Il progetto governativo per telecomunicazioni e TV
Società dell'informazione: l'Italia può attendere?
(da MCmicrocomputer n. 166 - ottobre
1996)
La "digital collision", la convergenza digitale tra computer e
TV è incominciata. Stanno per comparire i primi televisori Internet-compatibili,
c'è la "pay-TV", mentre immagini e suoni viaggiano sulla Rete delle
reti. Questa è la società dell'informazione, che ha bisogno di leggi adeguate.
Ma i progetti in discussione non lo sono.
di Manlio Cammarata
La "digital collision", la convergenza digitale tra computer e TV è
incominciata. Stanno per comparire i primi televisori Internet-compatibili, c'è
la "pay-TV", mentre immagini e suoni viaggiano sulla Rete delle reti.
Questa è la società dell'informazione, che ha bisogno di leggi adeguate. Ma i
progetti in discussione non lo sono.
1. luglio '96: liberalizzazione delle infrastrutture di telecomunicazione; 27
agosto '96: scadenza dei termini per modificare la legge Mammì; primavera '97:
rischio di bancarotta per l'Iri se non sarà venduta la Stet; 31 dicembre '97:
fine di tutti i monopoli sulle telecomunicazioni. Quattro scadenze,
improrogabili in forza delle disposizioni dell'Unione europea, quattro occasioni
irripetibili per avviare il nostro paese su quelle "autostrade" che i
nostri partner e concorrenti percorrono a tutta velocità da almeno due anni.
Ma al casello, per restare nel paragone autostradale, il semaforo è rosso e la
sbarra è abbassata. Manca infatti una visione aggiornata e complessiva dei
problemi da risolvere, manca ancora quel "progetto-paese" del quale si
è favoleggiato per la prima volta qualche mese fa, al Summit di Napoli sulle
telecomunicazioni (vedi MCmicrocomputer n. 165). Così le leggi non nascono
sulla base di un progetto generale, di largo respiro e proiettato nel futuro, ma
sono provvedimenti tampone, finalizzati all'emergenza, alla soluzione di
problemi forse in parte già superati. E, soprattutto, non tengono conto delle
situazioni che si sono create in tempi recenti e che potranno diventare
emergenze nel prossimo futuro.
Vediamo come si presentava la situazione all'inzio dell'estate. Ai primi di
luglio in ministro delle telecomunicazioni, Maccanico, annunciava che era quasi
pronto un progetto globale per televisione e telecomunicazioni e ne anticipava
le linee generali. L'approvazione del disegno di legge era urgente, perché il
27 agosto scadeva il termine stabilito dalla Corte costituzionale per mettere
fine alla situazione di duopolio televisivo sancita dalla "legge Mammì":
Rai e Mediaset, secondo la sentenza n. 420 del 7 dicembre '94, non possono avere
più di due reti a testa, e quindi dovranno liberarsi di una rete ciascuna per
rendere disponibili le frequenze ad altri soggetti. L'altra emergenza era, ed
è, la vendita della Stet, che deve dare ossigeno alle asfittiche casse dell'Iri
ed evitare la bancarotta che l'Unione europea potrebbe di fatto rendere
invitabile nella primavera del prossimo anno. E' necessario sottolineare che la
vendita della finanziaria per le TLC non è premessa indispensabile per la fine
del monopolio, perché anche una società a prevalente partecipazione pubblica
può operare in regime di libero mercato; l'urgenza è data solo da motivi
finanziari. Si aggiunga che l'operazione di vendita non richiede particolari
deliberazioni del Governo o del Parlamento (la Stet è una società per azioni
come un'altra), ma è opportuno che la privatizzazione avvenga sulla base di
regole certe per il mercato delle TLC, regole che devono essere dettate da
un'ancora inesistente Autorità di settore.
Il progetto del Governo era lungo e complesso, sarebbe riuscito il Parlamento ad
approvarlo prima del 27 agosto? Sembrava molto difficile, e così il testo
veniva spezzato in due: un primo disegno di legge, presentato al Senato il 19
luglio, che istituisce la "Autorità per le garanzie nelle
telecomunicazioni" e introduce norme anti-trust che fanno piazza pulita
della legge Mammì; il secondo, presentato il 25 luglio, che ridisegna l'assetto
globale delle TLC in Italia. Ma l'accordo politico non si trovava neanche sul
primo DDL, e il 28 agosto il Governo emanava un decreto legge che costituiva una
semplice proroga della situazione esistente.
Vediamo ora i punti essenziali dei tre testi.
Il decreto d'agosto
In tutto il quadro della riforma delle TLC c'è un'espressione chiave:
anti-trust. Significa in primo luogo che nessuna azienda o gruppo di aziende
può avere quota di mercato tale da limitare le possibilità di scelta degli
utenti e la libertà di impresa di altri soggetti. Questo è il cardine della
riorganizzazione del mercato e il punto findamentale della sentenza della
Corte costituzionale. Ed è esattamente il principale difetto del nostro
sistema attuale: la presenza dei due "giganti" Rai e Mediaset, che
blocca il mercato. Ma è chiaro che una efficace normativa anti-trust
danneggia a breve termine soprattutto Mediaset (per la Rai il discorso è più
complesso, perché coinvolge la tematica del servizio pubblico). Così alla
fine di luglio il lavoro delle lobby e diversi interessi politici
bloccavano, oltre al ddl governativo, anche un provvedimento d'urgenza che
applicasse, sia pure in misura ridotta, il dettato della sentenza n. 420.
Così il 28 agosto il Governo approvava un provvedimento di soli due articoli,
che congelava lo status quo e rimandava a una serie di regolamenti, da
emanare entro 90 giorni, l'applicazione delle direttive europee sulla
liberalizzazione delle TLC. Un decreto, anzi un decretino, che non significa
nulla, se non il proseguimento della situazione attuale. Per quanto tempo?
L'art. 1 del decretino stabilisce che In attesa della riforma complessiva
dl sistema radiotelevisivo e delle telecomunicazioni, da attuare nel rispetto
delle indicazioni date dalla Corte costituzionale con sentenza 7 dicembre 1994
n. 720 è consentita ai soggetti che legittimamente svolgono l'attività
radiotelevisiva alla data del 27 agosto 1996 la prosecuzione dell'esercizio:
a) della radiodiffusione sonora in ambito nazionale e locale, nonchè della
radiodiffusione televisiva in ambito locale fini al 27 agosto 1997; b) della
radiodiffusione televisiva in ambito nazionale fino al 31 gennaio 1997.
Tutto qui. Ora si deve riflettere sul fatto che la sentenza n. 420 ha
stabilito la che l'attuale ordinamento è incostituzionale e che deve cessare
entro il 27 agosto '96. Prorogarlo significa andare contro il dettato della
Corte e quindi il decretino potrebbe essere a sua volta incostituzionale. Ma
questo "difetto" è di fatto irrilevante, perché i tempi per una
decisione della stessa Corte su un'eccezione di incostituzionalità (che deve
essere sollevata nell'ambito di un'azione giudiziaria) sono certamente molto
più lunghi dei 60 giorni entro i quali un decreto deve essere convertito in
legge da parte del Parlamento. Siamo probabilmente di fronte a una situazione
di assoluta illegalità, ma non possiamo farci nulla.
