Le società post-industriali di fine secolo sono impegnate nel tentativo di
ridefinire il modo in cui la cultura crea e dà rappresentazione alla conoscenza
e al sapere umano. E' in atto un frenetico intersecarsi di tecnologia e
immaginazione che va producendo forme completamente nuove d'informazione,
generate e prodotte grazie alle tecnologie digitali. Usando desktop computer,
qui e ora, è possibile creare nuove produzioni artistiche (dipinti, animazioni,
partiture musicali), inventare nuovi spazi socio-cibernetici (giochi
interattivi, progetti architettonici, ambienti e comunità virtuali), dar vita a
nuovi tipi di visualizzazioni didattico-scientifiche (appredimento a distanza,
frattali, microscopia digitale), per non parlare delle ampie possibilità a
disposizione in tema di produzioni originali in campo letterario.
Nella storia del pianeta non si era mai visto un progresso scientifico ed
artistico in così vertiginosa ascesa e con la creativa partecipazione di così
tanti individui. Né era mai stato così semplice e veloce distribuire le
proprie creazioni (o acquisire quelle altrui) in ogni parte del mondo. Appare
quindi logico trovare al centro del dibattito socio-culturale contemporaneo,
prima ancora che tecnologico e legislativo, esattamente quelle norme a tutela
del copyright e della proprietà intellettuale che in ogni Paese moderno sono
"il" mezzo designato a garantire la promozione e la diffusione del
sapere. "Ecco il dilemma a cui ci troviamo di fronte oggi: se opere di
nostra proprietà possono venir riprodotte all'infinito e distribuite
istantanemanete nell'intero pianeta senza alcuna spesa, a nostra insaputa,
perfino senza smettere di rimanere in nostro possesso, come riusciremo mai a
proteggerle? Come faremo ad esser ricompensati per il lavoro fatto con la testa?
E se non saremo pagati, come potremo continuare a produrre e distribuire tali
opere?"
Così fotografa la non semplice questione John Perry Barlow, nota personalità
cyber-culturale e co-fondatore della Electronic Frontier Foundation. Non è
quindi un caso se le politiche sul copyright sono divenute il contesto per
ripensare e riesaminare concetti fondamentali della società dell'informazione
quali proprietà privata, libertà d'espressione, equanimità d'accesso.
Soprattutto negli Stati Uniti, tali questioni toccano direttamente il dettato
costituzionale, i cui "padri fondatori" hanno prestato molta
attenzione agli obiettivi sociali del copyright, dando esplicito e testuale
mandato al Congresso per "la promozione del progresso scientifico ed
artistico, assicurando ad autori e inventori il diritto esclusivo sui propri
scritti, invenzioni, produzioni."
Non sono tuttavia in pochi a ritenere che sia proprio l'attuale corpo
legislativo in materia ad impedire di fatto il processo di rinnovamento sociale,
tecnologico ed educativo. E' quanto suggerisce Peter Lyman, responsabile della
commissione sul copyright di Educom, il consorzio non-profit con base a
Washington che raduna i maggiori college ed università statunitensi: "Mi
chiedo se le leggi sul copyright, ideate a protezione di un concetto di proprietà
ormai passato, non costituiscano un contesto troppo ristretto e troppo tecnico
per poter contenere un dibattito sociale di così ampia portata. Il quale
dibattito non verte tanto sulla necessità di leggi a tutela della proprietà
intellettuale, quanto sul fatto se i tradizionali meccanismi sul copyright
possano essere allargati fino ad includere i network computerizzati, o se invece
ci sia bisogno d'inventare nuove culture e strumenti per la proprietà
intellettuale meglio adatti alle comunicazioni telematiche."
E' infatti soprattutto su Internet, il network dei network, che il copyright
appare anacronistico ed obsoleto. Relitto del mondo puramente fisico, costretto
ad occuparsi di rudi oggetti come nastri, dischi, CD, floppies e libri, in
cyberspace il diritto di proprietà è agonizzante. Lo sottolinea Lance Rose,
legale del New Jersey specializzatosi in questioni online ed autore di due
importanti opere, "Syslaw" e "Netlaw": "Su Internet non
c'e bisogno di complesse apparecchiature per commettere infrazioni al copyright:
basta un attimo per copiare un'opera digitale e distribuirla in migliaia di
posti nel mondo. E se aggiungiamo la possibilità di servirsi dei remailer
anonimi, risulterà impossibile scoprire chi ha compiuto l'infrazione. Al
contrario dei media tradizionali, la vasta diffusione dei sistemi telematici ha
aperto il campo a decine di milioni di potenziali contraffattori. Facilità nel
commettere violazioni e difficoltà nel reprimerle potrebbero facilmente portare
all'inevitabile conclusione che il copyright è morto."
