziale alla soluzione di tutto il resto è quello della legge applicabile. Esso non è solo quella della scelta di un ordinamento giuridico, tra i vari astrattamente destinati a disciplinare una fattispecie a vocazione transnazionale. Non è, in altre parole, solo un problema di diritto internazionale privato.
Legge applicabile è anche la questione di quale diritto applicare ad un determinato rapporto, se, cioè, norme convenzionali o eteronormative, di tipo legislativo, regolamentare o altro. Da questo punto di vista, l'ovvia constatazione è nel senso che il commercio elettronico come fenomeno complessivamente considerato non ha una disciplina propria e il dibattito è ancora aperto sull'opportunità di istituire una disciplina ad hoc.
Il problema della scelta di legificare in materia non è - come intuibile - solo una questione accademica. In un contesto globale, improntato alla diversità di linguaggi e di discipline giuridiche e caratterizzato dall'intreccio con le tecnologie telematiche ed informatiche, la regolamentazione significa garanzia per gli operatori economici, seppur vada accuratamente soppesato il rischio di determinare un freno legislativo al progresso della tecnologia applicata al commercio.
Un esempio potrà offrire un quadro illuminante.

Su Internet sono presenti alcuni siti che propongono - al ribasso - l'acquisto di biglietti di treno, aereo, ed altro, iniziativa che consente alle imprese di trovare un acquirente (anzi, l'acquirente) di un prodotto o servizio che altrimenti resterebbe invenduto. Orbene, l'art. 18, comma 5, del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 114 (recante la riforma della disciplina del commercio) prevede il divieto di vendita all'asta per mezzo della televisione o di altri sistemi di comunicazione, introducendo un divieto non previsto nella previgente disciplina. Come si vede, l'introduzione di un divieto (pensato, forse, per le aste televisive), finisce per riverberare consistenti effetti sulla nascita di nuovi mercati e nuove ipotesi di marketing.
Al di là di questi esempi - che però la dicono lunga sulle complicanze di una normazione "a cuor leggero" -, le ragioni che militano in favore di un intervento normativo muovono da un'ipotesi semplificante, che in questa sede deve essere verificata. Il commercio elettronico rappresenta uno strumento che, per capillarità, dovrebbe consentire una più agevole contrattazione sia tra imprese e consumatori che nei rapporti business to business.

Nel considerare, dal punto di vista dell'analisi economica, l'opportunità di intervenire normativamente, il problema che si pone è quello del confronto tra i costi individuali dei contraenti nel regolare autonomamente il loro rapporto - arrivando a negoziare ogni minimo aspetto - e i costi di un'attività legislativa che si risolva a beneficio di tutte le possibili e-parties.
È sin troppo evidente che, a fronte delle molte variabili e delle molte incertezza connesse con l'e-comm, un "diritto dei contratti in rete" assolva a quella stessa funzione di bene pubblico che il tradizionale diritto dei contratti svolge in favore dell'autonomia privata nelle forme di contrattazione sino ad oggi impiegate. L'alternativa tra default sì, default no, anche in questo caso, risulta pesantemente sbilanciata verso la prima opzione.
Quello di un buon diritto dei contratti appare, allora, un problema non nuovo che potrebbe pregiudicare lo sviluppo degli scambi in rete, qualora divenisse un 'cattivo' diritto.
Anche qui, può individuarsi con immediatezza un rischio come quello di imporre sempre, per tutte le contrattazioni, l'impiego della firma digitale.

Ma, anziché partire aprioristicamente dall'assunto che legiferare sia una necessità imprescindibile e che ciò debba essere fatto indistintamente per tutte le forme di negoziazione, pare più ragionevole partire dagli interessi che, attraverso la normazione, vorrebbero essere tutelati. Da siffatto punto di vista, la situazione appare piuttosto frastagliata e se l'esigenza di una disciplina che assicuri uno standard minimo di chiarezza e sicurezza dei traffici risultava indistintamente ed omogeneamente avvertita, quando si inizia a considerare separatamente il commercio con i consumatori e quello con le imprese la risposta non può essere la stessa. Non nel senso che una medesima norma non possa valere per lo stesso tipo di transazioni, ma nel senso che renderla imperativa, o non, ha riflessi diversi sulle due realtà. In breve, occorre iniziare a pensare che se una regola per il commercio in rete serve, essa non necessariamente potrà essere la stessa per i consumatori e per le aziende.