Il vero problema è un altro. Dal dicembre del '94 all'agosto del '96 sono
passati quasi due anni, un tempo più che sufficiente per predisporre e
iniziare, se non per portare a termine, la riforma del sistema su serie basi
anti-trust e in vista della "convergenza digitale", ormai in atto,
tra televisione e telecomunicazioni. Nulla è stato fatto, per il semplice
motivo che agli interessati conviene che lo status quo sia mantenuto più a
lungo possibile. E' vero che un rapido smantellamento dell'assetto consolidato
può causare un danno economico agli operatori coinvolti, ma questo danno può
essere limitato, se non evitato del tutto, con un passaggio graduale verso il
nuovo sistema. Ora si solleva la questione del danno immediato e si blocca
più a lungo possibile la situazione; quando la legge e la decenza imporranno
il cambiamento si reclameranno tempi lunghi. Questo significa che la fine
della "anomalia italiana" nel settore radiotelevisivo è meno vicina
di quanto si possa sperare.
L'art. 2 del decretino solleva problemi molto più gravi di quanto possa
apprire a prima vista: 1. Su proposta del Ministro delle poste e
delle Telecomunicazioni, [...] sono adottati, entro novanta giorni
dall'entrata in vigore del presente deceto-legge, i regolamenti per
l'attuazione: a) della direttiva 95/51 CE riguardante l'uso di reti televisive
via cavo per la fornitura di servizi di telecomunicazioni già liberalizzati;
b) della direttiva 95/62 CE sull'applicazione del regime di fornitura di una
rete aperta (ONP) alla telefonia vocale; c) della direttiva 96/19 CE che
modifica la direttiva 90/388 CE al fine della completa apertura alla
concorrenza dei mercati delle telecomunicazioni. 2. Con i regolamenti di cui
al comma 1 si riconosce: a) la soppressione dei diritti esclusivi e speciali;
b) il diritto di ciascuna impresa di svolgere servizi di telecomunicazioni e
installare reti di telecomunicazioni; c) la sottoposizione delle imprese ad
autorizzazione, salve le concessioni previste da legge. 3. I regolamenti di
cui al presente articolo stabiliscono, secondo criteri di obiettività,
trasparenza, non discriminazione e proporzionalità, codizioni, requisiti e
procedure per il rilascio delle autorizzazioni o concessioni, loro durata,
onerosità, obblighi di interconnessione, di accesso e di fornitura del
servizio uni versale.
Se si legge con attenzione, ci si accorge che in poche righe sono elencati i
principali aspetti della liberalizzazione delle TLC: sembra quasi un "Bignami"
del Telecommunications Act degli USA! Il primo punto per ora è
inutile, perché in Italia non ci sono reti televisive via cavo, e le reti in
costruzione nascono per la telefonia e il traffico dei dati prima che per la
TV. Il secondo si riferisce a un progetto della UE, la Open Network
Provision che sta per essere superato dalla naturale evoluzione delle
reti. Invece il punto c) è importante, perché la direttiva 96/19 modifica la
90/388, applicata con il famigerato decreto legislativo 103/95: è quello
della "liberalizzazione al contrario", di cui tanto ci siamo
occupati nei mesi scorsi, perché pone vincoli burocratici e balzelli alle
attività telematiche. Andiamo avanti e troviamo la soppressione dei diritti
esclusivi e speciali (cioè di alcuni pilastri del monopolio), la fine dei
monopoli sulle reti e sui servizi e la conferma del doppio regime
concessorio/autorizzatorio, problema complesso sul quale ci soffermiamo più
avanti. Infine gli obblighi di interconnessione, accesso e fornitura del
servizio universale, che sono tre aspetti dello stesso problema, fondamentale
per il mercato liberalizzato.
La trappola del 31 gennaio
Ma si può affidare a semplici regolamenti la definizione di principi di tale
importanza? Negli USA intorno a questi temi si è acceso un dibattito durato
due anni, che ha portato al fondamentale Telecommunications Act of 1996;
in Italia ci sono all'esame del Parlamento due disegni di legge che dovrebbero
avviare il nuovo sistema (e ancora non bastano), e si pensa di risolvere tutto
con un pugno di regolamenti? Senza contare che molti degli aspetti elencati
nel decretino d'agosto sono regolati da leggi, e che un regolamento non può
modificare una legge. Non basta un regolamento, per esempio, per modificare il
103/95: occorre una legge o un decreto legislativo (che a sua volta deve
essere previsto da una legge). Il tentativo di applicare le disposizioni
europee per regolamento, invece che per legge, è senza dubbio lodevole,
perché consente di accorciare i tempi e non essere sempre in ritardo sugli
altri paesi dell'Unione, ma pone problemi giuridici forse insormontabili allo
stato attuale della legislazione.
Per fortuna il termine previsto per i regolamenti è di 90 giorni, il
Parlamento deve convertire in legge il decreto entro 60. Dobbiamo augurarci
che si accorga che la materia è già contentenuta nei due disegni di legge
presentati in luglio e che elimini questo assurdo articolo 2.
Tutto questo ci conduce all'esame del progetto governativo presentato al
Senato, progetto articolato in due distinti disegni di legge per i motivi
esposti all'inizio. Il primo, che porta il numero S1021, si intitola
"Istituzione dell'autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni e
norme sul sistema radiotelevisivo"; il secondo, indicato con il numero
1138, "Disciplina del sistema delle telecomunicazioni". La divisione
in due provvedimenti distinti comporta una serie di problemi, perché alcune
importanti disposizioni sono divise tra i due testi e quindi la discussione
parlamentare potrebbe portare a a norme discordanti o ridondanti. In
particolare sono divise a metà le norme anti-trust: per le reti televisive
nazionali nel 1021, per quelle locali e la radiofonia nel 1138. Assurdo, ma
giustificato dall'urgenza di approvare subito le norme anti-trust entro il 27
agosto. Posto che questa urgenza non c'è più, il più elementare buon senso
suggerirebbe di unificare i due disegni di legge in uno solo, semplificando
anche l'iter parlamentare.
Ma qui potrebbe scattare una trappola: quella del 31 gennaio, data di scadenza
della proroga per l'emittenza televisiva nazionale, che potrebbe rendere
necessaria la discussione accelerata del primo ddl. E resta anche l'urgenza di
varare l'Autorità, sia per iniziare il vero riordinamento del settore, sia
per procedere alla vendita della Stet. Se le Camere non riescono ad approvare
tutto in tempo utile, ritorna l'opportunità di mantenere separate le due
parti del progetto legislativo. C'è un'altra possibilità: unificare i due
ddl per quanto riguarda le norme generali, riportando alla necessaria unità
le disposizioni antitrust, e anticipare solo l'istituzione dell'Autorità, con
un'ulteriore proroga delle attuali concessioni televisive nazionali fino al 27
agosto '97: il vantaggio sarebbe nella coerenza delle disposizioni anti-trust
e nella partenza simultanea del nuovo assetto per l'emittenza televisiva
nazionale e locale; lo svantaggio è fin troppo evidente: prolungare di altri
sette mesi l'assetto perverso della legge Mammì, con almeno un altro anno per
il passaggio al nuovo regime. Purtroppo questo è l'interesse di Mediaset, fin
troppo rappresentato nelle aule parlamentari e nei loro dintorni.