Ma tale conclusione è più apparente che reale, secondo Rose. Il punto è che
nella realtà dei fatti, compagnie discografiche, produttori cinematografici,
editori e simili attività imprenditoriali non hanno mai basato i propri
guadagni sulla capacità di bloccare i contraffattori: copie-pirata di
numerosissimi prodotti sono facilmente reperibili in ogni città del mondo, ma
ciò nonostante aziende e multinazionali varie, in particolare quelle del
software, non smettono certo di ottenere lauti incassi; in modo del tutto
analogo i produttori di programmi shareware, che ricevono pagamenti al massimo
dal 5% degli utenti totali, hanno guadagni dell'ordine dei milioni di dollari.
Insomma, per chi detiene il copyright su un determinato prodotto l'importante è
tenere lontano dal mercato pubblico la merce contraffatta, piuttosto che
perseguire fino in fondo i tanti possibili criminali. Nel senso che le industrie
sanno bene di non aver la possibilità concreta di verificare e recuperare
quelle stratosferiche perdite economiche che dichiarano esser dovute alla
pirateria (per una stima intorno ai 15 miliardi di dollari nel 1994, in crescita
rispetto ai quasi 13 dell'anno precedente). Ma non potendo ammetterlo
pubblicamente, per ovvi motivi d'immagine e credibilità, puntano tutto sulla più
rigorosa repressione di ogni minima violazione venga alla luce (meglio se con
annesso clamore sui media). Come è accaduto, ad esempio, nella sbandierata
vittoria ottenuta nel 1992 da Playboy in una causa contro una BBS in Georgia che
trafficava in immagini digitali riprese dalla rivista oppure nella ben
pubblicizzata chiusura di un sistema telematico californiano che piratava
video-giochi della Sega. La tesi di Rose è che i poliziotti, basandosi sulla
notevole esperienza acquisita finora nella lotta ai contraffattori di supporti
musicali, libri e software, stiano semplicemente trasferendo le medesime
tecniche al mondo online, servizi commerciali, BBS ed Internet inclusi.
Obiettivo primario ed essenziale rimane quello di mantenere una certa distanza
tra il mercato pubblico e quello pirata, bloccare i contraffattori prima che
possano invadere rivendite e vicoli metropolitani, sistemi telematici e
Internet. Il tutto insieme alla consistente e fattiva opera di potenti gruppi
industriali come la Software Publishers Association e la Business Software
Alliance.
Basate a cinque isolati di distanza l'una dall'altra nel cuore del distretto
governativo di Washington, DC, le due organizzazioni perseguono scopi simili:
raccogliere e diffondere dati sull'andamento del mercato del software, tenere
regolari conferenze e meeting, assistere e consigliare i parlamentari su leggi e
proposte varie (come l'accordo GATT o il fallito lancio del chip Clipper). Ma,
è il caso di dirlo, si occupano soprattutto di combattere la pirateria del
software ed incassare i relativi risarcimenti economici, come stabilito dalle
norme statunitensi: fino al 1992 sono state circa 200 le aziende US denunciate
dalla SPA, con centinaia di migliaia di dollari in rimborsi. Dopo essersi
occupata esclusivamente delle infrazioni sul territorio nazionale, negli ultimi
due-tre anni il gruppo (di cui fanno parte 1.150 compagnie US grandi e piccole)
hanno varcato l'oceano: "l'80% delle perdite causate dalla pirateria
avviene fuori dai confini nazionali," si legge in un rapporto diffuso lo
scorso anno. Recentemente è stata anche costituita la Software Publishers
Association Europe che sta per lanciare sul mercato francese un video
"educativo" la cui produzione è costata 20.000 dollari. Insomma, una
specie di sconfinamento nella "riserva di caccia" finora riservata
alla più prestigiosa BSA: un pugno di multinazionali, tra cui Aldus, Autodesk,
Microsoft, Lotus, Apple che pagano una quota associativa definita
"proibitiva" da un portavoce dell'organizzazione stessa. Nonostante
vada quindi crescendo una certa inimicizia tra i due gruppi, il fronte del
"si copyright" pare unito nella repressione anti-pirateria soprattutto
in quelle aree dove la percentuale di programmi illegalmente copiati è
altissima (99% in Indonesia e Kuwait, 94% in Polonia e Cina). E intanto un
sondaggio dello scorso anno rileva che in USA la percentuale di software pirata
è del 35%, salendo fino al 58% in Europa e al 68% in Asia.
Inutile aggiungere che quando si arriva al processo in aula, la vittoria legale
comprensiva di abbondanti risarcimenti-danni è assicurata da un ben remunerato
nugolo di espertissimi avvocati. Come è avvenuto anche recentemente ad
Helsinki, dove la Business Software Alliance ha ottenuto la condanna di due
dirigenti di una compagnia locale a pesanti pene (60 giorni di carcere e 72.000
dollari di multa) per aver deliberatamente usato cope illegali di software
AutoCAD.
