30 settembre 1996
Il futuro assetto delle telecomunicazioni in Italia
di Manlio Cammarata
I disegni di legge governativi presentati nel mese di luglio '96 al Senato e il decreto-legge del 28 agosto sono la base del futuro assetto delle telecomunicazioni nel nostro paese. In Informatica e società sul n. 166 di MCmicrocomputer è stato pubblicato un primo commento; qui riportiamo i testi dei due ddl e un'analisi un po' più dettagliata. Come al solito, ogni intervento da parte dei lettori è benvenuto. Basta fare clic sul pulsante qui sotto e inviare una mail, seguendo le istruzioni.
Il disegno di
legge S1021
Il disegno di legge
S1138
"Una tariffa ridotta per gli usi
telematici"...
Sesso & TV
La "digital collision", la convergenza digitale tra computer e TV è incominciata. Stanno per comparire i primi televisori Internet-compatibili, c'è la "pay-TV", mentre immagini e suoni viaggiano sulla Rete delle reti. Questa è la società dell'informazione, che ha bisogno di leggi adeguate. Ma i progetti in discussione non lo sono.
1. luglio '96: liberalizzazione delle infrastrutture di telecomunicazione; 27
agosto '96: scadenza dei termini per modificare la legge Mammì; primavera '97:
rischio di bancarotta per l'Iri se non sarà venduta la Stet; 31 dicembre '97:
fine di tutti i monopoli sulle telecomunicazioni. Quattro scadenze,
improrogabili in forza delle disposizioni dell'Unione europea, quattro occasioni
irripetibili per avviare il nostro paese su quelle "autostrade" che i
nostri partner e concorrenti percorrono a tutta velocità da almeno due anni.
Ma al casello, per restare nel paragone autostradale, il semaforo è rosso e la
sbarra è abbassata. Manca infatti una visione aggiornata e complessiva dei
problemi da risolvere, manca ancora quel "progetto-paese" del quale si
è favoleggiato per la prima volta qualche mese fa, al Summit di Napoli sulle
telecomunicazioni (vedi MCmicrocomputer n. 165). Così le leggi non nascono
sulla base di un progetto generale, di largo respiro e proiettato nel futuro, ma
sono provvedimenti tampone, finalizzati all'emergenza, alla soluzione di
problemi forse in parte già superati. E, soprattutto, non tengono conto delle
situazioni che si sono create in tempi recenti e che potranno diventare
emergenze nel prossimo futuro.
Vediamo come si presentava la situazione all'inzio dell'estate. Ai primi di luglio in ministro delle telecomunicazioni, Maccanico, annunciava che era quasi pronto un progetto globale per televisione e telecomunicazioni e ne anticipava le linee generali. L'approvazione del disegno di legge era urgente, perché il 27 agosto scadeva il termine stabilito dalla Corte costituzionale per mettere fine alla situazione di duopolio televisivo sancita dalla "legge Mammì": Rai e Mediaset, secondo la sentenza n. 420 del 7 dicembre '94, non possono avere più di due reti a testa, e quindi dovranno liberarsi di una rete ciascuna per rendere disponibili le frequenze ad altri soggetti. L'altra emergenza era, ed è, la vendita della Stet, che deve dare ossigeno alle asfittiche casse dell'Iri ed evitare la bancarotta che l'Unione europea potrebbe di fatto rendere invitabile nella primavera del prossimo anno. È necessario sottolineare che la vendita della finanziaria per le TLC non è premessa indispensabile per la fine del monopolio, perché anche una società a prevalente partecipazione pubblica può operare in regime di libero mercato; l'urgenza è data solo da motivi finanziari. Si aggiunga che l'operazione di vendita non richiede particolari deliberazioni del Governo o del Parlamento (la Stet è una società per azioni come un'altra), ma è opportuno che la privatizzazione avvenga sulla base di regole certe per il mercato delle TLC, regole che devono essere dettate da un'ancora inesistente Autorità di settore.
Il decreto d'agosto
Il progetto del Governo era lungo e complesso, sarebbe riuscito il Parlamento
ad approvarlo prima del 27 agosto? Sembrava molto difficile, e così il testo
veniva spezzato in due: un primo disegno di legge, presentato al Senato il 19
luglio, che istituisce la "Autorità per le garanzie nelle
telecomunicazioni" e introduce norme anti-trust che fanno piazza pulita
della legge Mammì; il secondo, presentato il 25 luglio, che ridisegna l'assetto
globale delle TLC in Italia. Ma l'accordo politico non si trovava neanche sul
primo DDL, e il 28 agosto il Governo emanava un decreto legge che costituiva una
semplice proroga della situazione esistente.
Vediamo ora i punti essenziali dei tre testi.
In tutto il quadro della riforma delle TLC c'è un'espressione chiave:
anti-trust. Significa in primo luogo che nessuna azienda o gruppo di aziende
può avere quota di mercato tale da limitare le possibilità di scelta degli
utenti e la libertà di impresa di altri soggetti. Questo è il cardine della
riorganizzazione del mercato e il punto fondamentale della sentenza della Corte
costituzionale. Ed è esattamente il principale difetto del nostro sistema
attuale: la presenza dei due "giganti" Rai e Mediaset, che blocca il
mercato. Ma è chiaro che una efficace normativa anti-trust danneggia a breve
termine soprattutto Mediaset (per la Rai il discorso è più complesso, perché
coinvolge la tematica del servizio pubblico). Così alla fine di luglio il
lavoro delle lobby e diversi interessi politici bloccavano, oltre al ddl
governativo, anche un provvedimento d'urgenza che applicasse, sia pure in misura
ridotta, il dettato della sentenza n. 420. Così il 28 agosto il Governo
approvava un provvedimento di soli due articoli, che congelava lo status quo e
rimandava a una serie di regolamenti, da emanare entro 90 giorni, l'applicazione
delle direttive europee sulla liberalizzazione delle TLC. Un decreto, anzi un
decretino, che non significa nulla, se non il proseguimento della situazione
attuale. Per quanto tempo?
L'art. 1 del decretino stabilisce che In attesa della riforma complessiva dl
sistema radiotelevisivo e delle telecomunicazioni, da attuare nel rispetto delle
indicazioni date dalla Corte costituzionale con sentenza 7 dicembre 1994 n. 720
è consentita ai soggetti che legittimamamente svolgono l'attività
radiotelevisiva alla data del 27 agosto 1996 la prosecuzione dell'esercizio: a)
della radiodiffusione sonora in ambito nazionale e locale, nonchè della
radiodiffusione televisiva in ambito locale fini al 27 agosto 1997; b) della
radiodiffusione televisiva in ambito nazionale fino al 31 gennaio 1997.
Tutto qui. Ora si deve riflettere sul fatto che la sentenza n. 420 ha stabilito
la che l'attuale ordinamento è incostituzionale e che deve cessare entro il 27
agosto '96. Prorogarlo significa andare contro il dettato della Corte e quindi
il decretino potrebbe essere a sua volta incostituzionale. Ma questo
"difetto" è di fatto irrilevante, perché i tempi per una decisione
della stessa Corte su un'eccezione di incostituzionalità (che deve essere
sollevata nell'ambito di un'azione giudiziaria) sono certamente molto più
lunghi dei 60 giorni entro i quali un decreto deve essere convertito in legge da
parte del Parlamento. Siamo probabilmente di fronte a una situazione di assoluta
illegalità, ma non possiamo farci nulla.
Il vero problema è un altro. Dal dicembre del '94 all'agosto del '96 sono passati quasi due anni, un tempo più che sufficiente per predisporre e iniziare, se non per portare a termine, la riforma del sistema su serie basi anti-trust e in vista della "convergenza digitale", ormai in atto, tra televisione e telecomunicazioni. Nulla è stato fatto, per il semplice motivo che agli interessati conviene che lo status quo sia mantenuto più a lungo possibile. È vero che un rapido smantellamento dell'assetto consolidato può causare un danno economico agli operatori coinvolti, ma questo danno può essere limitato, se non evitato del tutto, con un passaggio graduale verso il nuovo sistema. Non bisogna dimenticare che le future regole anti-trust limiteranno le quote di mercato che possono essere coperte da singoli operatori, ma l'avvento della TV digitale, in particolare nelle diverse forme a pagamento, apre nuove e più vaste opportunità di business. Quindi medio e lungo termine le opportunità di business sono molto più grandi di quelle attuali. Una visione non miope del quadro d'insieme dovrebbe suggerire agli interessati una decisa azione per accelerare, non per ritardare l'avvento del nuovo sistema. Invece si solleva la questione del danno immediato e si blocca più a lungo possibile la situazione; quando la legge e la decenza imporranno il cambiamento si reclameranno tempi lunghi. Questo significa che la fine della "anomalia italiana" nel settore radiotelevisivo è meno vicina di quanto si possa sperare e che i vantaggi del nuovo corso sono al di là da venire.