E ora vediamo in estrema sintesi il contenuto dei due disegni di legge.
Procediamo però per argomenti, come vuole la logica, e non seguendo l'ordine
dei testi.
L'Autorità per le garanzie
Il ddl S1021, art. 1. istituisce l'Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni, di seguito denominata "Autorità", la quale opera in
piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione.
L'autorità è composta da un presidente (nominato dal Presidente della
Repubblica su proposta del Governo), da due commissioni di quattro mebri
ciascuna, indicati dalle Camere, e da un consiglio, costituito dal presidente
e da tutti i commissari. Il presidente fa anche parte di ambedue le
commissioni.
La prima, denominata "Commissione per le infrastrutture e le reti",
si occupa del piano di ripartizione delle frequenze, della sicurezza, del
registro degli operatori, dei criteri di accesso, delle tariffe, del servizio
universale, e così via. Alcune disposizione meritano una riflessione. La
prima riguarda i decodificatori, indispensabili per la "pay TV", che
sono stati oggetto di accese controversie in ambito franco-tedesco. La
commissione, sentito il parere del Ministero delle poste e delle
telecomunicazioni e nel rispetto della normativa comunitaria, determina gli
STANDARD per i decodificatori in modo da favorire la fruibilità del servizio.
Qui ci troviamo di fronte a un primo possibile problema per gli utenti,
perché arrivano ora nei negozi italiani i primi decodificatori per vedere le
partite di calcio: saranno del tipo che poi diventerà standard? Rischiamo di
dover acquistare diversi decodificatori? L'Unione europea non si è ancora
pronunciata, anche se gli accordi franco tedeschi dovrebbero aver indicato lo
standard da seguire.
Un altro argomento della massima importanza è al comma 2, lettera A. La prima
commissione 9) individua, in conformità alla normativa comunitaria,
l'ambito oggettivo e soggettivo degli eventuali obblighi di servizio
universale e le modalità di determinazione e ripartizione del relativo costo;
10) individua i servizi di telecomunicazione, diversi da quelli rientranti
nell'obbligo di servizio universale, che devono essere offerti in modo
omogeneo su tutto o soltanto su parte del territorio nazionale. Questa è
una delle basi del sistema di telecomunicazioni di una democrazia: occorrono
regole per stabilire chi e come deve fornire i servizi di telecomunicazioni, a
parità di condizioni con gli altri utenti, anche a coloro che non è
conveniente raggiungere nell'ottica di profitto di un'azienda privata. E' il
caso delle piccole comunità o delle utenze telefoniche isolate, il cui
collegamento è costoso e poco redditizio. Il progetto del Governo prevede il
finanziamento del servizio universale attraverso un fondo creato con i
versamenti degli operatori.
La seconda commissione si chiama "Commissione per i servizi e i
prodotti" ed è competente per tutto quanto riguarda i contenuti, dal
diritto di rettifica delle informazioni alla pubblicità, alla tutela dei
minori, fino alla correttezza delle informazioni politiche e della diffusione
dei risultati dei sondaggi. Anche qui c'è un punto di grande interesse:
questa commissione determina con apposita convenzione gli obblighi dei
concessionari di servizio pubblico e verifica l'attuazione delle finalità di
servizio pubblico nella suddetta convenzione e in tutte le altre che vengono
stipulate tra concessionarie del servizio pubblico e amministrazioni pubbliche.
Qui si dà per scontato che il servizio pubblico radiotelevisivo continui in
regime di "concessione", il che contrasta con gli orientamenti
europei.
Il consiglio, che è composto dagli otto componenti delle commissioni e dal
presidente, ha compiti di promuovere studi e ricerche, suggerire interventi al
Governo, adottare i regolamenti per le concessioni e le autorizzazioni,
determinare i relativi canoni è così via. Inoltre, come recita il punto 9
della lettera c) segnala all'Autorità garante della concorrenza e del
mercato la sussistenza di ipotesi di violazione delle disposizioni della legge
10 ottobre 1990, n. 287, commesse da operatori del settore delle comunicazioni.
Per questo deve anche sorvegliare la separazione contabile e amministrativa
degli operatori che offrono trasporto e servizi, o servizi diversi, e
controllare le operazioni societarie che possono ledere i principi anti-trust.
Entro il 30 novembre di ogni anno consegna al Presidente del Consiglio dei
Ministri una relazione per il Parlamento sull'attività svolta e sui programmi
di lavoro.
E' molto importante anche il punto 10: il Garante svolge le altre funzioni
già attribuite della legge al Garante per la radiodiffusione e l'editoria.
Non si dice però che il Garante per la radioffusione e l'editoria è abolito.
Solo il comma 17 prescrive: Entro novanta giorni dalla data di entrata in
vigore della presente legge, su proposta del Ministro delle poste e delle
telecomunicazioni, sono emanati uno o più regolamenti, ai sensi dell'articolo
17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, per individuare le competenze
trasferite, coordinare le funzioni dell'Autorità con quelle delle pubbliche
amministrazioni interessate dal trasferimento di competenze, riorganizzare o
sopprimere gli uffici di dette amministrazioni e rivedere le relative piante
organiche. A decorrere dalla data di entrata in vigore dei regolamenti sono
abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che disciplinano gli
uffici soppressi o riorganizzati, indicati nei regolamenti stessi. Qui
c'è una delle solite stranezze legislative: non si possono abolire con i
regolamenti gli organismi istutuiti da una legge, allora l'abolizione è
sancita da questa legge, ma sulla base delle norme dei regolamenti in essa
previsti. Sicché abbiamo una legge che applica le disposizioni di un
regolamento, e per di più futuro. Italia, patria del diritto!
Il quadro non diventa più chiaro se si va a vedere il secondo ddl, dove sono
indicati più in dettaglio i compiti dell'Autorità sia per quanto riguarda il
rilascio di concessioni e autorizzazioni, sia per le sue competenze in materia
di anti-trust, che in qualche punto potrebbero entrare in conflitto con quelle
dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato.