Anche la questione intorno alle norme a tutela della proprietà intellettuale
è al centro di bollenti discussioni. Finora le leggi nazionali riguardavano
esclusivamente la giustizia civile (si poteva esser condannati a pagare i danni,
non al carcere), ma nel 1989 c'è stato un un rapido giro di vite nella
legislazione statunitense: le violazioni commerciali per oltre 10 copie e per un
valore superiore a 2.500 dollari sono state fatte rientrare nel codice penale
federale si rischiano multe, carcere o entrambi.
Un approccio pesante che va diffondensi anche nel resto nel mondo, come il caso
finlandese di cui sopra, ma che non trova però tutti d'accordo. Lo prova la
sentenza assolutoria di qualche mese addietro nei confronti di David LaMacchia,
lo studente del MIT che aveva messo gratuitamente a disposizione degli utenti
della propria BBS alcuni noti programmi commerciali. Nella motivazione della
sentenza il giudice, pur redarguendo duramente il comportamento dello studente,
fa esplicito riferimento all'errore del PM nel volerlo perseguire per reati che
prevedevano il carcere anziché per un'eventuale rimborso-danni, seppur esoso.
Il che ci riporta al tema iniziale, ovvero a quei complessi aspetti sociali,
culturali e filosofici in continuo mutamento a monte del copyright, che non
possono essere affrontate con strumenti legislativi ultra-repressivi o stabiliti
in epoche passate. Ecco ancora Barlow: "Nel mondo fisico, gli autori non
erano pagati per le idee in sè, ma per la capacità di realizzarle
concretamente. In altri termini, il copyright non proteggeva il vino ma la
bottiglia che lo conteneva. Con l'avvento dell'era digitale, non c'è più alcun
bisogno di contenitori materiali; le merci-informazioni di oggi sono quasi
pensiero puro, fatti di tanti uno e zero che vagano in un ambiente 'là fuori
alla velocità della luce. Ci stiamo avviando, cioè, verso un'informazione che
è vissuta ma non posseduta, propagata ma non semplicemente distribuita,
autoreplicantesi e biodegradabile ma non duratura e riproponibile una nuova
forma di vita indipendente, in grado di avere relazioni proprie e cambiamenti
autonomi."
Si, ma in pratica? Sono in molti a ritenere che l'economia del futuro si
baserà sull'inter-relazione piuttosto che sul possesso, così come la
protezione del proprio lavoro intellettuale sarà affidata ad etica e tecnologia
anziché a leggi ed apparati repressivi. E saranno i sistemi d'encriptazione
individuali ad assicurare le basi tecnologiche per l'attuazione di tali congegni
protettivi nelle comunicazioni elettroniche globali. Qualcosa di molto simile a
quanto è scritto nel Manifesto crypto-anarchico redatto da Timothy May:
"Proprio come un'invenzione apparentemente minore come il filo spinato ha
reso possibile il recintare ranch e fattorie, alterando per sempre il concetto
di terra e di proprietà, così anche la scoperta apparentemente minore di una
branca arcana della matematica (la crittografia) diventerà come le cesoie da
metallo che smantelleranno il filo spinato attorno alla proprietà
intellettuale."
Pur senza per ora arrivare a tanto, è possibile intravvedere alcuni segnali
verso una generale riconsiderazione, a partire dalle proposte di allargamento al
mondo online di quel cosidetto "uso consentito" (fair use) che già
oggi permette la duplicazione di pubblicazioni e opere varie per casi ristretti
e non a fine di lucro (ambienti didattici e di ricerca, uso personale, prestiti
da biblioteche, brevi citazioni). Una proposta simile è infatti compresa nella
recente bozza di studio diffusa dal gruppo di lavoro sulla proprietà
intellettuale istituito all'interno della National Information Infrastructure
Task Force. In pratica si suggerisce di includere nel Copyright Act statunitense
(rivisto per l'ultima volta nel 1976) anche il "diritto di distribuzione
pubblica mediante trasmissione, inclusa quella via computer." Secondo il
testo provvisorio, la distribuzione elettronica rimarrebbe sì soggetta al
copyright, ma rientrebbere nel "fair use" qualora non si superassero
le dieci copie trasmesse. Viene altresì richiesta la cancellazione delle
attuali norme che impediscono l'importazione per via elettronica di opere
straniere protette da copyright.
