Rey: quale innovazione per la pubblica amministrazione?
Intervista di Manlio Cammarata - 12.06.03
Guido M. Rey è ritornato ai suoi studenti della facoltà di Economia
dell'Università di Roma 3, ma non perde di vista il mondo del quale per tanto
tempo è stato molto più che un testimone, prima come presidente dell'ISTAT e
poi dell'AIPA. Dunque può essere molto istruttivo ascoltare il suo punto di
vista sull'adozione delle tecnologie nella pubblica amministrazione, sul
discusso passaggio dall'Autorità per l'informatica all'Agenzia per
l'innovazione, sull'open source. e su molti altri problemi sempre aperti.
D. Professor Rey, dieci anni fa nasceva l'Autorità per
l'informatica nella pubblica amministrazione. Lei l'ha guidata per otto anni,
proprio quelli in cui l'innovazione tecnologica ha compiuto il grande salto
verso quella che chiamiamo "società dell'informazione". E' un
passaggio che può in qualche modo dirsi compiuto o ci sono ancora difficoltà
e ritardi, in particolare nella pubblica amministrazione?
R. Confermo quello che ho sempre detto: il passaggio alla società dell'informazione
è appena iniziato ed incontra in Italia notevoli ostacoli, ma non è vero che
la PA sia in ritardo rispetto al settore privato. Non ho capito perché
bisogna far passare l'idea che la pubblica amministrazione sia composta da
persone incapaci, scarsamente professionali, e si confronti con un settore
privato di capaci, intelligenti, organizzati, preparati, motivati. Il problema
vero oggi è il settore privato, che non ha ancora capito quali sono gli
sviluppi che potrà avere la società dell'informazione e che quindi cerca di
ottenere degli aiuti pubblici per poter superare una situazione di crisi. Ma
non sono sicuro che questi aiuti siano destinati all'innovazione. E'
fisiologico, in queste fasi di sviluppo, avere un momento di riflessione,
poiché non sono chiare le prospettive. Non mi meraviglio e tanto meno mi
scandalizzo, ma pensare che la pubblica amministrazione possa risolvere questa
situazione è sbagliato, specie se non sono chiari gli obiettivi dell'intervento
e i beneficiari degli aiuti. Elargire risorse in mancanza di una strategia
rischia di risolversi in benefici per pochi senza risultati per molti.
D. Comunque negli ultimi anni la pubblica amministrazione si è
mossa, ha introdotto qualche innovazione, incomincia a offrire servizi in
rete.
R. Dare i servizi in rete, sì, ammesso che sia possibile farlo in
generale, finora ne hanno tratto vantaggio i commercialisti, i tabaccai, le
agenzie di pratiche automobilistiche, i patronati, ossia gli intermediari fra
privati e amministrazioni; cioè si risolvono i problemi degli intermediari
con le amministrazioni centrali, ma il cittadino, l'impresa, se ne
avvantaggiano poco. E' una specie di integrazione gestionale delle
amministrazioni, che riducono il costo e migliorano la qualità dell'informazione.
Meglio di niente, ma non è così che crescono la società dell'informazione e
le imprese in rete.
D. Sono le imprese, di solito, che accusano la pubblica
amministrazione di essere in ritardo, di frenare l'innovazione. Invece mi
sembra di capire che lei vede le carenze più nel settore privato che in
quello pubblico. Forse la mancanza di esperti, o l'insufficienza della
formazione.
R. Le carenze sono tante. Anche quando ero all'AIPA c'erano difficoltà
a trovare degli esperti che fossero in grado di conoscere gli aspetti
tecnologici ed organizzativi collegati all'uso strategico delle reti. La
ragione è molto semplice: non siamo più un paese di produttori, ma siamo
diventati un paese di commercianti di informatica e le statistiche industriali
e quelle del commercio estero confermano la mia affermazione. Il commerciante
non deve essere un esperto di quali sono le tecnologie che confluiscono nella
macchina, magari esagera nel descrivere le prestazioni e se riesce a venderla
ha successo, ma non sempre pensa al cliente, pubblico o privato, che poi si
trova in difficoltà. Abbiamo perso la componente industriale che è dietro il
nostro settore e siamo rimasti venditori di tecnologie, dei bravissimi
venditori, visto il successo che hanno i nostri manager a livello europeo. Non
è un problema di intelligenza, di preparazione, semplicemente facciamo, come
sistema Paese, un altro mestiere. E non mancano le preoccupazioni per queste
scelte allocative, sulle quali si sofferma anche il governatore della Banca
d'Italia nella sua relazione.