L'art. 2 del decretino solleva problemi molto più gravi di quanto possa
apprire a prima vista: 1. Su proposta del Ministro delle poste e delle
Telecomunicazioni, [...] sono adottati, entro novanta giorni dall'entrata in
vigore del presente deceto-legge, i regolamenti per l'attuazione: a) della
direttiva 95/51 CE riguardante l'uso di reti televisive via cavo per la
fornitura di servizi di telecomunicazioni già liberalizzati; b) della direttiva
95/62 CE sull'applicazione del regime di fornitura di una rete aperta (ONP) alla
telefonia vocale; c) della direttiva 96/19 CE che modifica la direttiva 90/388
CE al fine della completa apertura alla concorrenza dei mercati delle
telecomunicazioni. 2. Con i regolamenti di cui al comma 1 si riconosce: a) la
soppressione dei diritti esclusivi e speciali; b) il diritto di ciascuna impresa
di svolgere servizi di telecomunicazioni e installare reti di telecomunicazioni;
c) la sottoposizione delle imprese ad autorizzazione, salve le concessioni
previste da legge. 3. I regolamenti di cui al presente articolo stabiliscono,
secondo criteri di obiettività, trasparenza, non discriminazione e
proporzionalità, codizioni, requisiti e procedure per il rilascio delle
autorizzazioni o concessioni, loro durata, onerosità, obblighi di
interconnessione, di accesso e di fornitura del servizio uni versale.
Se si legge con attenzione, ci si accorge che in poche righe sono elencati i
principali aspetti della liberalizzazione delle TLC: sembra quasi un "Bignami"
del Telecommunications Act degli USA! Il primo punto per ora è
inutile, perché in Italia non ci sono reti televisive via cavo, e le reti in
costruzione nascono per la telefonia e il traffico dei dati prima che per la TV.
Il secondo si riferisce a un progetto della UE, la Open Network Provision
che sta per essere superato dalla naturale evoluzione delle reti. Invece il
punto c) è importante, perché la direttiva 96/19 modifica la 90/388, applicata
con il famigerato decreto legislativo 103/95: è quello della
"liberalizzazione al contrario", di cui tanto ci siamo occupati nei
mesi scorsi, perché pone vincoli burocratici e balzelli alle attività
telematiche.
Andiamo avanti e troviamo la soppressione dei diritti esclusivi e speciali
(cioè di alcuni pilastri del monopolio), la fine dei monopoli sulle reti e sui
servizi e la conferma del doppio regime concessorio/autorizzatorio, problema
complesso che nasconde la voltà di liberalizzare il meno possibile (come ha
osservato anche il Garante della concorrenza). Infine gli obblighi di
interconnessione, accesso e fornitura del servizio universale, che sono tre
aspetti dello stesso problema, fondamentale per il mercato liberalizzato.
La trappola del 31 gennaio
Ma si può affidare a semplici regolamenti la definizione di principi di tale
importanza? Negli USA intorno a questi temi si è acceso un dibattito durato due
anni, che ha portato al fondamentale Telecommunications Act of 1996; in
Italia ci sono all'esame del Parlamento due disegni di legge che dovrebbero
avviare il nuovo sistema (e ancora non bastano), e si pensa di risolvere tutto
con un pugno di regolamenti? Senza contare che molti degli aspetti elencati nel
decretino d'agosto sono regolati da leggi, e che un regolamento non può
modificare una legge. Non basta un regolamento, per esempio, per modificare il
103/95: occorre una legge o un decreto legislativo (che a sua volta deve essere
previsto da una legge). Il tentativo di applicare le disposizioni europee per
regolamento, invece che per legge, è senza dubbio lodevole, perché consente di
accorciare i tempi e non essere sempre in ritardo sugli altri paesi dell'Unione,
ma pone problemi giuridici forse insormontabili allo stato attuale della
legislazione.
Per fortuna il termine previsto per i regolamenti è di 90 giorni, il Parlamento
deve convertire in legge il decreto entro 60. Dobbiamo augurarci che si accorga
che la materia è già contentenuta nei due disegni di legge presentati in
luglio e che elimini questo assurdo articolo 2.
Tutto questo ci conduce all'esame del progetto governativo presentato al
Senato, progetto articolato in due distinti disegni di legge, per i motivi
esposti all'inizio. Il primo, che porta il numero S1021, si intitola
"Istituzione dell'autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni e norme
sul sistema radiotelevisivo"; il secondo, indicato con il numero 1138,
"Disciplina del sistema delle telecomunicazioni". La divisione in due
provvedimenti distinti comporta una serie di problemi, perché alcune importanti
disposizioni sono divise tra i due testi e quindi la discussione parlamentare
potrebbe portare a a norme discordanti o ridondanti. In particolare sono divise
a metà le norme anti-trust: per le reti televisive nazionali nel 1021, per
quelle locali e la radiofonia nel 1138. Assurdo, ma giustificato dall'urgenza di
approvare subito le norme anti-trust entro il 27 agosto. Posto che questa
urgenza non c'è più, il più elementare buon senso suggerirebbe di unificare i
due disegni di legge in uno solo, semplificando anche l'iter parlamentare.
Ma qui potrebbe scattare una trappola: quella del 31 gennaio, data di scadenza
della proroga per l'emittenza televisiva nazionale, che potrebbe rendere
necessaria la discussione accelerata del primo ddl. E resta anche l'urgenza di
varare l'Autorità, sia per iniziare il vero riordinamento del settore, sia per
procedere alla vendita della Stet. Se le Camere non riescono ad approvare tutto
in tempo utile, ritorna l'opportunità di mantenere separate le due parti del
progetto legislativo. C'è un'altra possibilità: unificare i due ddl per quanto
riguarda le norme generali, riportando alla necessaria unità le disposizioni
antitrust, e anticipare solo l'istituzione dell'Autorità, con un'ulteriore
proroga delle attuali concessioni televisive nazionali fino al 27 agosto '97: il
vantaggio sarebbe nella coerenza delle disposizioni anti-trust e nella partenza
simultanea del nuovo assetto per l'emittenza televisiva nazionale e locale; lo
svantaggio è fin troppo evidente: prolungare di altri sette mesi l'assetto
perverso della legge Mammì, con almeno un altro anno per il passaggio al nuovo
regime. Purtroppo questo è l'interesse di Mediaset, fin troppo rappresentato
nelle aule parlamentari e nei loro dintorni.
E ora vediamo in estrema sintesi il contenuto dei due disegni di legge.
Procediamo però per argomenti, come vuole la logica, e non seguendo l'ordine
dei testi.
L'Autorità per le garanzie
Il ddl S1021, art. 1. istituisce l'Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni, di seguito denominata "Autorità", la quale opera in
piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione.
L'autorità è composta da un presidente (nominato dal Presidente della
Repubblica su proposta del Governo), da due commissioni di quattro membri
ciascuna, indicati dalle Camere, e da un consiglio, costituito dal presidente e
da tutti i commissari. Il presidente fa anche parte di ambedue le commissioni.
La prima, denominata "Commissione per le infrastrutture e le reti", si
occupa del piano di ripartizione delle frequenze, della sicurezza, del registro
degli operatori, dei criteri di accesso, delle tariffe, del servizio universale,
e così via. Alcune disposizione meritano una riflessione. La prima di queste
riguarda i decodificatori, indispensabili per la "pay TV", che sono
stati oggetto di accese controversie in ambito franco-tedesco. La commissione, sentito
il parere del Ministero delle poste e delle telecomunicazioni e nel rispetto
della normativa comunitaria, determina gli STANDARD per i decodificatori in modo
da favorire la fruibilità del servizio. Qui ci troviamo di fronte a un
possibile problema per gli utenti, perché arrivano ora nei negozi italiani i
primi decodificatori per vedere le partite di calcio: saranno del tipo che poi
diventerà standard? Rischiamo di dover acquistare diversi decodificatori?