Il nuovo assetto del mercato
E siamo quindi al secondo punto fondamentale del progetto governativo: i
criteri per la suddivisione tra gli operatori delle risorse disponibili, cioè
il modello del mercato delle TLC, in particolare per la la televisione e la
radio. La prima e più importante risorsa che deve essere distribuita è
costituita dalle frequenze per la radiodiffusione terrestre. Le bande
assegnate a questo settore consentono l'utilizzo di un numero di canali
relativamente limitato. Relativamente, perché è vero che i canali sono
diverse decine, sia per la radio, sia per la televisione, ma se vengono
assegnate in modo di favorire solo alcuni operatori, il libero mercato viene
seriamente compromesso o scompare del tutto. Lo vediamo oggi, con le regole
della legge Mammì, che non permettono a un operatore nazionale come
Telemontecarlo di coprire tutto il territorio. Questo limite si riflette sulle
tariffe della pubblicità, che per questa emittente non possono raggiungere
livelli remunerativi. La conseguenza finale è un grave limite alla libertà
di comunicazione.
Ma la legge Mammì era basata soltanto sulla distribuzione delle frequenze
disponibili, mentre le nuove regole prendono correttamente in considerazione
anche la "risorsa pubblico" e la risorsa finanziaria. Si stabilisce
cioè che un singolo operatore non possa controllare più di una determinata
percentuale dell'emittenza complessiva e non possa acquisire più di una
percentuale della "torta" costituita dalla pubblicità, dalle
sponsorizzazioni, dalle televendite, insomma da tutto ciò che costituisce
attualmente l'insieme degli introiti delle emittenti.
Non entriamo nel dettaglio delle cifre contenute nei due disegni di legge,
ampiamente illustrate dai mass media, perché a noi un certo numero di punti
percentuali in più o in meno non interessa. L'importante è capire il
meccanismo che dovrebbe garantire il corretto funzionamento del mercato
dell'informazione, quello che nei prossimi anni è destinato a produrre più
ricchezza di tutti gli altri settori dell'economia, ed è essenziale
soprattutto per la crescita sociale e culturale di tutte le nazioni.
Il progetto generale è contenuto nel ddl S1138, mentre le regole per
l'emittenza televisiva nazionale sono "stralciate" nell'S1021.
Incominciamo dunque dal secondo testo presentato al Senato.
Il Titolo 1 si intitola "Norme di principio"; il primo articolo
enuncia i soliti principi generali della tutela delle persone, delle libertà
e del mercato, ma un punto merita particolare attenzione attenzione: il comma
3 afferma che La disciplina del sistema delle comunicazioni tiene conto del
processo di convergenza tecnologica tra il settore delle telecomunicazioni e
quello radiotelevisivo considerando congiuntamente l'assetto delle reti di
diffusione e i servizi erogati. Vedremo più avanti come di fatto questa
affermazione rimanga sulla carta.
L'articolo 2 si intitola "Piano di ripartizione, bacini d'utenza e piani
di assegnazione delle frequenze". Il punto essenziale è al comma 2: Ai
fini della predisposizione dei piani nazionali di assegnazione delle frequenze
per ciascun servizio l'Autorità [...] suddivide il territorio nazionale in
bacini di utenza. Per il servizio radiotelevisivo i bacini di utenza sono
definiti secondo il numero dei potenziali utenti, la diffusione dei residenti,
le condizioni geografiche, urbanistiche, ambientali, socioeconomiche e
culturali di ciascuna zona. Il comma 4 prevede che lo schema del piano di
assegnazione sia sottoposto agli enti locali; i comuni devono adeguare i loro
piani urbanistici in funzione della localizzazione degli impianti.
Si passa poi al Titolo 2, "Disciplina della telecomunicazioni", il
punto cruciale del progetto. Il lungo articolo 3 al comma 1 definisce come rete
di telecomunicazioni una infrastruttura o un insieme di infrastrutture che
permetta la trasmissione di segnali analogici o numerici, tra punti terminali
fissi o mobili, mediante mezzi trasmissivi di qualsiasi tipo. Il comma 2
va letto con attenzione: L'installazione non in esclusiva delle reti di
telecomunicazioni via cavo o che utilizzano frequenze terrestri è subordinata
con decorrenza 1 gennaio 1997 al rilascio di concessione nelle forme di cui al
presente articolo. A partire dalla stessa data l'installazione di stazioni
terrene per servizi via satellite, l’esercizio delle reti di
telecomunicazioni e la fornitura di servizi di telecomunicazioni sono
subordinati al rilascio di autorizzazione nelle forme di cui al presente
articolo. Si distingue dunque tra "concessione" e
"autorizzazione": la prima è riservata all'installazione delle reti
via cavo o su frequenze terrestri (sono quindi escluse le frequenze
satellitari), la seconda all'esercizio delle reti e alla fornitura di servizi.
La differenza è sostanziale, perché la concessione presuppone una riserva
dello Stato sull'oggetto della concessione stessa, e comporta quindi una serie
di conseguenze non indifferenti. In pratica, e semplificando, il titolare di
una concessione agisce come se fosse lo Stato o l'ente locale, a seconda
dell'ambito d'azione. Si legge infatti al comma 8: Il rilascio della
concessione per l'installazione delle reti di telecomunicazioni e di
radiodiffusione previsti nel piano di assegnazione costituisce dichiarazione
di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza delle relative opere. Le aree
acquisite entrano a far parte del patrimonio indisponibile del comune.
E' interessante anche il comma 3, che prevede la concessione da parte
dell'Autorità per le reti via cavo a lunga distanza e delle relative
infrastrutture di giuzione con le reti minori; le concessioni per queste
ultime sono invece rilasciate dagli enti locali. Altri due aspetti rilevanti
sono contenuti nei commi 9 e 11. Il comma 9, punto d) prevede in via
prioritaria e in quanto possibile, l'utilizzo di dotti esistenti per la posa
dei cavi: cioè che si devono fare meno scavi possibile, utilizzando anche
le fognature, come ha proposto il comune di Bologna seguendo l'esempio di
alcune città del Nord Europa. Non si capisce bene perché la Stet continui a
mettere sottosopra le strade per posare la fibra ottica nelle città.
Integrazione "verticale" e servizio universale
Uno dei problemi più delicati delle telecomunicazioni è la cosiddetta
"integrazione verticale": questa è la possibilità che chi dispone
delle reti possa fornire anche i contenuti, direttamente o attraverso società
controllate e, al contrario, chi fornisce servizi possa installare o gestire
reti. Il problema è che chi trasporta i segnali può vendere i servizi con
azioni di dumping, cioè fornire i servizi a un costo più basso di
quello che possono praticare i soggetti che offrono solo questi, e che devono
quindi pagare il trasporto agli esercenti delle reti. Il divieto di
integrazione verticale serve dunque a impedire che si possano creare ostacoli
all'attività dei fornitori di servizi di minori dimensioni ed è stato il
cardine della legislazione USA dell'86. Con il "Telecommunication Act of
1996" è stato possibile eliminare questa limitazione, grazie alla
presenza sul mercato di molti fornitori di contenuti di grandi dimensioni e a
una disciplina anti-trust molto efficace. In Gran Bretagna vige la
"regolamentazione asimmetrica", grazie alla quale l'integrazione
verticale è consentita solo agli operatori in ambito locale e non a British
Telecom.