D. Ma forse c'è anche un problema di investimenti. Oggi, dopo le
bastonature della cosiddetta new economy, i privati non sembrano molto
propensi a investire, a parte il fatto che in questo momento sembra che i
soldi proprio non ci siano.
R. I soldi ci sono e costano anche poco, ma non si investono nel
settore, e si spendono, al massimo, per farsi pubblicità, con quattro soldi
per una sponsorship, Le imprese non si pongono il problema della
formazione continua, dell'integrazione fra tecnologia, economia e gestione
aziendale, che sono gli aspetti basilari. Lo fanno fare all'università, e se
l'università ha soldi, risorse e entusiasmo per farlo, bene, altrimenti si
aspettano risorse dal bilancio pubblico (comunitario, statale, regionale,
eccetera). Ma se queste risorse non si coordinano con le esigenze delle
imprese sono soldi sprecati e soprattutto si rischia di aggravare il divario
Nord-Sud.
D. Eppure sembra che si faccia molta formazione. Oggi da tutte le
parti si fanno master anche per attività connesse alle tecnologie, in genere
attingendo a fondi comunitari. Ma, a parte alcune iniziative in ambito
universitario, c'è un livello medio tutt'altro che soddisfacente, con docenti
a loro volta che non sembrano al massimo della preparazione, ma sono
bravissimi a vendere se stessi come "esperti".
R. Chiacchiere. Non c'è un vero interesse per la formazione. C'è una
totale carenza di professionalità e nello stesso tempo abbiamo disoccupazione
anche nei settori di punta dell'ICT. Non si può fare formazione senza una
coerente sinergia fra pubblico e privato. L'AIPA di persone ne ha preparate
molte e bene, ma il punto debole era che quando rientravano nei loro uffici
tutto continuava come se non ci fosse stato questo salto qualitativo. Lascio
ad ognuno immaginare di chi fosse la colpa di questo spreco formativo.
D. L'AIPA ha avuto un ruolo importante in diversi settori, ma è
stata ed è oggetto di critiche. La si è accusata, fra l'altro di aver
imposto regole tecniche che limitano il mercato.
R. Le regole tecniche sono importanti, ma noi italiani non siamo in
grado di imporre regole tecniche, non abbiamo la dimensione per farlo. Il
punto vero è capire quali sono regole tecniche che hanno rilevanza per tutti,
perché non distorcono il mercato, perché hanno la possibilità di essere
aperte e di rispondere effettivamente alle esigenze della rete. Invece spesso
le regole sono imposte dal più forte, dal più prepotente, che in effetti è
il più potente, ma può darsi che ci sia di meglio, oppure che la regola
imposta sia sconfessata dal progresso tecnologico.
D. Però dobbiamo distinguere tra regole tecniche in senso stretto,
cioè in sostanza gli standard industriali, e le regole tecniche in senso
"politico", come segnali per una strategia. Quindi, in ultima
analisi, quelle che si devono fare sono regole giuridiche con contenuti
tecnici.
R. Evidentemente queste valutazioni non sono decisioni politiche, ma
certamente hanno profondi riflessi politici. Perché implicano una società
aperta, una società consapevole delle scelte che fa, che non corre dietro
alle ultime novità, ma è anche in grado di saper aspettare per valutare le
prospettive di sviluppo . Questo compito spetta ad un'autorità indipendente
e professionalmente avanzata, che sia in grado di suggerire soluzioni
tecnologiche accettate anche a livello internazionale, come è stata a suo
tempo la scelta per la RUPA.
Questo discorso o lo fai con dei grossi esperti e li paghi adeguatamente, o ti
trovi con i discorsi tipo "il tè è di sinistra, il caffè è di destra,
la doccia è di sinistra e la vasca da bagno è di destra". Allora la
tecnologia A è di sinistra e la tecnologia B è di destra, la intranet è di
destra e la extranet è di sinistra, queste sono le cose allucinanti che
purtroppo ho sentito. Ci sono politici che cavalcano delle soluzioni tecniche
senza capirne neanche lontanamente la rilevanza economica, sociale e politica,
e la loro unica preoccupazione diventa quella di avere cosiddetti esperti
fedeli, ma senza pagarli, perché intanto le professionalità sono nei
fornitori.
D. Ma i politici non possono sapere tutto, dicono quello che viene
loro suggerito dai consulenti. I quali troppo spesso sono scelti per il loro
"colore" più che per l'effettiva competenza. E per di più, come la
moneta cattiva scaccia quella buona, i finti esperti tengono alla larga quelli
veri, quando ci sono. Ma torniamo alla questione delle regole tecniche e a chi
le deve dettare.