L'Unione europea non si è ancora pronunciata, anche se gli accordi franco
tedeschi dovrebbero aver indicato lo standard da seguire.
Un altro argomento della massima importanza è al comma 2, lettera A. La prima
commissione. 9) individua, in conformità alla normativa comunitaria,
l'ambito oggettivo e soggettivo degli eventuali obblighi di servizio universale
e le modalità di determinazione e ripartizione del relativo costo; 10)
individua i servizi di telecomunicazione, diversi da quelli rientranti
nell'obbligo di servizio universale, che devono essere offerti in modo omogeneo
su tutto o soltanto su parte del territorio nazionale. Questa è una delle
basi del sistema di telecomunicazioni di una democrazia: occorrono regole per
stabilire chi e come deve fornire i servizi di telecomunicazioni, a parità di
condizioni con gli altri utenti, anche a coloro che non è conveniente
raggiungere nell'ottica di profitto di un'azienda privata. È il caso delle
piccole comunità o delle utenze telefoniche isolate, il cui collegamento è
costoso e poco redditizio. Il progetto del Governo prevede il finanziamento del
servizio universale attraverso un fondo creato con i versamenti degli operatori.
La seconda commissione si chiama "Commissione per i servizi e i
prodotti" ed è competente per tutto quanto riguarda i contenuti, dal
diritto di rettifica delle informazioni alla pubblicità, alla tutela dei
minori, fino alla correttezza delle informazioni politiche e della diffusione
dei risultati dei sondaggi. Anche qui c'è un punto di grande interesse: questa
commissione determina con apposita convenzione gli obblighi dei
concessionari di servizio pubblico e verifica l'attuazione delle finalità di
servizio pubblico nella suddetta convenzione e in tutte le altre che vengono
stipulate tra concessionarie del servizio pubblico e amministrazioni pubbliche.
Qui si dà per scontato che il servizio pubblico radiotelevisivo continui in
regime di "concessione", il che contrasta con gli orientamenti
europei.
Il consiglio, che è composto dagli otto componenti delle commissioni e dal
presidente, ha compiti di promuovere studi e ricerche, suggerire interventi al
Governo, adottare i regolamenti per le concessioni e le autorizzazioni,
determinare i relativi canoni è così via. Inoltre, come recita il punto 9
della lettera c) segnala all'Autorità garante della concorrenza e del
mercato la sussistenza di ipotesi di violazione delle disposizioni della legge
10 ottobre 1990, n. 287, commesse da operatori del settore delle comunicazioni.
Per questo deve anche sorvegliare la separazione contabile e amministrativa
degli operatori che offrono trasporto e servizi, o servizi diversi, e
controllare le operazioni societarie che possono ledere i principi anti-trust.
Entro il 30 novembre di ogni anno consegna al Presidente del Consiglio dei
Ministri una relazione per il Parlamento sull'attività svolta e sui programmi
di lavoro.
È molto importante anche il punto 10: il Garante svolge le altre funzioni
già attribuite della legge al Garante per la radiodiffusione e l'editoria.
Non si dice però che il Garante per la radioffusione e l'editoria è abolito.
Solo il comma 17 prescrive: Entro novanta giorni dalla data di entrata in
vigore della presente legge, su proposta del Ministro delle poste e delle
telecomunicazioni, sono emanati uno o più regolamenti, ai sensi dell'articolo
17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, per individuare le competenze
trasferite, coordinare le funzioni dell'Autorità con quelle delle pubbliche
amministrazioni interessate dal trasferimento di competenze, riorganizzare o
sopprimere gli uffici di dette amministrazioni e rivedere le relative piante
organiche. A decorrere dalla data di entrata in vigore dei regolamenti sono
abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che disciplinano gli uffici
soppressi o riorganizzati, indicati nei regolamenti stessi. Qui c'è una
delle solite stranezze legislative: non si possono abolire con i regolamenti gli
organismi istutuiti da una legge, allora l'abolizione è sancita da questa
legge, ma sulla base delle norme dei regolamenti in essa previsti. Sicché
abbiamo una legge che applica le disposizioni di un regolamento, e per di più
futuro. Italia, patria del diritto!
Il quadro non diventa più chiaro se si va a vedere il secondo ddl, dove sono
indicati più in dettaglio i compiti dell'Autorità sia per quanto riguarda il
rilascio di concessioni e autorizzazioni, sia per le sue competenze in materia
di anti-trust, che in qualche punto potrebbero entrare in conflitto con quelle
dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato.
Il nuovo assetto del mercato
E siamo quindi al secondo punto fondamentale del progetto governativo: i
criteri per la suddivisione tra gli operatori delle risorse disponibili, cioè
il modello del mercato delle TLC, in particolare per la la televisione e la
radio. La prima e più importante risorsa che deve essere distribuita è
costituita dalle frequenze per la radiodiffusione terrestre. Le bande assegnate
a questo settore consentono l'utilizzo di un numero di canali relativamente
limitato. Relativamente, perché è vero che i canali sono diverse decine, sia
per la radio, sia per la televisione, ma se vengono assegnate in modo di
favorire solo alcuni operatori, il libero mercato viene seriamente compromesso o
scompare del tutto. Lo vediamo oggi, con le regole della legge Mammì, che non
permettono a un operatore nazionale come Telemontecarlo di coprire tutto il
territorio. Questo limite si riflette sulle tariffe della pubblicità, che per
questa emittente non possono raggiungere livelli remunerativi. La conseguenza
finale è un grave limite alla libertà di comunicazione.
Ma la legge Mammì era basata soltanto sulla distribuzione delle frequenze
disponibili, mentre le nuove regole prendono correttamente in considerazione
anche la "risorsa pubblico" e la risorsa finanziaria. Si stabilisce
cioè che un singolo operatore non possa controllare più di una determinata
percentuale dell'emittenza complessiva e non possa acquisire più di una
percentuale della "torta" costituita dalla pubblicità, dalle
sponsorizzazioni, dalle televendite, insomma da tutto ciò che costituisce
attualmente l'insieme degli introiti delle emittenti.
Non entriamo nel dettaglio delle cifre contenute nei due disegni di legge,
ampiamente illustrate dai mass media, perché a noi un certo numero di punti
percentuali in più o in meno non interessa. L'importante è capire il
meccanismo che dovrebbe garantire il corretto funzionamento del mercato
dell'informazione, quello che nei prossimi anni è destinato a produrre più
ricchezza di tutti gli altri settori dell'economia, ed è essenziale soprattutto
per la crescita sociale e culturale di tutte le nazioni.
Il progetto generale è contenuto nel ddl S1138, mentre le regole per
l'emittenza televisiva nazionale sono "stralciate" nell'S1021.
Incominciamo dunque dal secondo testo presentato al Senato.
Il Titolo 1 si intitola "Norme di principio"; il primo articolo
enuncia i soliti principi generali della tutela delle persone, delle libertà e
del mercato, ma un punto merita particolare attenzione attenzione: il comma 3
afferma che La disciplina del sistema delle comunicazioni tiene conto del
processo di convergenza tecnologica tra il settore delle telecomunicazioni e
quello radiotelevisivo considerando congiuntamente l'assetto delle reti di
diffusione e i servizi erogati. Vedremo più avanti come di fatto questa
affermazione rimanga sulla carta.
L'articolo 2 si intitola "Piano di ripartizione, bacini d'utenza e piani di
assegnazione delle frequenze". Il punto essenziale è al comma 2: Ai
fini della predisposizione dei piani nazionali di assegnazione delle frequenze
per ciascun servizio l'Autorità [...] suddivide il territorio nazionale in
bacini di utenza. Per il servizio radiotelevisivo i bacini di utenza sono
definiti secondo il numero dei potenziali utenti, la diffusione dei residenti,
le condizioni geografiche, urbanistiche, ambientali, socioeconomiche e culturali
di ciascuna zona. Il comma 4 prevede che lo schema del piano di
assegnazione sia sottoposto agli enti locali; i comuni devono adeguare i loro
piani urbanistici in funzione della localizzazione degli impianti.