La regolamentazione asimmetrica è uno dei problemi più discussi in Italia in
questo periodo. Per capire come lo risolve il "progetto Maccanico"
bisogna leggere in ordine inverso diversi commi dell'art. 3. Si incomincia
dall'ultimo, il numero 14: Sulle reti di telecomunicazioni possono essere
offerti tutti i servizi di telecomunicazioni. Fino al 1. gennaio 1998 la
concessionaria del servizio pubblico di telecomunicazioni conserva
l'esclusività per l'offerta di telefonia vocale, fatta salva comunque la
possibilità di sperimentazione da parte di soggetti specificamente
autorizzati. Fino alla stessa data le società destinatarie di concessioni in
esclusiva per telecomunicazioni non possono realizzare produzioni
radiotelevisive. E' quindi scontato il comma 13, che conferma alla
società concessionaria del servizio pubblico di telecomunicazioni la vigente
concessione con annessa convenzione, a eccezione dell'installazione delle
infrastrutture a larga banda soggette alle concessioni di cui al comma 3, e
rilascia alle società di cui al comma 11 apposita autorizzazione ai fini
della fornitura al pubblico dei servizi di telecomunicazioni.
L'asimmetria è dunque limitata a un periodo molto breve, meno di un anno se
si considerano i tempi di entrata a regime del nuovo ordinamento. Al passo del
gambero leggiamo il comma 12: Gli impianti oggetto di concessione ai sensi
dell'articolo 5 possono essere utilizzati anche per la distribuzione di
servizi di telecomunicazioni. In tal caso, i destinatari di concessioni in
ambito locale sono tenuti alla separazione contabile dell'attività
radiotelevisiva da quella svolta nel settore delle telecomunicazioni, mentre i
destinatari di concessioni per emittenti nazionali sono tenuti a costituire
società separate per la gestione degli impianti.
Risiliamo quindi al comma 11: Le società che installano o esercitano le
reti di telecomunicazioni e gli operatori che su tali reti forniscono servizi
di telecomunicazioni, sono obbligati, dal 1° gennaio 1998, a tenere separata
contabilità delle attività riguardanti rispettivamente l'installazione e
l'esercizio delle reti nonché la fornitura dei servizi. Dunque con la
separazione contabile si dovrebbero evitare azioni di dumping da parte
dei gestori delle reti, che potrebbero fornire a un prezzo più basso gli
stessi servizi che altri operatori forniscono prendendo le reti in affitto. La
contabilità separata dovrebbe garantire che i servizi non vengano forniti in
perdita, a danno dei concorrenti. La garanzia migliore resta comunque il
divieto di integrazione fra il trasporto e i servizi, almeno per il periodo di
tempo sufficiente a far crescere nuovi operatori, come è stato fatto negli
USA. Di fatto la soluzione proposta favorisce Telecom Italia e gli altri
grandi operatori già pronti a entrare sul mercato.
L'art. 4 pone le regole per "Interconnessione, accesso e servizio
universale". I primi due punti non presentano problemi particolari,
perché è sontato che gli operatori diano garanzia dell'interconnessione
tra le reti e i servizi (ma si può interconnettere una rete con un
servizio? Il senso è chiaro, ma la formulazione è tecnicamente sbagliata).
Seguono poi le garanzie della comunicazione tra i terminali degli utenti,
della non discriminazione, della proporzionalità degli obblighi e di
diritti tra gli operatori e i fornitori (più correttamente si dovrebbe
dire: tra i fornitori del trasporto dei segnali e i fornitori dei servizi). Il
primo comma si conclude con il principio della remunerazione degli obblighi
del servizio universale (che è descritto più avanti: non si potrebbero
comporre i testi legislativi in modo più lineare?).
Il secondo comma esordisce in modo lapalissiano: I soggetti autorizzati
all'offerta di servizi di telecomunicazioni ai sensi dell'articolo 3 hanno
diritto di accesso alle reti. Questo diritto può essere limitato
dall'Autorità per le solite ragioni di sicurezza e integrità della rete, o
di interoperabilítà dei servizi, qualora ricorrano comprovati motivi di
interesse generale di natura non economica. Quest'ultima frase non è
chiarissima; di fatto sembra sostituire con un formula più elegante i motivi
di ordine pubblico, difesa dello Stato eccetera, presenti in altre norme di
questo tenore.
Il terzo comma affronta la discussa questione del "servizio
universale". E' questo uno degli argomenti sostenuti da chi si oppone
alla privatizzazione dei gestori pubblici e alla liberalizzazione del mercato:
ci sono utenze che a un libero imprenditore non conviene servire, come quelle
in località isolate con pochi abitanti o in zone povere. Posto che non è
giusto far pagare a questi utenti il maggior costo del loro collegamento, si
pone il dilemma se ripartirlo su tutti gli abbonati o metterlo a carico dello
Stato: secondo chi avversa la privatizzazione si risolve il problema affidando
il servizio universale al gestore pubblico. Va ricordato che sono oggetto di
fondate critiche le sperimentazioni commerciali di TV interattiva limitate ai
quartieri ricchi delle grandi città (è il caso delle attuali "prove
tecniche che la Stet conduce attraverso la Stream); per questa politica in
Gran Bretagna è stata creata l'epressione redlining, tracciare un
linea rossa tra chi può e chi non può acquistare i nuovi servizi. E questa
linea rossa separa gli have dagli have not, come la recente
sociologia americana distingue tra chi avrà i vantaggi della società
dell'informazione e chi ne sarà escluso.
Afferma dunque il comma 3: Gli obblighi di fornitura del servizio
universale, ivi inclusi quelli concernenti la cura di interessi pubblici
nazionali, con specifico riguardo ai servizi di pubblica sicurezza, di
soccorso pubblico, di difesa nazionale, di giustizia, di istruzione e di
governo, e le procedure di scelta da parte dell'Autorità dei soggetti tenuti
al loro adempimento, sono fissati secondo i criteri stabiliti dalI'Unione
europea. Si rimanda dunque alla legislazione comunitaria, è comodo anche
perché non c'è altra scelta. Il problema è: chi paga per il servizio
universale? Su questo punto le indicazioni comunitarie sono ancora vaghe, e
provvede quindi il comma 4: L'onere conseguente alI'adempimento degli
obblighi del servizio universale è calcolato sulla base dei costi relativi.
È costituito presso il ministero delle Poste e delle telecomunicazioni un
apposito fondo per la remunerazione del servizio universale finanziato da una
quota dei canoni relativi alle nuove concessioni e dei contributi di
autorizzazione e da una quota delle tariffe di interconnessione dovute dalle
società che abbiano raggiunto il fatturato determinato dalI'Autorità.
La nuova televisione
Passiamo all'aspetto che suscita il maggior interesse e, in questo momento,
coinvolge i maggiori interessi: il nuovo ordinamento dei servizi
radiotelevisivi, contenuto nell'art. 4 "Attività radiotelevisiva".
Sono norme di grande rilevanza, perché nei prossimi anni la televisione via
etere sulle frequenze terrestri avrà ancora un ruolo dominante nell'universo
dei media, e su essa convergeranno in parte altri servizi telematici.