R. Penso che il problema delle regole tecniche debba trovare una
soluzione in un discorso istituzionale. Deve essere fatto da una struttura
autonoma, dotata appunto di "autorità", perché se lo lasciamo fare
da una struttura operativa, questa cerca di risolvere il suo problema nel
breve periodo. Le decisioni sulle regole tecniche, che devono essere applicate
erga omnes, nella società dell'informazione hanno un impatto non
inferiore alle norme giuridiche. Questa mancanza di sensibilità è un altro
ostacolo alla diffusione della società dell'informazione.
Se l'organismo che prende le decisioni non ha autorità, entra in conflitto
col Ministero dell'economia, col Ministero delle comunicazioni, con la Sogei
che dice "ho delle magnifiche soluzioni", entra in conflitto con
chiunque abbia dei problemi e cerchi di risolverli, e si disinteressa degli
interessi collettivi.
D. Forse questo è vero a certi livelli. Ma anche qui è un problema
di preparazione e di conoscenza da parte della politica, perché a livello
tecnico ci sono moltissime persone che credono realmente all'importanza e alla
convenienza dei sistemi aperti.
R. Certo, e non ho dubbi che ci creda Angelo Raffaele Meo, non ho dubbi
che molti colleghi delle università credano nell'importanza delle regole
tecniche per limitare il potere dei grandi fornitori di tecnologie. Sto
parlando di industrie, di centri di potere, di persone che si pongono o non si
pongono il problema. Vedo, tanto per non fare nomi, il Presidente del
consiglio che ritiene fondamentale chiedere a Bill Gates qual è il futuro
dell'e-government in Italia (ma anche Bassanini a suo tempo, lo ha fatto) e
questo è un segnale distorto che viene fornito al mercato e alle
amministrazioni. La formula corretta è chiedere a tutti e valutare tutte le
soluzioni, ma torniamo al tema delle professionalità.
D. Aggiungiamo le proposte sulla brevettabilità del software.
R. Nella società dell'informazione, la rete, internet, tutti
dialogano, tutti parlano. e poi basta un brevetto per frenare il dialogo. Il
brevetto va qualificato con regole che tengano conto non solo degli interessi
dei produttori ma anche degli interessi degli sviluppatori e degli
utilizzatori!
Ma c'è un altro aspetto di questa discussione, che riguarda anche il
Ministero delle attività produttive: con i sistemi aperti c'è spazio per
un'industria nazionale purché vi sia una strategia che non scarichi sugli
utilizzatori, o peggio sulle amministrazioni pubbliche, i rischi derivanti
dallo sviluppo di queste soluzioni. Paradossalmente, una soluzione aperta, che
riesca ad aprire delle soluzioni che partono come chiuse, effettivamente apre
un mercato di grande portata. Certo meglio che andare a vendere due pezzi di
lamiera e un software nei paesi sottosviluppati, che forse non sanno neanche
che cosa farsene. Dovremmo avere la capacità di sviluppare questo tipo di
soluzioni , che accentuerebbero la nostra presenza, il nostro ruolo anche
all'estero.
Devo confessare che a suo tempo avevo chiesto di acquisire il centro di
ricerche di Pozzuoli, nel quale concentrare la ricerca di soluzioni
interessanti per la pubblica amministrazione. Mi hanno chiesto: "Ma
quanti soldi hai?". Ed è finita lì, anche perché la mia priorità era
la diffusione dell'ICT nelle amministrazioni pubbliche centrali.
D. Forse non era solo una questione di soldi. Un'operazione del
genere avrebbe infastidito qualche "centro di potere".
R. Secondo me era proprio perché non capivano. Non riuscivano a capire
qual è il ruolo del settore pubblico nell'ICT. Alcuni vedevano il settore
pubblico in concorrenza col settore privato mentre molti ritenevano (e
ritengono) che dovesse essere ancillare. Entrambe le visioni sono sbagliate
perché il settore pubblico deve essere integrato e promotore della crescita
del sistema Italia. Purtroppo la nostra industria ha sempre chiesto soldi e ha
sempre detto "poi ci pensiamo noi". Come ci hanno pensato, lasciamo
perdere.
D. E a questo punto, che fare?
R. Io continuo a pensare che sia importante avere un'autorità
indipendente. Su questo non ho dubbi. Un'autorità indipendente che abbia
anche la capacità di valutare alcuni progetti regionali che hanno valenza
nazionale, quindi un'autorità a tutto campo. La seconda cosa sulla quale non
ho dubbi è la necessità di una stretta integrazione con i centri di ricerca,
e noi l'abbiamo avuta. Si possono ottenere risultati molto importanti e
interessanti con l'università.