Su alcuni punti cruciali (verifica delle copie trasmesse e modalità di
riscossione delle quote dovute) il documento attuale non dà risposte, ma il
gruppo di lavoro sta raccogliendo commenti e suggerimenti esterni: se ne
discuterà pubblicamente in una conferenza sulla proprietà intellettuale
organizzata tra breve nell'ambito didattico-educativo. Sono poi in avanzata fase
di progettazione iniziative come "Information Marketplace," il sistema
messo a punto dalla Folio Corporation che presto dovrebbe consentire agli
editori elettronici di vendere piccole quantità d'informazione agli utenti di
Internet, previa registrazione e comunicazione ai legittimi detentori del
copyright. Anche qui va ancora risolta l'importante questione relativa a modalità
e gestione dei pagamenti dovuti, ma va notato come un approccio differenziato ed
"aperturista" pare diffondersi su Internet. Come la recente iniziativa
della casa editrice Peachpit Press (Berkeley, California) che ha lanciato un
nuovo libro contemporaneamente in libreria e gratis sul Web gratis, connessioni
dirette incluse. Oppure la diffusione di programmi demo a tempo come il recente
NetPhone, software che consente di fare chiamate intercontinentali su Internet
(per 60 secondi col demo gratuito). E ancora, il successo dell'Electronic
Newsstand, che consente l'accesso gratuito a sommari, articoli scelti e notizie
varie riprese da decine di riviste e newsletter di ogni settore. Diventa infine
sempre più facile acquistare software direttamente online attraverso specifici
siti Web messi su da aziende quali Software On-Line e CyberSource. Non mancano
però le note negative: è di fine marzo la notizia che i programmatori
radio-televisivi muniti di regolare permesso per la ridistribuzione del
materiale di agenzie-stampa come Associated Press e Reuters, non possono poi
diffonderlo all'interno dei loro servizi su Internet. Idem per il copyright
musicale, che è ancora più scabroso, poiché editori, artisti, compositori e
compagnie discografiche hanno regole sul diritto d'autore molto diverse tra
loro. E su tali questioni non esiste alcun precedente legale relativo ad
Internet.
Stesse contraddizioni e problemi anche nel settore industriale. Mentre
aziende d'ogni tipo e dimensione (multinazionali comprese) continuano come
sempre a lottare aspramente nelle aule dei tribunali a difesa di copyright e
brevetti su componenti, codici e perfino semplici parole, vale la pena di
segnalare una tendenza verso il possibile cambiamento. Ci riferiamo alla
sentenza di metà marzo emessa da una corte d'appello US contro la Lotus
(opposta alla Bordland), che ha definito "materiale non soggetto a
copyright" la struttura dei menu del noto software Lotus 1-2-3. Costituendo
un precedente per futuri casi simili, tale sentenza è vista da esperti legali
ed industriali come fatto propulsivo per un settore che, non più tenuto sotto
il capestro d'inopportune e innumerevoli denunce a difesa del copyright, possa
avere una maggiore crescita creativa e produttiva. Possibile effetto negativo
della decisione giudiziaria, è stato fatto però notare, potrebbe rivelarsi il
considerevole aumento delle richiesta da parte degli sviluppatori di brevetti su
ogni loro creazione, attivando così pratiche che richiedono anche 2-3 anni di
tempo e fino a 100.000 dollari di spese. Fatto che, tra l'altro, potrebbe
causare l'ancor più accentuato assottigliamento della schiera di sviluppatori
di software indipendenti.
Un'ultima citazione spetta al recentissimo studio apparso su Internet (e incluso
nel numero autunnale della pubblicazione accademica "Philosophy and Social
Action") con un titolo più che esplicito: "Contro la proprietà
intellettuale." Scrive Brian Martin, ricercatore del Dipartimento di
scienza e tecnologia dell'Università di Wollongong, Australia: "Sono
numerose le conseguenze negative insite nel fatto di possedere le formazioni, in
particolare ritardo nella diffusione delle innovazioni ed emarginazione dei
paesi poveri. L'alternativa alla proprietà intellettuale è che essa non venga
più posseduta, com'è il caso delle espressioni linguistiche che usiamo ogni
giorno. Occorre sviluppare strategie concrete per opporsi alla proprietà
intellettuale, quali disobbedienza civile, diffusione di informazioni senza
copyright e soprattutto sostenere una società maggiormente basata sulla
cooperazione anziché sulla competizione."
Difficile quindi azzardare conclusioni: sul tappeto restano domande scottanti
a cui sarà difficile trovare risposte soddisfacenti in tempi brevi, e meno che
mai sul versante legislativo-repressivo. Riuscirà il copyright a sopravvivere
all'avvento dell'era digitale? Potrà Internet resistere contro norme a difesa
del copyright online? E non è forse il caso di ammettere, con Barlow, che
"tutto quel che abbiamo sempre saputo sulla proprietà intellettuale è
sbagliato...."?
(Aggiornamento di un articolo apparso sul numero di Maggio '95 del mensile
Virtual - 26.06.95).
Bernardo Parrella, giornalista free-lance e collaboratore di Agorà
Telematica, vive e lavora a San Francisco (oltre che in cyberspace: berny@well.com)