Il primo comma stabilisce una distinzione fondamentale tra le trasmissioni
terrestri via etere da una parte e quelle via cavo e via satellite dall'altra:
le prime sono soggette a concessione, le seconde ad autorizzazione. Ecco il
testo: L'esercizio dell'attività radiotelevisiva mediante l'uso di
frequenze terrestri è subordinato al rilascio di concessione. La concessione
comprende l'installazione e l'esercizio degli impianti e dei connessi
collegamenti di telecomunicazioni. Nell'atto di concessione e determinato il
numero dei programmi che può essere diffuso da ciascuna emittente mediante le
frequenze assegnate. L'esercizio dell'attività radiotelevisiva può essere
svolto anche da soggetti che intendono utilizzare impianti di` altre
concessionarie radiotelevisive o di telecomunicazioni. La diffusione
radiotelevisiva via cavo e quella via satellite originata dal territorio
nazionale sono soggette ad autorizzazione rilasciata dall'Autorità.
Come abbiamo visto, la concessione si riferisce a un'attività che lo Stato
considera propria, a differenza dell'autorizzazione. Il mantenimento del
regime concessorio al posto di quello autorizzatorio si risolve di fatto in un
minor grado di liberalizzazione, e questo può essere oggetto di ampie
discussioni. Nei commi dal 2 al 7 dell'art. 3 viene posta ai titolari delle
concessioni una serie di obblighi che nell'insieme configura un servizio
pubblico: copertura del territorio, quote di autoproduzione, produzione
italiana ed europea, completezza ed imparzialità dell'informazione,
programmazione per disabili sensoriali e via discorrendo.
Il comma 8 introduce le diffusioni radiotelevisive con accesso condizionato.
Di che si tratta? In primo luogo della pay-TV, la televisione a
pagamento, e poi di altri servizi ai quali l'accesso è subordinato a
particolari condizioni prima di tutto le trasmissioni in codice. Si prescrive:
Le diffusioni radiotelevisive con accesso condizionato in ambito nazionale
sono effettuate esclusivamente a mezzo di reti via cavo o da satellite: in
ambito locale l'Autorità può consentire trasmissioni su bande di frequenza
terrestri che dal Regolamento internazionale delle radiocomunicazioni sono
comprese nelle gamme di frequenza di lunghezza d'onda centimetrica,
millimetrica o decimillimetrica. Si tratta della cosidetta
"televisione cellulare", recentemente seprimentata a Venezia; è
difficile prevedere quali saranno i suoi sviluppi.
Questo comma e i successivi definiscono in termini di legge le polemiche sulla
"TV generalista" e altre questioni del genere. Peccato che ciò non
sia comprensibile a una prima lettura, ma che occorra un'attenta analisi del
testo. Comma 9: Le emittenti che trasmettono con accesso condizionato
possono effettuare trasmissioni in chiaro sino a un massimo di due ore al
giorno durante le quali è consentito l'inserimento di forme di pubblicità o
di sponsorizzazione per un tempo non superiore al 5 per cento della durata
delle trasmissioni stesse. Comma 10: Le trasmissioni con accesso
condizionato sono disciplinate dal regolamento dell`Autorità che definisce:
a) gli avvenimenti politici scientifici, culturali e sportivi di particolare
rilevanza o di interesse generale i cui diritti non possono essere acquisiti
in esclusiva; b) gli avvenimenti di particolare rilevanza e interesse generale
che devono essere diffusi in chiaro in diretta o entro le ventiquattro ore
successive nel rispetto di quanto stabilito dal comma 9.
Ecco quindi il rimedio a situazioni come quella sorta a proposito della
cessione dei diritti sulle partite di calcio, che ha suscitato tante
polemiche: l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni può stabilire che
per determinati contenuti (evidentemente di interesse molto diffuso) non
possono essere acquisiti diritti in esclusiva e quindi il loro accesso non
può essere "condizionato". Per di più la stessa Autorità può
imporre la diffusione in chiaro, cioè l'accesso incondizionato, per
avenimenti di particolare rilevanza e di interesse generale. Ineccepibile,
almeno a prima vista.
Purtroppo lo spazio è quello che è, dobbiamo trascurare molti punti
interessanti e passare al ddl 1021, per vedere come viene regolamenta
l'emittenza televisiva nazionale. Se ne occupa l'art. 2, che si intitola
"divieto di posizioni dominanti". E' abbastanza strano che non ci
sia una indicazione "in positivo", come, per esempio "Norme per
l'emittenza televisiva a diffusione nazionale"; di fatto ci troviamo di
fronte a un complesso di disposizioni di estrema importanza, sottratte al loro
contesto e infilate a forza in un provvedimento di natura diversa, come
l'istituzione dell'Autorità.
Vediamo la sostanza, che è praticamente tutta nel comma 1: Nei settori
delle comunicazioni sonore e televisive, anche nelle forme evolutive,
realizzate con qualsiasi mezzo tecnico, della multimedialità, dell'editoria
anche elettronica e delle connesse fonti di finanziamento, è vietato
qualsiasi atto o comportamento avente per oggetto o per effetto la
costituzione dominante da parte di uno o più operatori del settore che,
impedendo l'espansione della libertà di pensiero e della libera formazione
delle opinioni, la diversificazione dell'offerta e il libero accesso ai
servizi, ovvero lo sviluppo di un sistema nazionale delle comunicazioni
adeguatamente efficiente e competitivo, possa eliminare o ridurre in modo
sostanziale il pluralismo e la concorrenza nel mercato di riferimento,
definito anche in ambiti territoriali.
Come si realizzano queste prescrizioni? Con una serie di azioni di controllo e
intervento da parte dell'Autorità e con una serie di limiti precisi. Il comma
6 stabilisce che ad uno stesso soggetto o a soggetti controllati da o
collegati a soggetti i quali a loro volta concessione in base ai criteri
individuati nella vigente normativa, non possono essere rilasciate concessioni
che consentano di irradiare più del 20 per cento dei programmi televisivi o
radiofonici, in ambito nazionale, trasmessi su frequenze terrestri, sulla base
del piano delle frequenze. Nel piano nazionale di assegnazione delle frequenze
l'Autorità fissa il numero dei programmi irradiabili in ambito nazionale e
locale, tenendo conto dell'evoluzione tecnologica e delle frequenze
pianificate secondo i seguenti criteri [...]. Ancora, il comma 8 prescrive
che Nell'esercizio dei propri poteri l'Autorità applica i seguenti
criteri: A) i soggetti destinatari di concessioni televisive in ambito
nazionale anche per il servizio pubblico, di autorizzazioni per trasmissioni
codificate in ambito nazionale, ovvero di entrambi i provvedimenti possono
raccogliere proventi per una quota non superiore al 30 per cento delle risorse
del settore televisivo in ambito nazionale riferito alle trasmissioni via
etere terrestre e codificate. I proventi di cui al precedente periodo sono
quelli derivanti da finanziamento del servizio pubblico al netto dei diritto
dell'Erario, nonchè da pubblicità, da spettanze per televendite e da
sponsorizzazioni, proventi da convenzioni con soggetti pubblici, ricavi da
offerta televisiva a pagamento, al lordo delle spettanze delle agenzie di
intermediazione. Il calcolo, per ciascun soggetto, dei ricavi derivanti da
offerta televisiva a pagamento è considerato nella misura del 50 per cento
per un periodo di tre anni a condizione che tale offerta sia effettuata
esclusivamente su cavo o da satellite; la quota di cui al primo periodo della
presente lettera non può essere superiore al 25 per cento qualora il
fatturato lordo complessivo dei soggetti autorizzati per trasmissioni
televisive a 20 per cento del fatturato globale del settore televisivo
nazionale [...] Vi risparmio il seguito, fatto di un intricatissimo e a
volte incomprensibile gioco di percentuali. La singolarità di questo testo è
nel fatto che non prescrive obblighi o limiti ai soggetti interessati, ma
raggiunge lo stesso risultato in maniera indiretta, elencando i criteri ai
quali deve attenersi l'Autorità nell'esercizio dei suoi compiti anti-trust.
