Nomi a dominio, il
Tribunale di Firenze aumenta la confusione
di Andrea Monti - 19.07.2000
Con l'ordinanza
del 29 giugno scorso, emanata dal Tribunale di Firenze nel procedimento
cautelare Sabena vs A&A di Castellani A. si registra un'inversione di
tendenza (ma una rondine non fa primavera) nell'orientamento giurisprudenziale
praticamente uniforme che stabilisce l'applicabilità della legge marchi ai
casi di domain grabbing. Secondo il giudice toscano la corrispondenza
marchio-dominio, non è un bene assoluto, non è un valore assoluto e,
soprattutto, non è un principio positivamente sancito nel nostro ordinamento, e
pertanto che la funzione del Domain name
System sia quella di consentire a chiunque di raggiungere una pagina web e, in
quanto mezzo operativo e tecnico-logico, non può porsi per esso un problema di
violazione del marchio di impresa, della sua denominazione o dei suoi segni
distintivi.
Questa decisione, pur coraggiosa, non appare
condivisibile.
Preliminarmente, bisogna rilevare la persistenza di alcuni equivoci culturali
che paiono avere inevitabilmente condizionato la decisione finale.
Non vi è dubbio si legge nel provvedimento che, in quanto genericamente
attività umana, anche la produzione e presentazione di pagine o siti sul web
non sfugga a regole dell'ordinamento giuridico. In altri termini, il
giudicante ha tout-court equiparato l'internet al web e ai contenuti
che per il tramite di questa tecnologia vengono veicolati, trascurando che ci
sono altri impieghi meno "appariscenti" ma non per questo meno lesivi
di situazioni giuridiche soggettive (posta elettronica, ftp etc.).
Altro presupposto tecnicamento non corretto è
considerare lo stesso domain name, traduzione in qualche modo testuale dell'IP
number. Questo non è vero, perché il dominio non ha alcun tipo di
corrispondenza necessitata con il numero IP, ed è proprio l'arbitrarietà con
la quale viene determinato a porre problemi di tutela di posizioni giuridiche
soggettive.
Altra carenza del provvedimento sta nel non aver tenuto presente che i termini
della questione non sono quelli dell'equiparazione del nome a dominio con il
marchio, ma quelli dell'applicabilità di una certa disciplina (la legge
marchi, nel caso di specie) ad una modalità di spendita del segno distintivo.
Che è cosa ben diversa.
In definitiva, il ragionamento del giudicante si
basa su un assunto - anche questo non reperito nel nostro ordinamento, al
meglio delle conoscenze di chi scrive - secondo il quale per un mezzo
operativo e tecnico-logico, non può porsi per esso un problema di violazione
del marchio di impresa, della sua denominazione o dei suoi segni distintivi.
Quasi a sancire una sorta di "immunità" della tecnologia che in nome
della propria sopravvivenza sarebbe autorizzata a porsi al di fuori della legge.
In una prospettiva culturalmente più ampia,
forse è proprio questo orientamento il più preoccupante, specie se lo si
dovesse affermare a proposito di situazioni limite come la manipolazione
genetica. |