Per i contratti conclusi in rete dai consumatori, la scelta comunitaria è stata quella della direttiva sulle vendite a distanza, che però, a dire delle associazioni dei consumatori, ha deluso molte aspettative. Comunque, la direttiva, che pure ha la ridotta funzione di un intervento armonizzante, mira all'introduzione di norme che, a mente dell'art. 12, non potranno essere derogate. Uno dei cardini normativi della disciplina comunitaria risiede, ancora una volta, nella previsione dello jus poenitendi, retaggio e prodotto dell'estensione, nel commercio elettronico, di quanto già previsto dall'art. 9 del D.lgs. 50/92.
Sempre nell'ottica della tutela dei consumatori - ma con considerazioni che in questo caso possono estendersi al commercio elettronico B2B -, è da segnalare come molte legislazioni nazionali abbiano individuato le guidelines per lo sviluppo. Il limite della norma, tuttavia, è in re ipsa, se si pensa che essa è contenuta in una legge nazionale mentre si è alle prese con uno strumento che - come detto - è transnazionale per definizione.

Molti tuttavia confidano nella self-regulation, la quale può essere vista, per certi aspetti, come una forma sperimentale di regolamentazione del fenomeno, in vista dell'adozione di strumenti di tipo normativo in senso stretto (si v. l'art. 21 del citato D.Lgs. n. 114/98).
D'altra parte, è vero anche che l'autoregolamentazione è probabilmente l'unico strumento in grado di muoversi alla stessa velocità di evoluzione di internet.

4. Segue: i conflitti di legislazione

Il problema del diritto applicabile, in assenza di una norma che lo individui imperativamente, è rappresentato sostanzialmente dalla scelta tra diritto del paese di destinazione dell'offerta e diritto di origine dell'offerta. È stato detto che l'adozione della country of destination rule crea maggiori problemi soprattutto dal punto di vista delle PMI impegnate nel commercio in rete.
Si tratterebbe, infatti, di fronteggiare tanti sistemi normativi quanti sono i clienti transfrontalieri. Ciò potrebbe significare la necessità di dover predisporre diversi siti Web, ciascuno conforme alle disposizioni del paese dell'accettante. Non solo; l'onerosità di siffatta scelta costringerebbe molte aziende a non intraprendere la scelta di offrire i propri prodotti in rete, determinando un decremento della concorrenza. Gli stessi inconvenienti non si verificherebbero rispetto alla country of origin rule. È vero che, in un contesto giuridico omogeneo, quale quello della Unione europea, l'opera di armonizzazione del diritto dovrebbe costituire una facilitazione, nel senso di non costringere la piccola o media impresa ad adeguarsi ad una molteplicità di sistemi giuridici.

Dal punto di vista della tutela del consumatore, la country of destination rule rappresenta la massima forma di protezione; dal punto di vista della PMI, essa rappresenta una circostanza in grado di aumentare i costi transattivi. Siffatta situazione appare insoddisfacente e viene vista da molti come la conferma all'idea che l'autoregolamentazione sia la via migliore per un corretto ed efficiente sviluppo del commercio elettronico B2B.
Anche a voler ammettere che la soluzione, definitiva o transitoria, al problema della regolamentazione dell'e-comm siano i codici di autoregolamentazione, occorrerebbe, in un contesto transnazionale, assicurare delle forme di controllo efficiente, che accertino l'equità delle regole sancite e la loro cogenza. Una soluzione tutta interna, e per ciò stesso limitata, potrebbe essere quella di recepire i codici di autoregolamentazione all'interno di atti aventi natura regolamentare, adottati dalle autorità indipendenti di settore (l'AIPA o il Garante delle telecomunicazioni), magari previo controllo di equità, sulla scorta di quanto dovrebbe avvenire nel mercato, a mente dell'art. 2 della legge n. 580/93, di riforma del sistema delle Camere di commercio (che già svolgono siffatto compito, per es., sul fronte delle clausole vessatorie).