Raramente la ben nota perversione dell'ingegneria legislativa italica ha
raggiunto questi abissi.
La "convergenza" è lontana
Bene, dirà qualcuno a questo punto, fino ad ora abbiamo parlato di
televisione. Ma i nuovi media, Internet e tutto il resto? Tranquilli: abbiamo
esaminato, per ovvii motivi di spazio, solo una piccola parte dei due disegni
di legge. Tutto il resto è... televisione! Anche via satellite, naturalmente,
e c'è anche un po' di radio. Tutto, o quasi tutto "il resto" è
sconosciuto o dimenticato dal legislatore.
Un esempio: l'articolo 10, comma 2, del ddl S1138 dice: Ai telegiornali e
ai giornali radio si applicano le norme sulla registrazione dei giornali e
periodici contenute negli articoli 5 e 6 della legge 8 febbraio 1948, n. 47. I
direttori dei telegiornali e dei giornali radio sono, a questo fine,
considerati direttori responsabili. Sembra una precisazione inutile,
perché le norme sulla stampa si applicano da anni anche ai tele e
radiogiornali. Ma è un'applicazione "di fatto", introdotta dalla
giurisprudenza, perché la legge sulla stampa, che risale al 1948, considera
solo tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi
meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione (art.1)
e non è mai stata modificata. Ma il problema non è estendere le norme sulla
stampa alla radio e alla TV, quanto ai nuovi media, e il disegno di legge non
se ne preoccupa. Ora è vero che i Tribunali accettano l'iscrizione delle
testate telematiche, con l'indicazione dei direttori responsabili, ma questa
iscrizione è efficace solo ai fini civilistici e amministrativi. Le norme
penali non possono essere applicate per analogia, e questo potrebbe
comportare, per esempio, l'impunibilità o la non incriminabilità del
direttore di un notiziario telematico per "omesso controllo" dei
contenuti della pubblicazione. In conseguenza del comma 2, i commi 3 e 4
applicano ai tele e radiogiornali l'obbligo di pubblicare le rettifiche di chiunque
si ritenga leso nel proprio interesse morale o materiale da produzioni
contenenti affermazioni contrarie a verità. Ma evidentemente il
legislatore non intende estendere quest'obbligo ai giornali pubblicati su
Internet...
Nei due disegni di legge le nuove tecnologie fanno capolino qua e là, per
esempio l'art. 2 comma 13 del 1021 dice che al fine di favorire la
progressiva affermazione delle nuove tecnologie trasmissive, ai destinatari di
concessioni radiotelevisive in chiaro su frequenze terrestri è consentita,
previa autorizzazione dell'Autorità, la trasmissione simultanea su altri
mezzi trasmissivi. Il che è decisamente troppo poco.
La lettura di testi come questi due disegne di legge fa nascere il sospetto
che i nostri governanti non abbiano la minima idea di quello che succede nel
mondo, che non abbiano contatti con i loro omologhi di altri paesi, che non
capiscano quali sono i settori dell'economia che saranno vitali nel prossimo
futuro. Molti fatti confermerebbero questa supposizione. Per esempio, si
discute tanto di disoccupazione, ma non si prende in considerazione la
possibilità di investire nelle tecnologie dell'informazione, soprattutto nei
contenuti, creando un'occupazione "nuova", strutturale e duratura.
Un altro esempio viene dalla crisi della maggiore industria nazionale del
settore, l'Olivetti, segnata dalle clamorose dimissioni di Carlo De Benedetti:
tutti gli esperti, primo fra tutti il nuovo amministratore delegato, sanno che
una parte non trascurabile delle difficoltà della casa di Ivrea dipende dal
settore dei PC, che rendono pochissimo anche alle aziende più efficienti e
che è impossibile produrre in Italia a prezzi concorrenziali con le industrie
orientali. Ma i sindacati fanno barriera: la fabbrica di Scarmagno non si
tocca, bisogna continuare a produrre PC. Si sono accorti questi signori che il
personal computer sta per essere sostituito, come prodotto di massa, dai
dispositivi per la TV digitale, via satellite prima e via cavo poi, e che in
Europa tra pochi mesi esploderà la domanda di decodificatori TV? Sono
prodotti ai quali una fabbrica di PC può essere convertita in tempi
relativamente brevi, la manodopera qualificata è la stessa. Si cita spesso
l'esempio degli Stati Uniti, dove negli ultimi tempi la disoccupazione è
sensibilmente diminuita. Ma non si dice che una parte non trascurabile dei
nuovi posti di lavoro è nata nel settore delle tecnologie dell'informazione,
spinte con estremo vigore dal duo Clinton-Gore con i grandi progetti delle
"superautostrade" lanciati tre anni fa.
Prima delle elezioni l'Ulivo aveva fatto circostanziate promesse sullo
sviluppo delle attività telematiche, come si ricorda nel riquadro in queste
pagine, ma non se ne trova traccia né nel programma di governo, né nei primi
provvedimenti concreti.
Il diritto all'informazione
Il fatto è che manca una visione globale dei problemi, manca, come dire? il
colpo d'ala, il progetto coinvolgente che possa coagulare le energie del paese
in una direzione precisa. E' necessario rendersi conto che il cambiamento
socio-economico determinato dalla diffusione inarrestabile delle tecnologie
dell'informazione richiede una visione innovativa anche dell'azione politica,
e quindi legislativa.
Forse nessuno ha osservato che nel modello socio-economico che si sta
sviluppando è fondamentale un diritto mai sancito formalmente: il diritto
all'informazione. In mancanza di una definizione giuridica di questo diritto,
tutte le norme sul diritto di accesso, sul servizio universale,
sull'informazione pubblica, sono destinate a restare sospese in aria. Se si
stabilisse, con norme di legge, in che cosa consiste il diritto
all'informazione, allora si potrebbe definire il servizio universale, che è
il reciproco del diritto all'informazione. Cioè "il dovere di
informare".