Si passa poi al Titolo 2, "Disciplina della telecomunicazioni", il
punto cruciale del progetto. Il lungo articolo 3 al comma 1 definisce come rete
di telecomunicazioni una infrastruttura o un insieme di infrastrutture che
permetta la trasmissione di segnali analogici o numerici, tra punti terminali
fissi o mobili, mediante mezzi trasmissivi di qualsiasi tipo. Il comma 2 va
letto con attenzione: L'installazione non in esclusiva delle reti di
telecomunicazioni via cavo o che utilizzano frequenze terrestri è subordinata
con decorrenza 1 gennaio 1997 al rilascio di concessione nelle forme di cui al
presente articolo. A partire dalla stessa data l'installazione di stazioni
terrene per servizi via satellite, l'esercizio delle reti di telecomunicazioni e
la fornitura di servizi di telecomunicazioni sono subordinati al rilascio di
autorizzazione nelle forme di cui al presente articolo. Si distingue dunque
tra "concessione" e "autorizzazione": la prima è riservata
all'installazione delle reti via cavo o su frequenze terrestri (sono quindi
escluse le frequenze satellitari), la seconda all'esercizio delle reti e alla
fornitura di servizi. La differenza è sostanziale, perché la concessione
presuppone una riserva dello Stato sull'oggetto della concessione stessa, e
comporta quindi una serie di conseguenze non indifferenti. In pratica, e
semplificando, il titolare di una concessione agisce come se fosse lo Stato o
l'ente locale, a seconda dell'ambito d'azione. Si legge infatti al comma 8: Il
rilascio della concessione per l'installazione delle reti di telecomunicazioni e
di radiodiffusione previsti nel piano di assegnazione costituisce dichiarazione
di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza delle relative opere. Le aree
acquisite entrano a far parte del patrimonio indisponibile del comune
È interessante anche il comma 3, che prevede la concessione da parte
dell'Autorità per le reti via cavo a lunga distanza e delle relative
infrastrutture di giuzione con le reti minori; le concessioni per queste ultime
sono invece rilasciate dagli enti locali. Altri due aspetti rilevanti sono
contenuti nei commi 9 e 11. Il comma 9, punto d) prevedevia prioritaria e in
quanto possibile, l'utilizzo di dotti esistenti per la posa dei cavi cioè
che si devono fare meno scavi possibile, utilizzando anche le fognature, come ha
proposto il comune di Bologna seguendo l'esempio di alcune città del Nord
Europa. Non si capisce bene perché la Stet continui a mettere sottosopra le
strade per posare la fibra ottica nelle città.
Integrazione "verticale" e servizio universale
Uno dei problemi più delicati delle telecomunicazioni è la cosiddetta
"integrazione verticale": questa è la possibilità che chi dispone
delle reti possa fornire anche i contenuti, direttamente o attraverso società
controllate e, al contrario, chi fornisce servizi possa installare o gestire
reti. Il problema è che chi trasporta i segnali può vendere i servizi con
azioni di dumping, cioè fornire i servizi a un costo più basso di
quello che possono praticare i soggetti che offrono solo questi, e che devono
quindi pagare il trasporto agli esercenti delle reti. Il divieto di integrazione
verticale serve dunque a impedire che si possano creare ostacoli all'attività
dei fornitori di servizi di minori dimensioni ed è stato il cardine della
legislazione USA dell'86. Con il Telecommunication Act of 1996 è stato
possibile eliminare questa limitazione, grazie alla presenza sul mercato di
molti fornitori di contenuti di grandi dimensioni e a una disciplina anti-trust
molto efficace. In Gran Bretagna vige la "regolamentazione
asimmetrica", grazie alla quale l'integrazione verticale è consentita solo
agli operatori in ambito locale e non a British Telecom.
La regolamentazione asimmetrica è uno dei problemi più discussi in Italia in
questo periodo. Per capire come lo risolve il "progetto Maccanico"
bisogna leggere in ordine inverso diversi commi dell'art. 3. Si incomincia
dall'ultimo, il 14: Sulle reti di telecomunicazioni possono essere offerti
tutti i servizi di telecomunicazioni. Fino al 1. gennaio 1998 la concessionaria
del servizio pubblico di telecomunicazioni conserva l'esclusività per l'offerta
di telefonia vocale, fatta salva comunque la possibilità di sperimentazione da
parte di soggetti specificamente autorizzati. Fino alla stessa data le società
destinatarie di concessioni in esclusiva per telecomunicazioni non possono
realizzare produzioni radiotelevisive. È quindi scontato il comma 13, che
conferma alla società concessionaria del servizio pubblico di
telecomunicazioni la vigente concessione con annessa convenzione, a eccezione
dell'installazione delle infrastrutture a larga banda soggette alle concessioni
di cui al comma 3, e rilascia alle società di cui al comma 11 apposita
autorizzazione ai fini della fornitura al pubblico dei servizi di
telecomunicazioni.
L'asimmetria è dunque limitata a un periodo molto breve, meno di un anno se si
considerano i tempi di entrata a regime del nuovo ordinamento. Al passo del
gambero leggiamo il comma 12: Gli impianti oggetto di concessione ai sensi
dell'articolo 5 possono essere utilizzati anche per la distribuzione di servizi
di telecomunicazioni. In tal caso, i destinatari di concessioni in ambito locale
sono tenuti alla separazione contabile dell'attività radiotelevisiva da quella
svolta nel settore delle telecomunicazioni, mentre i destinatari di concessioni
per emittenti nazionali sono tenuti a costituire società separate per la
gestione degli impianti.
Risiliamo quindi al comma 11: Le società che installano o esercitano le
reti di telecomunicazioni e gli operatori che su tali reti forniscono servizi di
telecomunicazioni, sono obbligati, dal 1° gennaio 1998, a tenere separata
contabilità delle attività riguardanti rispettivamente l'installazione e
l'esercizio delle reti nonché la fornitura dei servizi. Dunque con la
separazione contabile si dovrebbero evitare azioni di dumping da parte dei
gestori delle reti, che potrebbero fornire a un prezzo più basso gli stessi
servizi che altri operatori forniscono prendendo le reti in affitto. La
contabilità separata dovrebbe garantire che i servizi non vengano forniti in
perdita, a danno dei concorrenti. La garanzia migliore resta comunque il divieto
di integrazione fra il trasporto e i servizi, almeno per il periodo di tempo
sufficiente a far crescere nuovi operatori, come è stato fatto negli USA. Di
fatto la soluzione proposta favorisce Telecom Italia e gli altri grandi
operatori già pronti a entrare sul mercato.
L'art. 4 pone le regole per "Interconnessione, accesso e servizio
universale". I primi due punti non presentano problemi particolari, perché
è sontato che gli operatori diano garanzia dell'interconnessione tra le
reti e i servizi (ma si può interconnettere una rete con un servizio? Il
senso è chiaro, ma la formulazione è tecnicamente sbagliata). Seguono poi le
garanzie della comunicazione tra i terminali degli utenti, della non
discriminazione, della proporzionalità degli obblighi e di diritti tra gli
operatori e i fornitori (più correttamente si dovrebbe dire: "tra i
fornitori del trasporto dei segnali e i fornitori dei servizi"). Il primo
comma si conclude con il principio della remunerazione degli obblighi del
servizio universale (che è descritto più avanti: non si potrebbero
comporre i testi legislativi in modo più lineare?).
Il secondo comma esordisce in modo lapalissiano:I soggetti autorizzati
all'offerta di servizi di telecomunicazioni ai sensi dell'articolo 3 hanno
diritto di accesso alle reti. Questo diritto può essere limitato
dall'Autorità per le solite ragioni di sicurezza e integrità della rete, o di interoperabilítà
dei servizi, qualora ricorrano comprovati motivi di interesse generale di natura
non economica. Quest'ultima frase non è chiarissima; di fatto sembra
sostituire con un formula più elegante i motivi di ordine pubblico, difesa
dello Stato eccetera, presenti in altre norme di questo tenore.