5. Il bene da tutelare: l'affidamento delle parti

Una volta individuata, in un modo o nell'altro, la norma applicabile, si pone, in maniera forse più problematica il problema di individuare dei contenuti capaci di tutelare adeguatamente le parti coinvolte. Da questo punto di vista il valore meritevole di protezione è l'affidamento.
Il problema dell'affidamento gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo dell'e-comm. Esso, tuttavia, si atteggia in maniera differente nel B2B e nel B2C. Nel primo caso, infatti, i contatti tra imprenditori possono non essere occasionali, nel senso che essi possono aver deciso, sulla base di una precedente conoscenza reciproca, di svolgere dei rapporti economici in rete. Nei singoli contratti, l'unico, e distinto, problema che si pone non è quello di tutelare l'affidamento, ma di dare regole certe sulle modalità di conclusione e di esecuzione del contratto.

All'interno dei rapporti interimprenditivi, il contatto può anche essere occasionale. Solo in questo caso, quando non vi sono pre-conoscenze, vi è un'esigenza fondamentale di tutela dell'affidamento. Siffatta possibile caratteristica diviene, nello scambio B2C, una costante perché il rapporto con il consumatore è, per definizione, "one-shot", occasionale e per esso le tre caratteristiche dell'e-comm (transnazionalità, velocità ed impalpabilità) divengono i rispettivi risvolti della medaglia.
Il problema della tutela dell'affidamento affligge, quindi, tutte le relazioni B2C ed una parte soltanto, verosimilmente nemmeno troppo cospicua, di quelle B2B, caratterizzate, per l'appunto, dall'occasionalità.

Il problema di tutelare l'affidamento delle e-parties si pone - e nello stesso tempo può essere risolto - a livello precontrattuale; si deve cercare, cioè, di evitare il coinvolgimento in negoziazioni che possono risultare invalide, inefficaci o insoddisfacenti. Se alle transazioni via Internet fosse applicabile il diritto italiano tout-court, si potrebbe o dovrebbe dire che spetti, ancora una volta, alla buona fede il compito di ovviare a tutti i possibili inconvenienti, oppure immaginare che, all'interno di un contesto globale, sia applicabile una clausola generale di buona fede. L'assunto appare irrealistico e, comunque, pregiudicato dal problema della legge applicabile.

Un passo indietro: qual è il problema? Non si tratta, a ben vedere, di un problema di diritto, ma di un problema per il diritto, nel senso che la questione è una vera quaestio facti: lo scambio avviene senza contatti, senza guardare in faccia il contraente e senza poter toccare con mano il bene compravenduto. In altre parole, la caratteristica dello scambio in rete è quella che in termini economici si chiamerebbe un'asimmetria informativa.

Buona parte delle soluzioni concepibili dal punto di vista giuridico per offrire una regolamentazione del fenomeno passa per lo snodo dell'informazione.
A tale ultimo proposito, occorre ricordare che il marchio, soprattutto se di qualità, può contribuire a rimuovere, in parte, l'asimmetria informativa, segnalando al contraente la serietà del prodotto e l'affidabilità del negozio virtuale rappresentato dalla pagina Web. Ma la soluzione è pregiudicata dal fatto che la proprietà intellettuale ed industriale nel mercato telematico è sottoposta a problemi non meno seri della tutela dell'affidamento. La questione, immaginando che si possa risolvere indirettamente attraverso il marchio di qualità del prodotto o del servizio offerto, non viene eliminata, ma si sposta semplicemente su di un piano diverso. D'altra parte, essa potrebbe apparire l'uovo di colombo solo per la grande impresa, che dispone di un brand affermato e di una linea di prodotti qualificati. Se, al contrario, si devono individuare strumenti capaci di promuovere la trasparenza e tutelare l'affidamento, a valenza generale, non si può ricorrere a misure costose o complesse che la piccola e media impresa non può permettersi.