La Costituzione italiana, come molte altre Carte fondamentali, sancisce con
l'articolo 21 il diritto di esprimere le proprie opinioni e la libertà di
stampa. Ma non prevede il diritto di conoscere le opinioni degli altri e
nemmeno i fatti che possono essere considerati di interesse pubblico. Insomma,
contrariamentea molti altri diritti, quello relativo alla libertà di
espressione non ha il corrispettivo di un dovere, il dovere di informare.
L'articolo 38, per esempio, dopo aver stabilito che Ogni cittadino inabile
al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha il diritto al
mantenimento e all'assistenza sociale [...] pone un obbligo a carico dello
Stato: Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi o istituti
predisposti o integrati dallo Stato.
Vediamo un altro punto molto significativo: l'articolo 54 della Costituzione
dice che Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica
e di osservarne la Costituzione e le leggi. Ma nessuna norma
costituzionale afferma che i cittadini hanno il diritto di conoscere le leggi!
E' vero che i testi di legge non sono soggetti a copyright, come
afferma l'art. 5 della legge n. 633 del 22 aprile 1941 sul diritto d'autore,
ma la conseguenza di questa "libertà di copia" è singolare: sui
testi normativi lucrano vistosamente gli editori che pubblicano raccolte
legislative variamente articolate e commentate.
Se fosse stabilito, con norme di carattere generale, il diritto dei cittadini
di essere informati, sarebbe possibile anche dettare norme per il diritto di
accesso all'informazione, da distinguere in diritto di accesso alle reti e
diritto di accesso ai contenuti. E quindi definire il servizio universale come
l'obbligo dello Stato (che può rispettarlo anche attraverso i privati) di
soddisfare questi diritti. Si potrebbe elencare un insieme minimo di
informazioni che non può essere sottoposto a canoni o costi di accesso. In
questa prospettiva si potrebbe risolvere la questione, sempre elusa nei suoi
termini sostanziali e formali, dei compiti del servizio pubblico
radiotelevisivo. Con conseguenze destabilizzanti anche per il nuovo assetto
del sistema, perché il canone dovuto alla Rai potrebbe rivelarsi illegittimo.
Infatti, se l'ente avesse il compito esplicito di fornire a tutti i cittadini
le informazioni a cui essi hanno diritto, i suoi costi dovrebbero essere posti
a carico della collettività, cioè dovrebbero essere una piccola tassa pagata
da tutti.
Rivoluzionario? Ma siamo o non siamo in mezzo a quella che tutti chiamano
"rivoluzione multimediale"? Forse no, non ci siamo. Altrimenti non
continueremmo a perdere tempo con leggi insufficienti, disarticolate e
addirittura fatte a pezzi fin dal concepimento, come quelle in discussione
oggi. Leggi che sembrano, ancora una volta, scritte per accontentare qualcuno
e non scontentare nessuno, invece che per l'interesse comune della
collettività.
[Riquadrato]
"...una tariffa ridotta per gli usi
telematici..." firmato Cyber-Prodi
L'intervento di Walter Veltroni, vide presidente del
Condiglio, al Summit della comunicazione nello scorso mese di luglio, aveva
aperto molte speranze: vuoi vedere che finalmente abbiamo un Governo che ha
capito quali strade si devono percorrere per portare l'Italia nella società
dell'informazione? Ma nelle azioni dell'Esecutivo non c'è traccia di quelle
buone intenzioni.
Le telecomunicazioni sono davvero la grande sfida del terzo millennio. Una
sfida politica, prima ancora che finanziaria o tecnologica, che solo nuove
menti davvero europee potranno affrontare e vincere. Si apre così
un'intervista a Romano Prodi pubblicata su la Repubblica il 26 maggio
1994, prima che si incominciasse a parlare di lui come possibile leader di una
formazione politica. La data è quella della presentazione del rapporto del
gruppo di "eminenti personalità" guidate da Martin Bangemann, del
quale Prodi faceva parte.
L'argomento compariva poi nelle "Tesi" n. 51 e 52 del programma
iniziale dell'Ulivo: Società dell'informazione significa innanzitutto
nuove possibilità per gli individui di formarsi, divertirsi, comunicare tra
loro in un ambito sempre più aperto al mondo... Il settore delle
telecomunicazioni già oggi si sta rapidamente integrando con quello dell’informatica
e rappresenta uno dei principali pilastri del progetto di forte ripresa del
paese...
Poi sono arrivati "Cyber-Prodi", l'Ulivo sul World Wide Web e,
poco prima delle elezioni, un "Patto per la telematica" e un
documento intitolato ""Società delle comunicazioni e mercato
globale": Le comunicazioni propongono una nuova questione sociale: è
necessario evitare una ulteriore divisione tra chi è provvisto di conoscenze
adeguate e chi è, e sarà, sempre più emarginato dai nuovi saperi... Piano
di alfabetizzazione collegato con lo sviluppo delle reti civiche già
realizzate da molti comuni italiani, e la diffusione nelle scuole...
Istituzione di una tariffa ridotta per gli usi telematici... Il paese deve
investire nella creatività... E' necessario essere ben coscienti e realistici
sul ritardo nella diffusione di Internet...
"Navigando" su Internet si incontra qualcuno che fa promesse... da
marinaio. Promesse che possono essere rilette alle URL: http://www.krenet.it/ForumProdi/tesipro/main.htm,
http://www/ulivo.it/notizie/ulivo-news/0060.html e http://www/ulivo.it/doc/rete.html).
[Riquadrato]
Sesso & TV
Il disegno di legge S1138 regolamenta anche la trasmissione
dei contenuti che gli americani definiscono "indecenti", cioè tutto
ciò che va dalle produzioni cinematografiche vietate ai minori alla
pornografia, senza dimenticare le rappresentazioni di violenza (ma su questo
punto sarebbero necessarie norme più complete). Comma 7: È vietata la
diffusione in chiaro di produzioni idonee a nuocere allo sviluppo psichico o
morale dei minori, che contengano scene di violenza gratuita o pornografiche,
che inducano ad atteggiamenti di intolleranza basati su discriminazioni di
razza, sesso, religione o nazionalità. Comma 8: I film vietati ai
minori di anni quattordici possono essere diffusi in chiaro nella fascia
oraria compresa fra le ore 22,30 e le ore 7. Comma 10: È consentita la
diffusione in chiaro nella fascia oraria compresa fra le ore 22,30 e le ore 7
di film vietati ai minori di anni diciotto che abbiano ottenuto il
riconoscimento di opera di «interesse culturale e nazionale» dall'apposita
commissione ministeriale [...].
Non si parla di "Censor chip" da inserire nei televisori, come ngli
USA, ma nel complesso le norme appaiono equilibrate. Non c'è un'effettiva
censura: qualsiasi contenuto può essere trasmesso in codice, e questo
consente ai genitori di inibire ai figli la visione di certi programmi.
Libertà di sesso e protezione dei minori sono assicurate. Se si adottassero
(non solo in Italia, naturalmente) regole di questo tipo anche per Internet,
certe polemiche potrebbero finire. |