Il terzo comma affronta la discussa questione del "servizio
universale". È questo uno degli argomenti sostenuti da chi si oppone alla
privatizzazione dei gestori pubblici e alla liberalizzazione del mercato: ci
sono utenze che a un libero imprenditore non conviene servire, come quelle in
località isolate con pochi abitanti o in zone povere. Posto che non è giusto
far pagare a questi utenti il maggior costo del loro collegamento, si pone il
dilemma se ripartirlo su tutti gli abbonati o metterlo a carico dello Stato:
secondo chi avversa la privatizzazione si risolve il problema affidando il
servizio universale al gestore pubblico. Va ricordato che sono oggetto di
fondate critiche le sperimentazioni commerciali di TV interattiva limitate ai
quartieri ricchi delle grandi città (è il caso delle attuali "prove
tecniche che la Stet conduce attraverso la Stream); per questa politica in Gran
Bretagna è stata creata l'espressione redlining, tracciare un linea
rossa tra chi può e chi non può acquistare i nuovi servizi. E questa linea
rossa separa gli have dagli have not, come la recente
sociologia americana distingue tra chi avrà i vantaggi della società
dell'informazione e chi ne sarà escluso.
Afferma dunque il comma 3: Gli obblighi di fornitura del servizio
universale, ivi inclusi quelli concernenti la cura di interessi pubblici
nazionali, con specifico riguardo ai servizi di pubblica sicurezza, di soccorso
pubblico, di difesa nazionale, di giustizia, di istruzione e di governo, e le
procedure di scelta da parte dell'Autorità dei soggetti tenuti al loro
adempimento, sono fissati secondo i criteri stabiliti dalI'Unione europea.
Si rimanda dunque alla legislazione comunitaria, è comodo anche perché non
c'è altra scelta. Il problema è: chi paga per il servizio universale? Su
questo punto le indicazioni comunitarie sono ancora vaghe, e provvede quindi il
comma 4: L'onere conseguente alI'adempimento degli obblighi del servizio
universale è calcolato sulla base dei costi relativi. È costituito presso il
ministero delle Poste e delle telecomunicazioni un apposito fondo per la
remunerazione del servizio universale finanziato da una quota dei canoni
relativi alle nuove concessioni e dei contributi di autorizzazione e da una
quota delle tariffe di interconnessione dovute dalle società che abbiano
raggiunto il fatturato determinato dalI'Autorità.
La nuova televisione
Passiamo all'aspetto che suscita il maggior interesse e, in questo momento,
coinvolge i maggiori interessi: il nuovo ordinamento dei servizi
radiotelevisivi, contenuto nell'art. 4 "Attività radiotelevisiva".
Sono norme di grande rilevanza, perché nei prossimi anni la televisione via
etere sulle frequenze terrestri avrà ancora un ruolo dominante nell'universo
dei media, e su essa convergeranno in parte altri servizi telematici.
Il primo comma stabilisce una distinzione fondamentale tra le trasmissioni
terrestri via etere da una parte e quelle via cavo e via satellite dall'altra:
le prime sono soggette a concessione, le seconde ad autorizzazione. Ecco il
testo: L'esercizio dell'attività radiotelevisiva mediante l'uso di
frequenze terrestri è subordinato al rilascio di concessione. La concessione
comprende l'installazione e l'esercizio degli impianti e dei connessi
collegamenti di telecomunicazioni. Nell'atto di concessione è determinato il
numero dei programmi che può essere diffuso da ciascuna emittente mediante le
frequenze assegnate. L'esercizio dell'attività radiotelevisiva può essere
svolto anche da soggetti che intendono utilizzare impianti di altre
concessionarie radiotelevisive o di telecomunicazioni. La diffusione
radiotelevisiva via cavo e quella via satellite originata dal territorio
nazionale sono soggette ad autorizzazione rilasciata dall'Autorità.
Nei commi dal 2 al 7 dell'art. 3 viene posta ai titolari delle concessioni
una serie di obblighi che nell'insieme configura un servizio pubblico: copertura
del territorio, quote di autoproduzione, produzione italiana ed europea,
completezza ed imparzialità dell'informazione, programmazione per disabili
sensoriali e via discorrendo.
Il comma 8 introduce le diffusioni radiotelevisive con accesso condizionato.
Di che si tratta? In primo luogo della pay-TV, la televisione a
pagamento, e poi di altri servizi ai quali l'accesso è subordinato a
particolari condizioni, prima di tutto le trasmissioni in codice. Si prescrive: Le
diffusioni radiotelevisive con accesso condizionato in ambito nazionale sono
effettuate esclusivamente a mezzo di reti via cavo o da satellite: in ambito
locale l'Autorità può consentire trasmissioni su bande di frequenza terrestri
che dal Regolamento internazionale delle radiocomunicazioni sono comprese nelle
gamme di frequenza di lunghezza d'onda centimetrica, millimetrica o
decimillimetrica. Si tratta della cosidetta "televisione
cellulare", recentemente sperimentata a Venezia; è difficile prevedere
quali saranno i suoi sviluppi.
Questo comma e i successivi definiscono in termini di legge le polemiche sulla
"TV generalista" e altre questioni del genere. Peccato che ciò non
sia comprensibile a una prima lettura, ma che occorra un'attenta analisi del
testo. Comma 9: Le emittenti che trasmettono con accesso condizionato
possono effettuare trasmissioni in chiaro sino a un massimo di due ore al giorno
durante le quali è consentito l'inserimento di forme di pubblicità o di
sponsorizzazione per un tempo non superiore al 5 per cento della durata delle
trasmissioni stesse. Comma 10: Le trasmissioni con accesso condizionato
sono disciplinate dal regolamento dell`Autorità che definisce: a) gli
avvenimenti politici scientifici, culturali e sportivi di particolare rilevanza
o di interesse generale i cui diritti non possono essere acquisiti in esclusiva;
b) gli avvenimenti di particolare rilevanza e interesse generale che devono
essere diffusi in chiaro in diretta o entro le ventiquattro ore successive nel
rispetto di quanto stabilito dal comma 9.
Ecco quindi il rimedio a situazioni come quella sorta a proposito della cessione
dei diritti sulle partite di calcio, che ha suscitato tante polemiche:
l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni può stabilire che per
determinati contenuti (evidentemente di interesse molto diffuso) non possono
essere acquisiti diritti in esclusiva e quindi il loro accesso non può essere
"condizionato". Per di più la stessa Autorità può imporre la
diffusione in chiaro, cioè l'accesso incondizionato, per avenimenti di
particolare rilevanza e di interesse generale. Ineccepibile, almeno a prima
vista.
Purtroppo lo spazio è quello che è, dobbiamo trascurare molti punti
interessanti e passare al ddl 1021, per vedere come viene regolamenta
l'emittenza televisiva nazionale. Se ne occupa l'art. 2, che si intitola
"divieto di posizioni dominanti". È abbastanza strano che non ci sia
una indicazione "in positivo", come, per esempio "Norme per
l'emittenza televisiva a diffusione nazionale"; di fatto ci troviamo di
fronte a un complesso di disposizioni di estrema importanza, sottratte al loro
contesto e infilate a forza in un provvedimento di natura diversa, come
l'istituzione dell'Autorità.
Vediamo la sostanza, che è praticamente tutta nel comma 1: Nei settori
delle comunicazioni sonore e televisive, anche nelle forme evolutive, realizzate
con qualsiasi mezzo tecnico, della multimedialità, dell'editoria anche
elettronica e delle connesse fonti di finanziamento, è vietato qualsiasi atto o
comportamento avente per oggetto o per effetto la costituzione dominante da
parte di uno o più operatori del settore che, impedendo l'espansione della
libertà di pensiero e della libera formazione delle opinioni, la
diversificazione dell'offerta e il libero accesso ai servizi, ovvero lo sviluppo
di un sistema nazionale delle comunicazioni adeguatamente efficiente e
competitivo, possa eliminare o ridurre in modo sostanziale il pluralismo e la
concorrenza nel mercato di riferimento, definito anche in ambiti territoriali.