Se si esclude la virtù informativa dei marchi di qualità, per il resto, da un punto di vista economico, l'e-market non ha qualità redimenti, nel senso che non è in grado di colmare autonomamente il gap informativo che caratterizza la negoziazione. La transnazionalità e l'elevato numero di contraenti rappresentano fattori di esasperazione dei costi transattivi tra i quali, in maniera perniciosamente pervasiva, quelli informativi. L'ipotesi di partenza, dalla quale si erano prese le mosse, subisce, a questo punto una parziale smentita. perché se da una parte l'e-comm esalta le potenzialità di penetrazione del mercato, dall'altra costringe all'individuazione di meccanismi alquanto costosi che rendano affidabile la contrattazione.

Se tutto ciò è vero, l'unico rimedio possibile risulta essere un intervento ab extra, di tipo regolatorio, per mezzo del quale un terzo super partes immetta conoscenza all'interno del mercato.
La soluzione che si profila, alla luce delle superiori premesse, appare essere quella della certificazione dei siti, talvolta non ufficialmente praticata, di modo che il contraente, sia esso un consumatore o un'impresa, riceva un segnale sulla qualità del sito e del suo dealer. Si può immaginare che il sito riceva dei crediti, così come avviene per l'impianto turistico o il ristorante del tal posto, presso il quale il turista straniero debba recarsi.
La certificazione del sito dovrebbe, ancora una volta, svolgersi ad opera di soggetti indipendenti, quali possono essere le autorità di settore - anche in cooperazione con quelle di altri Paesi - o le Camere di commercio, sempre secondo degli standard riconosciuti a livello internazionale (il riferimento va, ovviamente, agli standard ISO).
Una volta rimosso il gap, e ristabilito l'equilibrio informativo, la criticità torna ad essere limitata, risolvendosi ai problemi tipici della negoziazione B2B tra soggetti conosciuti.

6. La tutela della riservatezza

Un ultima garanzia, di cui mette conto di occuparsi in questa sede, è quella della riservatezza.
La garanzia della privacy nelle transazioni in rete appare, oltre che un obiettivo dal punto di vista giuridico, delle varie normative, un presupposto per lo sviluppo del commercio elettronico.
Le normative nazionali, comunitaria e internazionale a tutela della riservatezza dei soggetti sono variamente sensibili all'esigenza di assicurare la tutela anche nel corso delle frequentazioni in internet. Esse, tuttavia, non appaiono sufficienti né, isolatamente considerate, garantiscono gli obiettivi prefissi.
Si pone, innanzitutto, rispetto ad un fenomeno per definizione delocalizzato, il problema di individuare di volta in volta la disciplina applicabile. Come si vede, tuttavia, è questo un problema che, pur sollevato dalle caratteristiche intrinseche del fenomeno, non inerisce direttamente la tutela della privacy, mettendo capo invece al problema della legge applicabile.

L'evoluzione di Internet rende la normativa statale, anche da questo punto di vista, pericolosamente in ritardo rispetto alla velocità di cambiamento dell'esistente e alle innovazioni tecnologiche sopravvenienti.
Una normativa statuale che intendesse dare una risposta ai problemi sollevati non dovrebbe essere dettagliata o legata ad un modello preordinato di disciplina. Altre esperienze normative, come quella tedesca, si sono affidate ad un nucleo minimo di principi.
Dei problemi che emergono per la tutela della riservatezza delle persone si è occupato il Garante per la protezione dei dati personali, sostenendo che alla disciplina normativa si deve affiancare, su di un piano paritario dal punto di vista funzionale, quella "nascente dal basso", contenuta in codici di deontologia e di buona condotta. Sempre nell'ottica del Garante, la tutela dei dati passa anche attraverso la predisposizione di tecnologie in grado di trattare in maniera selettiva le informazioni a carattere personale reperibili in rete, e meccanismi di classificazione dei siti in base alle garanzie offerte agli utenti.

Ancora una volta, la soluzione del problema passa per la individuazione di regole certe ad opera dei soggetti che sovrintendono ai settori di volta in volta interessati.

* Professore a contratto di Istituzioni di Diritto privato nell'Univ. LUISS-Guido Carli di Roma
** Dottorando di ricerca in Diritto comparato nell'Università di Firenze - Studio Legale Coccia & Associati - Roma