Nel parere(11995/04) espresso dall’Adunanza
plenaria del
Consiglio di Stato sullo schema di codice dell’amministrazione digitale
approvato dal Consiglio dei ministri in data 11 novembre 2004, si legge «gli
artt. 17 e 18 non chiariscono se sia idonea forma scritta … ai sensi dell’art
1350 c.c., la scrittura con firma soltanto elettronica. Anzi l’articolo 18
sembra escludere tale possibilità, in quanto il secondo comma prevede il
soddisfacimento della forma scritta solo per il documento (non per l’atto) con
firma elettronica qualificata o firma digitale». Il testo delle due norme citate
è rimasto inalterato, sebbene riportato agli artt. 20 e 21 del DLgs 7 marzo
2005, n. 82, con il quale il suddetto Codice è stato emanato.
La questione evidenziata dal
Supremo consesso di giustizia amministrativa merita dunque di essere
approfondita.
Secondo il CdS esisterebbe una
scrittura telematica idonea a soddisfare il requisito della forma scritta del
documento, ma non dell’atto. Occorre, dunque, partire dalla differenza tra atto
e documento. Posto che per atto si intende una dichiarazione di volontà o di
scienza, mentre il documento è la res sulla quale la scrittura è impressa, deve
ritenersi che tra gli stessi c’è un rapporto di contenuto a contenente. Il
documento è, dunque una delle possibili forme dell’atto. In altre parole la
forma dell’atto altro non è che il modo in cui viene espresso.
La forma documentale nasce
dall’esigenza di conservare la prova di un atto. Il documento ha, infatti,
un’intrinseca capacità rappresentativa (è noto il brocardo verba volant
scripta manent).
Affermando che, secondo il
dettato del codice dell’amministrazione digitale, la scrittura privata
telematica (recte il documento informatico munito di firma digitale) non può
essere forma dell’atto, il CdS ha in sostanza detto che, allo stato, una
dichiarazione di volontà o di scienza non può essere espressa con strumenti
informatici.
È evidente che si tratta di un’asserzione assurda. Se
l’inciso del parere in esame dovesse essere così inteso sarebbe espressione del
più nero oscurantismo giuridico. Come dire “ciò che si vede attraverso il
binocolo non è la realtà, ma è opera del demonio”.
Chi metterebbe mai in dubbio che
per via telematica è possibile esprimere una volontà negoziale. Il commercio
elettronico si basa appunto sulla forma elettronica.
In realtà ciò che i giudici di
Palazzo Spada hanno inteso dire è che la formula usata dal legislatore all’art.
18 (ora art. 20 del Codice) sembra ridurre il valore formale del documento
informatico sottoscritto con firma digitale alla sola forma-prova, non alla
forma-atto. Il documento informatico avrebbe dunque in tal caso il valore della
prova scritta., ma non integrerebbe la forma scritta ad substantiam. Non
a caso è richiamato l’art. 1350 c.c.. In questa fattispecie la scrittura privata
integra la forma scritta prevista quale elemento essenziale del contratto, vale
a dire a pena di nullità ex art. 1325 e 1418 c.c..
Contro tale ricostruzione della
norma argomento decisivo è la lettera della legge che parla di “requisito legale
della forma scritta”. Espressione che per la sua genericità non può che
intendersi riferita anche alla forma come requisito di validità del contratto.
Il documento con firma digitale è dunque idoneo alla conclusione di atti formali
(es. stipulazione di contratti di franchising, di locazione ad uso abitativo,
bancari), nonché alla sottoscrizione di clausole vessatorie ed integra, senza
dubbio, anche il requisito della forma ad probationem tantum previsto ad es. per
i contratti di assicurazione, con la differenza che in tal caso un suo eventuale
vizio non invalida il contratto, ma riduce la possibilità di provarne la
stipulazione (in particolare esclude le prove testimoniali e presuntive).
Nel caso di contratti aventi ad
oggetto il trasferimento o la costituzione di diritti reali su immobili (art.
1350 c.c.), il problema non è quello della conclusione del contratto per via
telematica, ma quello della trascrizione che esige l’atto pubblico o la
scrittura privata autenticata (art. 2657 c.c.). Escluso che possa stipularsi un
atto pubblico telematico, ostandovi le norme della legge notarile, che
andrebbero adeguatamente “uploadate”, sarebbe però possibile valersi
dell’autenticazione della firma digitale. Anche in questo caso, però il problema
è di compatibilità con la disciplina dei registri immobiliari che non ammettono
la registrazione di scritture private autenticate con strumenti informatici.
Sembra, dunque, che, nell’ipotesi ad oggi futuribile, in cui si stipulasse un
contratto avente ad oggetto immobili con l’uso della firma digitale autenticata,
le parti debbano comunque ripetere il contratto nelle forme tradizionali. Ma si
tratterebbe comunque di un atto ricognitivo di un contratto già concluso.