Come si realizzano queste prescrizioni? Con una serie di azioni di controllo e
intervento da parte dell'Autorità e con una serie di limiti precisi. Il comma 6
stabilisce che ad uno stesso soggetto o a soggetti controllati da o
collegati a soggetti i quali a loro volta concessione in base ai criteri
individuati nella vigente normativa, non possono essere rilasciate concessioni
che consentano di irradiare più del 20 per cento dei programmi televisivi o
radiofonici, in ambito nazionale, trasmessi su frequenze terrestri, sulla base
del piano delle frequenze. Nel piano nazionale di assegnazione delle frequenze
l'Autorità fissa il numero dei programmi irradiabili in ambito nazionale e
locale, tenendo conto dell'evoluzione tecnologica e delle frequenze pianificate
secondo i seguenti criteri [...]. Ancora, il comma 8 prescrive che Nell'esercizio
dei propri poteri l'Autorità applica i seguenti criteri: A) i soggetti
destinatari di concessioni televisive in ambito nazionale anche per il servizio
pubblico, di autorizzazioni per trasmissioni codificate in ambito nazionale,
ovvero di entrambi i provvedimenti possono raccogliere proventi per una quota
non superiore al 30 per cento delle risorse del settore televisivo in ambito
nazionale riferito alle trasmissioni via etere terrestre e codificate. I
proventi di cui al precedente periodo sono quelli derivanti da finanziamento del
servizio pubblico al netto dei diritto dell'Erario, nonchè da pubblicità, da
spettanze per televendite e da sponsorizzazioni, proventi da convenzioni con
soggetti pubblici, ricavi da offerta televisiva a pagamento, al lordo delle
spettanze delle agenzie di intermediazione. Il calcolo, per ciascun soggetto,
dei ricavi derivanti da offerta televisiva a pagamento è considerato nella
misura del 50 per cento per un periodo di tre anni a condizione che tale offerta
sia effettuata esclusivamente su cavo o da satellite; la quota di cui al primo
periodo della presente lettera non può essere superiore al 25 per cento qualora
il fatturato lordo complessivo dei soggetti autorizzati per trasmissioni
televisive a 20 per cento del fatturato globale del settore televisivo nazionale
[...]Vi risparmio il seguito, fatto di un intricatissimo e a volte
incomprensibile gioco di percentuali. La singolarità di questo testo è nel
fatto che non prescrive obblighi o limiti ai soggetti interessati, ma raggiunge
lo stesso risultato in maniera indiretta, elencando i criteri ai quali deve
attenersi l'Autorità nell'esercizio dei suoi compiti anti-trust. Raramente la
ben nota perversione dell'ingegneria legislativa italica ha raggiunto questi
abissi.
La "convergenza" è lontana
Bene, dirà qualcuno a questo punto, fino ad ora abbiamo parlato di
televisione. Ma i nuovi media, Internet e tutto il resto? Tranquilli: abbiamo
esaminato, per ovvii motivi di spazio, solo una piccola parte dei due disegni di
legge. Tutto il resto è... televisione! Anche via satellite, naturalmente, e
c'è anche un po' di radio. Tutto, o quasi tutto "il resto" è
sconosciuto o dimenticato dal legislatore.
Un esempio: l'articolo 10, comma 2, del ddl S1138 dice: Ai telegiornali e ai
giornali radio si applicano le norme sulla registrazione dei giornali e
periodici contenute negli articoli 5 e 6 della legge 8 febbraio 1948, n. 47. I
direttori dei telegiornali e dei giornali radio sono, a questo fine, considerati
direttori responsabili. Sembra una precisazione inutile, perché le norme
sulla stampa si applicano da anni anche ai tele e radiogiornali. Ma è
un'applicazione "di fatto", introdotta dalla giurisprudenza, perché
la legge sulla stampa, che risale al 1948, considera solo tutte le
riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o
fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione (art.1) e
non è mai stata modificata. Ma il problema non è estendere le norme sulla
stampa alla radio e alla TV, quanto ai nuovi media, e il disegno di legge non se
ne preoccupa. Ora è vero che i Tribunali accettano l'iscrizione delle testate
telematiche, con l'indicazione dei direttori responsabili, ma questa iscrizione
è efficace solo ai fini civilistici e amministrativi. Le norme penali non
possono essere applicate per analogia, e questo potrebbe comportare, per
esempio, l'impunibilità o la non incriminabilità del direttore di un
notiziario telematico per "omesso controllo" dei contenuti della
pubblicazione. In conseguenza del comma 2, i commi 3 e 4 applicano ai tele e
radiogiornali l'obbligo di pubblicare le rettifiche di chiunque si ritenga
leso nel proprio interesse morale o materiale da produzioni contenenti
affermazioni contrarie a verità. Ma evidentemente il legislatore non
intende estendere quest'obbligo ai giornali pubblicati su Internet...
Nei due disegni di legge le nuove tecnologie fanno capolino qua e là, per
esempio l'art. 2 comma 13 del 1021 dice che al fine di favorire la
progressiva affermazione delle nuove tecnologie trasmissive, ai destinatari di
concessioni radiotelevisive in chiaro su frequenze terrestri è consentita,
previa autorizzazione dell'Autorità, la trasmissione simultanea su altri mezzi
trasmissivi. Il che è decisamente troppo poco.
La lettura di testi come questi due disegne di legge fa nascere il sospetto che
i nostri governanti non abbiano la minima idea di quello che succede nel mondo,
che non abbiano contatti con i loro omologhi di altri paesi, che non capiscano
quali sono i settori dell'economia che saranno vitali nel prossimo futuro. Molti
fatti confermerebbero questa supposizione. Per esempio, si discute tanto di
disoccupazione, ma non si prende in considerazione la possibilità di investire
nelle tecnologie dell'informazione, soprattutto nei contenuti, creando
un'occupazione "nuova", strutturale e duratura.
Un altro esempio viene dalla crisi della maggiore industria nazionale del
settore, l'Olivetti, segnata dalle clamorose dimissioni di Carlo De Benedetti:
tutti gli esperti, primo fra tutti il nuovo amministratore delegato, sanno che
una parte non trascurabile delle difficoltà della casa di Ivrea dipende dal
settore dei PC, che rendono pochissimo anche alle aziende più efficienti e che
è impossibile produrre in Italia a prezzi concorrenziali con le industrie
orientali. Ma i sindacati fanno barriera: la fabbrica di Scarmagno non si tocca,
bisogna continuare a produrre PC. Si sono accorti questi signori che il personal
computer sta per essere sostituito, come prodotto di massa, dai dispositivi per
la TV digitale, via satellite prima e via cavo poi, e che in Europa tra pochi
mesi esploderà la domanda di decodificatori TV? Sono prodotti ai quali una
fabbrica di PC può essere convertita in tempi relativamente brevi, la
manodopera qualificata è la stessa. Si cita spesso l'esempio degli Stati Uniti,
dove negli ultimi tempi la disoccupazione è sensibilmente diminuita. Ma non si
dice che una parte non trascurabile dei nuovi posti di lavoro è nata nel
settore delle tecnologie dell'informazione, spinte con estremo vigore dal duo
Clinton-Gore con i grandi progetti delle "superautostrade" lanciati
tre anni fa.
Coinvolgere la gente
La pervicacia dei nostri governanti nell'ignorare l'evoluzione dei media ha,
tra le altre, una conseguenza disastrosa: l'ulteriore ritardo nella
"alfabetizzazione telematica" della popolazione. In Italia, di fatto,
la gente non sa che cosa sta succedendo nel mondo delle telecomunicazioni. Oggi
moltissime famiglie si preparano ad acquistare antenne satellitari e
decodificatori per la TV via satellite, ma non sanno se questi apparecchi
serviranno per molti anni o dovranno essere sostituiti entro un tempo abbastanza
breve; nessuno capisce bene perché nelle città si scavino in tutta fretta
lunghe trincee per la posa dei cavi in fibra ottica e via discorrendo.
Soprattutto non si dice nulla delle nuove opportunità di lavoro, e non solo di
lavoro, offerte da Internet, non si affronta il problema dell'accesso alla Rete
come diritto del cittadino e, in ultima analisi, della telematica come servizio
pubblico. Nell'ignoranza e nel disinteresse generale potrebbero essere compiuti
"colpi di mano" che ritarderebbero ancora l'evoluzione telematica del
nostro paese: la gente e i sindacati sono pronti a levare fiere proteste per gli
aumenti delle tariffe telefoniche, ma nessuna voce si leva per denunciare la
persistente discriminazione dell'accesso a Internet, a costi insopportabili per
chi non abita in una città servita dal "POP" di un Internet provider.
Lo farà Telecom a danno dei privati?