Discorso completamente diverso
per i documenti sottoscritti con firma elettronica non qualificata (il CdS usa
l’espressione firma debole). Il codice dell’amministrazione digitale abbandona
la strada seguita dal DLgs 10/2002, che aveva ritenuto le firme elettroniche
non qualificate idonee a soddisfare il requisito della forma scritta, non
ripetendo la tanto discussa disposizione dell’art. 10, 2° comma, del testo
unico
sulla documentazione amministrativa. È escluso, dunque, che un contratto formale
possa essere concluso con tale modalità di sottoscrizione elettronica, idonea,
invece, alla conclusione di atti a forma libera.
Non solo. L’art. 21, 1° comma del
CAD non dice che il documento informatico con firma elettronica diversa da
quella digitale è una prova scritta, ma che ha un valore probatorio liberamente
valutabile, tenuto conto delle garanzie di sicurezza e qualità che la tecnica di
sottoscrizione utilizzata offre.
Non una prova scritta, dunque, ma
piuttosto una prova atipica, con valore probatorio analogo alle fonti di
presunzione (tra la norma in esame e l’art. 2729 c.c. c’è più di un’affinità).
L’attuale disciplina consente allora di superare a monte il discusso
orientamento giurisprudenziale che, equiparando le e-mail a documenti
informatici con firma elettronica debole, riteneva fossero prove scritte idonee
a conseguire un decreto ingiuntivo ex art. 633 e 634 c.p.c..
Il parere del Consiglio di Stato
evidenzia un’ulteriore questione che merita di essere almeno accennata. Si legge
nel testo «l’idoneità della forma a conseguire un effetto si desume, secondo la
dottrina, dall’art. 121 c.p.c., sulla strumentalità (idoneità allo scopo) delle
forme. Si dovrebbe pertanto cercare di affrontare anche nel nuovo codice il tema
del valore dell’atto adottato con scrittura telematica anche ove non sia munito
di sottoscrizione, laddove sia conosciuto l’autore per la provenienza dal suo
indirizzo elettronico, ovvero ove sia sottoscritto con firma elettronica c.d.
debole». È possibile sintetizzare queste parole in un quesito. Come si applica
alle scritture telematiche la regola della conservazione degli atti, considerata
principio generale dell’ordinamento giuridico (cfr. artt. 121 c.p.c. e 1367
c.c.)?.
Il problema non si pone per la
firma digitale apposta con certificato scaduto, revocato o sospeso. In tal caso
il Codice è chiaro. L’art. 21, 2° comma, considera la sottoscrizione come non
apposta. Ne consegue che, ove la scrittura privata è richiesta a pena di
nullità, sarebbe pregiudicata la validità dell’atto, altrimenti, ferma restando
la validità dello stesso, sarebbe esclusa soltanto l’ammissibilità in giudizio,
ex art. 184 c.p.c., della prova documentale viziata.
Quid iuris per gli altri
possibili vizi della firma digitale? Si pensi all’ipotesi di uso di un
dispositivo non idoneo a generare una firma sicura, ovvero al rilascio del
certificato da parte di un certificatore non qualificato. In questi casi la
firma digitale subirebbe una deminutio capitis, diverrebbe cioè firma non
qualificata. Si porrebbe allora il
problema della sua validità sul piano negoziale.
Quanto all’atto che richiede la
forma scritta ad substantiam, esso sarebbe sicuramente nullo, in quanto il
principio di conservazione non può porsi in contrasto con le norme imperative
sulla forma degli atti.
Neanche potrebbe operare una
conversione formale. La tesi non poteva dirsi peregrina alla luce della
previgente disciplina. La conversione formale è un’applicazione del principio di
conservazione e consiste nel ritenere efficace un atto formale, pur privo di
requisiti suoi propri, quando abbia i requisiti di altro atto idoneo a produrre
i medesimi effetti (cfr. art. 607 c.c.). Sotto il vigore dell’art. 10, 2° comma
TUDA, la regola della conversione formale avrebbe potuto portare alla seguente
affermazione. Pur avendo subito la firma digitale una deminutio capitis,
gli effetti dell’atto sarebbero conservati, in quanto, trasformandosi questa in
firma elettronica non qualificata, avrebbe comunque soddisfatto il requisito
della forma scritta.
Oggi non è più così, per cui
l’atto formale sarebbe da ritenere nullo e improduttivo di effetti. Diverso il
caso di atto non formale. In tal caso, infatti, esso conserverebbe i propri
effetti e potrebbe essere provato in giudizio anche a mezzo della firma digitale
viziata, la quale sarebbe comunque liberamente valutabile ex art, 21, 1° comma
CAD. In tal caso, infatti, non potrebbe negarsi l’ammissibilità in giudizio
della stessa come mezzo di prova. Ciò in quanto la legge considera non apposta
la firma solo se basata su un certificato revocato, sospeso o scaduto,
ma non quando presenti gli altri vizi
indicati.
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