Le grandi decisioni, quelle che pongono serie ipoteche sullo sviluppo futuro di una nazione, vedono spesso il coinvolgimento di almeno una parte della popolazione. Solo per fare un esempio, è stato il caso del referendum sulla costruzione delle centrali nucleari per la produzione di energia elettrica. Non c'è dubbio che dibattiti di questo tipo sono a volte influenzati da azioni demagogiche, populistiche, da fenomeni di persuasione che poco hanno a che vedere con il reale oggetto della discussione. Tuttavia hanno il merito di far conoscere l'esistenza dei problemi, di creare nella gente la consapevolezza che si sta giocando una partita importante e che vale la pena di partecipare. Questa è la politica americana, che per altri aspetti ha caratterizzato in qualche misura le recenti campagne elettorali in Italia. Per restare in Europa c'è l'esempio della politica francese sulle telecomunicazioni, che è sì determinata da una forte tutela dell'interesse dell'industria nazionale, ma che è capace di azioni a lungo termine che coinvolgono la popolazione e quindi creano il mercato. È stato il caso del videotex dieci anni fa, è il caso di Internet oggi.
Il progetto originario delle autostrade dell'informazione lanciato Clinton e Gore non conteneva nulla di originale sul piano della sostanza, perché era interamente fondato su sviluppi tecnologici ed economici già in atto. Ma aveva il grande merito di presentarsi come un manifesto, come un ordine di mobilitazione generale delle energie di una nazione in vista di grandi obiettivi: la crescita economica, la diffusione della conoscenza, la creazione di nuovi posti di lavoro, la maggiore efficienza della pubblica amministrazione e via discorrendo. Un proclama di questo genere ha come effetto la presa di coscienza, almeno da parte di alcune fasce sociali, dell'esistenza di certi problemi. Ne consegue una richiesta "dal basso" di nuove iniziative, di nuovi servizi, che a poco a poco diffondono una nuova cultura nell'insieme della popolazione. Cresce l'attenzione verso le proposte della politica, sorgono discussioni, proposte, contestazioni. In poche parole si mette in moto un "progetto-paese", che è formulato dai governanti, ma coinvolge tutta la collettività, e in particolare il mondo delle imprese.
La maggior parte problemi che si devono risolvere in Italia non è diversa da
quelli degli USA: crescita economica, nuova occupazione, istruzione e così via;
la differenza è nella gravità della situazione nostrana. Ma in Italia questi
dibattiti restano confinati a ristretti gruppi di persone. Basta leggere i
giornali per rendersi conto che l'attenzione della classe politica non è
rivolta ai progetti a lungo termine, alle grandi prospettive aperte dalle
tecnologie dell'informazione. Si discute della privatizzazione della Stet,
dimenticando che il problema non è la proprietà di un certo numero di aziende
di importanza strategica, ma l'avvio concreto della liberalizzazione. Una
società di telecomunicazioni può competere sul mercato anche se è di
proprietà pubblica, e può esercitare un sostanziale monopolio anche se è
privata. La riforma del sistema televisivo è vista come redistribuzione delle
risorse e degli spazi (di fatto tra i soliti noti), mentre non c'è un vero
dibattito sul ruolo dell'informazione pubblica, sul diritto degli utenti ad
essere informati, sul diritto di accesso e così via.
Il disegni di legge governativi che abbiamo rapidamente esaminato nei paragrafi
precedenti tengono conto solo di alcuni di questi aspetti e li condensano in
formule ermetiche, da addetti ai lavori. È necessario invece che la gente possa
capire e possa partecipare al dibattito in corso, per ricevere poi i benefici
dell'innovazione.
Il sistema bloccato
Diversi episodi, e in particolare quello sulla cessione dei diritti per le
trasmissione delle partite di calcio, hanno suscitato un vespaio di polemiche
sul ruolo della televisione pubblica. Alcuni hanno detto che anche il calcio è
"cultura" e che il servizio pubblico deve "fare cultura".
Altri hanno replicato che la "cultura" che devono fare radio e TV non
è quella del calcio, ma quella del "sapere"... Si dice che un
personaggio di infausta memoria fosse solito esclamare "quando sento la
parola cultura metto mano alla pistola"! Se fosse stato presente a molti
dibattiti che si sono svolti negli ultimi tempi in Italia, avrebbe fatto una
carneficina.
A mio avviso la discussione è fondata su un equivoco. C'è la
"cultura" nel senso che definirei antropologico, quella del patrimonio
comune di interessi di un popolo o di un gruppo, della quale certamente il
calcio fa parte. E c'è la "cultura" nel senso del sapere
tradizionale, la letteratura, la musica, la storia, il cinema, il teatro e
quant'altro ci possa venire in mente.
L'accesso alla prima (cioè alle cronache delle partite di calcio e altre
informazioni di interesse molto diffuso) non può essere subordinato a forme di
abbonamento più o meno costose, deve essere messo a disposizione di tutti.
Correttamente la nuova legge sul sistema televisivo ne tiene conto. La
"cultura" in senso tradizionale presenta un aspetto opposto: interessa
fasce troppo ridotte della popolazione e quindi non conviene all'impresa di
comunicazioni privata, che funziona sui profitti. È ovvio che vi debba
provvedere il servizio pubblico. E anche qui la nuova legge detta regole giuste.
Ma c'è un altro problema, che le recenti disposizioni non risolvono. Quello
della cosiddetta "par condicio", ovvero dell'imparzialità
dell'informazione pubblica, soprattutto per quanto riguarda la politica. Più
volte negli anni sono state proposte e attuate soluzioni che solo gli ingenui
possono ritenere adeguate. Si è discusso su chi, all'interno del sistema
politico, dovesse nominare i componenti del consiglio di amministrazione della
Rai, su come questo dovesse (e debba ancora) scegliere i dirigenti, sugli spazi
da assegnare alle diverse componenti del sistema parlamentare. In una parola:
lottizzazione. Si è cioè fatto credere che, assegnando a questo o a quello
determinati spazi dell'informazione pubblica, si potesse raggiungere una sorta
di imparzialità. Come se questa possa derivare dalla somma di diverse
"parzialità"!
La realtà è un altra. Il mondo politico conosce, più per istinto che per
consapevolezza, che l'informazione (soprattutto quella televisiva) esercita un
potere enorme sulle scelte collettive, anche quando questo potere non è
immediatamente misurabile con gli strumenti statistici. Basta vedere come dallo
schermo televisivo si diffondono mode, modelli di vita, abitudini di consumo,
linguaggi. Fino a quando l'informazione pubblica sarà controllata dal potere
politico, indipendentemente dalle forme spartitorie che di volta in volta
verranno escogitate, sarà un'informazione non libera.
È necessario abolire gli "indirizzi" che dal Parlamento partono verso
il consiglio di amministrazione dell'ente pubblico, sia sotto forma di
interventi di una "commissione di vigilanza", sia con la nomina degli
amministratori. Gli obiettivi del servizio pubblico e il modo di perseguirli
vanno indicati, una volta per tutte, con una legge che deve raccogliere un
consenso molto vasto. Dopo di che ci sarà un comitato di "garanti",
eletti al di fuori del sistema dei partiti, che interverrà solo nei casi di
sospette violazioni della legge. Il sistema inglese funziona più o meno in
questo modo e non a caso la BBC è spesso citata come esempio di informazione
corretta e imparziale.
A questa premessa dovrebbe seguire una serie di considerazioni sulla
professionalità degli addetti all'informazione. Ma questo ci porterebbe fuori
dal seminato.
Non c'è dubbio che i tempi non sono maturi per discorsi di questo genere.
Sarebbe necessario che "il Palazzo" rinunciasse di sua spontanea
volontà a quell'enorme fetta di potere che è rappresentata dal controllo
dell'informazione. È realisticamente impensabile. Ma fino a quanto sarà il
Parlamento a decidere "come" regolare il controllo dell'informazione,
questo controllo resterà nelle mani della politica. Sarà di tante parti, ma
non al di sopra o al di fuori delle parti.
Sfugge a molti osservatori un elemento molto semplice: manca una definizione di
"che cosa è" il servizio pubblico. La nuova legge sul sistema
televisivo dice "come" l'ente pubblico deve svolgere il suo compito
(secondo criteri di completezza, imparzialità e via elencando), ma non dice
"perché" deve esistere un servizio pubblico. Se avviassimo una
riflessione su questo punto, ci accorgeremmo che la Rai deve svolgere un
servizio che è in qualche assimilabile a quelli che svolgono istituti come
l'INPS o le Ferrove: cioè un servizio indispensabile in una società moderna,
per soddisfare alcune esigenze fondamentali dei cittadini. Questo significa che
si potrebbe tranquillamente fare a meno di tutti i servizi
"commerciali" erogati dall'ente pubblico in concorrenza con i privati
e sgomberare del tutto il terreno dai problemi della competizione tra pubblico e
privato. Concentrare le formidabili risorse tecniche e professionali dell'ente
statale verso il vero "servizio pubblico" porterebbe alla costruzione
di un formidabile strumento di crescita culturale e sociale.
Ma si dovrebbe partire da più lontano: dalla definizione del diritto dei
cittadini a essere informati.
Il diritto all'informazione
Il fatto è che manca una visione globale dei problemi, manca, come dire? il
colpo d'ala, il progetto coinvolgente che possa coagulare le energie del paese
in una direzione precisa. È necessario rendersi conto che il cambiamento
socio-economico determinato dalla diffusione inarrestabile delle tecnologie
dell'informazione richiede una visione innovativa anche dell'azione politica, e
quindi legislativa.
Forse nessuno ha osservato che nel modello socio-economico che si sta
sviluppando è fondamentale un diritto mai sancito formalmente: il diritto
all'informazione. In mancanza di una definizione giuridica di questo diritto,
tutte le norme sul diritto di accesso, sul servizio universale,
sull'informazione pubblica, sono destinate a restare sospese in aria. Se si
stabilisse, con norme di legge, in che cosa consiste il diritto
all'informazione, allora si potrebbe definire il servizio universale, che è il
reciproco del diritto all'informazione. Cioè "il dovere di
informare".
La Costituzione italiana, come molte altre Carte fondamentali, sancisce con l'articolo 21 il diritto di esprimere le proprie opinioni e la libertà di stampa. Ma non prevede il diritto di conoscere le opinioni degli altri e nemmeno i fatti che possono essere considerati di interesse pubblico. Insomma, contrariamentea molti altri diritti, quello relativo alla libertà di espressione non ha il corrispettivo di un dovere, il dovere di informare. L'articolo 38, per esempio, dopo aver stabilito che Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha il diritto al mantenimento e all'assistenza sociale [...] pone un obbligo a carico dello Stato: Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi o istituti predisposti o integrati dallo Stato.
Vediamo un altro punto molto significativo: l'articolo 54 della Costituzione
dice che Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica
e di osservarne la Costituzione e le leggi. Ma nessuna norma costituzionale
afferma che i cittadini hanno il diritto di conoscere le leggi! È vero che i
testi di legge non sono soggetti a copyright, come afferma l'art. 5
della legge n. 633 del 22 aprile 1941 sul diritto d'autore, ma la conseguenza di
questa "libertà di copia" è singolare: sui testi normativi lucrano
vistosamente gli editori che pubblicano raccolte legislative variamente
articolate e commentate.
Se fosse stabilito, con norme di carattere generale, il diritto dei cittadini di
essere informati, sarebbe possibile anche dettare norme per il diritto di
accesso all'informazione, da distinguere in diritto di accesso alle reti e
diritto di accesso ai contenuti. E quindi definire il servizio universale come
l'obbligo dello Stato (che può rispettarlo anche attraverso i privati) di
soddisfare questi diritti. Si potrebbe elencare un insieme minimo di
informazioni che non può essere sottoposto a canoni o costi di accesso. In
questa prospettiva si potrebbe risolvere la questione, sempre elusa nei suoi
termini sostanziali e formali, dei compiti del servizio pubblico
radiotelevisivo. Con conseguenze destabilizzanti anche per il nuovo assetto del
sistema, perché il canone dovuto alla Rai potrebbe rivelarsi illegittimo.
Infatti, se l'ente avesse il compito esplicito di fornire a tutti i cittadini le
informazioni a cui essi hanno diritto, i suoi costi dovrebbero essere posti a
carico della collettività, cioè dovrebbero essere una piccola tassa pagata da
tutti.
Rivoluzionario? Ma siamo o non siamo in mezzo a quella che tutti chiamano "rivoluzione multimediale"? Forse no, non ci siamo. Altrimenti non continueremmo a perdere tempo con leggi insufficienti, disarticolate e addirittura fatte a pezzi fin dal concepimento, come quelle in discussione oggi. Leggi che sembrano, ancora una volta, scritte per accontentare qualcuno e non scontentare nessuno, invece che per l'interesse comune della collettività.
"...una tariffa ridotta per gli usi telematici...": firmato Cyber-Prodi
Le telecomunicazioni sono davvero la grande sfida del terzo millennio.
Una sfida politica, prima ancora che finanziaria o tecnologica, che solo nuove
menti davvero europee potranno affrontare e vincere. Si apre così
un'intervista a Romano Prodi pubblicata su la Repubblica il 26 maggio 1994,
prima che si incominciasse a parlare di lui come possibile leader di una
formazione politica. La data è quella della presentazione del rapporto del
gruppo di "eminenti personalità" guidate da Martin Bangemann, del
quale Prodi faceva parte.
L'argomento compariva poi nelle "Tesi" n. 51 e 52 del programma
iniziale dell'Ulivo: Società dell'informazione significa innanzitutto nuove
possibilità per gli individui di formarsi, divertirsi, comunicare tra loro in
un ambito sempre più aperto al mondo... Il settore delle telecomunicazioni già
oggi si sta rapidamente integrando con quello dell'informatica e rappresenta uno
dei principali pilastri del progetto di forte ripresa del paese...
Poi sono arrivati "Cyber-Prodi", l'Ulivo sul World Wide Web e, poco
prima delle elezioni, un "Patto per la telematica" e un documento
intitolato "Società delle comunicazioni e mercato globale": Le
comunicazioni propongono una nuova questione sociale: è necessario evitare una
ulteriore divisione tra chi è provvisto di conoscenze adeguate e chi è, e
sarà, sempre più emarginato dai nuovi saperi... Piano di alfabetizzazione
collegato con lo sviluppo delle reti civiche già realizzate da molti comuni
italiani, e la diffusione nelle scuole... Istituzione di una tariffa ridotta per
gli usi telematici... Il paese deve investire nella creatività... È necessario
essere ben coscienti e realistici sul ritardo nella diffusione di Internet...
"Navigando" su Internet si incontra qualcuno che fa promesse... da
marinaio. Promesse che possono essere rilette alle URL:
http://www.krenet.it/ForumProdi/tesipro/main.htm
http://www/ulivo.it/notizie/ulivo-news/0060.html
http://www/ulivo.it/doc/rete.html
Il disegno di legge S1138 regolamenta anche la trasmissione dei contenuti che
gli americani definiscono "indecenti", cioè tutto ciò che va dalle
produzioni cinematografiche vietate ai minori alla pornografia, senza
dimenticare le rappresentazioni di violenza (ma su questo punto sarebbero
necessarie norme più complete). Comma 7: È vietata la diffusione in chiaro
di produzioni idonee a nuocere allo sviluppo psichico o morale dei minori, che
contengano scene di violenza gratuita o pornografiche, che inducano ad
atteggiamenti di intolleranza basati su discriminazioni di razza, sesso,
religione o nazionalità. Comma 8: I film vietati ai minori di anni
quattordici possono essere diffusi in chiaro nella fascia oraria compresa fra le
ore 22,30 e le ore 7. Comma 10: È consentita la diffusione in chiaro
nella fascia oraria compresa fra le ore 22,30 e le ore 7 di film vietati ai
minori di anni diciotto che abbiano ottenuto il riconoscimento di opera di
"interesse culturale e nazionale" dall'apposita commissione
ministeriale [...].
Non si parla di "censor chip" da inserire nei televisori, come negli
USA, ma nel complesso le norme appaiono equilibrate. Non c'è un'effettiva
censura: qualsiasi contenuto può essere trasmesso in codice, e questo consente
ai genitori di inibire ai figli la visione di certi programmi. Libertà di sesso
e protezione dei minori sono assicurate. Se si adottassero (non solo in Italia,
naturalmente) regole di questo tipo anche per Internet, certe polemiche
potrebbero finire.