Nello stesso tempo devo dire che è bene che l'autorità non sia formata
soltanto da tecnici, ci devono essere anche altre competenze. Provavo e provo
sconforto quando sento dire che il problema delle autorità è quello degli
stipendi e non quello della professionalità ed indipendenza, perché
significa negare uno spazio professionale adeguato per gli esperti nell'ambito
delle amministrazioni pubbliche. Che queste affermazioni le facciano i
giuristi lo capisco, perché sono imperialisti, mentre mi è incomprensibile
quando queste affermazioni le fanno gli esperti del settore. Ma forse sono
quelli del settore privato che temono la concorrenza.
E' utile per l'industria nazionale avere una pubblica amministrazione forte e
consapevole, in grado di valutare e selezionare l'offerta e di spingere
l'industria sui sentieri di innovazione. Penso che questo valga anche a
livello europeo (e ritorno al tema della dimensione di mercato) per la
definizione delle regole tecniche, ma senza che le amministrazioni siano
passive nella individuazione delle regole stesse .
D. Questo riporta alla memoria la situazione che c'era prima
dell'AIPA, quando la Commissione per l'informatica del Dipartimento della
funzione pubblica organizzava le "Conferenze sugli standard" e ogni
industria si presentava per dire "lo standard sono io, il problema lo
risolvo io". Il merito dell'AIPA è stato proprio quello di sottrarre la
PA alla dittatura dei fornitori.
R. E sarebbe sbagliato perdere questo vantaggio, questa corretta
definizione dei rapporti e di rispetto delle posizioni reciproche fra pubblico
e privato. C'è l'idea che la pubblica amministrazione curi un interesse
collettivo generale, superiore, ma tutte le burocrazie hanno una loro
strategia, che sovente genera conflitto, per cui ci deve essere un terzo che
lo risolve, altrimenti vince sempre il più forte. E non è detto che sia
anche il più intelligente e capace. Se l'autorità ha un senso, è proprio
quello di dimostrare di non avere un interesse particolare da difendere,
perché nel momento in cui dovesse sfruttare il suo potere sarebbe finita,
sarebbe finita la sua "terzietà".
D. Forse possiamo considerare la questione da un punto di vista
diverso. L'AIPA è nata quando non c'era il Dipartimento per l'innovazione,
che non può non assorbirne i compiti "politici", in particolare
nella prospettiva dell'e-government. All'Autorità resterebbero compiti
puramente tecnici.
R. La mia risposta precedente assegna ad ognuno i propri compiti e fra
questi non ci sono compiti politici per l'autorità. Ma i problemi
dell'e-government sono soprattutto problemi organizzativi, che richiedono
esperienza e professionalità, altrimenti si continuano ad affidare studi e
ricerche a consulenti, più o meno organizzativi, o a due o tre grandi firme
mondiali, che ovviamente di tutto sanno eccetto che di pubblica
amministrazione italiana. Ma elaborano soluzioni standard (perché la forza di
queste grandi società di consulenza è quella di offrire un prodotto
standard), e se quel prodotto non si adatta alla situazione italiana non si
preoccupano perché, intanto, l'hanno venduto, come i venditori di soluzioni
informatiche.
Di questi studi sono pieni i ministeri, a cominciare dal Ministero della
giustizia, per passare alla Presidenza del Consiglio, eccetera. Avere
un'autorità che svolga quest'azione di "traduzione", di adeguamento
informatico-organizzativo, per me è fondamentale. E non basta un'agenzia
strettamente tecnologica, perché occorre una struttura con una forte
componente organizzativa e di disegno dei processi, che non venda soluzioni,
ma aiuti a prendere decisioni. Basta questo esempio per richiamare i conflitti
citati in precedenza e pretendere che il Dipartimento della funzione pubblica
affronti questi temi senza invadere il campo delle tecnologie.
D. Proprio quello che lei diceva nella prima intervista che le ho
fatto, nel '94, se non ricordo male.
R. Ne sono ancora assolutamente convinto. Però i nuovi strateghi della
società dell'informazione sembrano convinti che, avendo la rete (e quella c'è),
basta dotare il cittadino di una smart card, e poi qualcuno, dall'altra parte
della rete, troverà i servizi. Ma che cosa ci raccontano?
D. Quale smart card? La carta d'identità elettronica, la carta dei
servizi, il dispositivo di firma digitale? C'è una confusione incredibile.
C'è chi vuole mettere tutto sullo stesso supporto, senza tener conto delle
complicazioni della gestione da parte di tanti enti, e soprattutto del fatto
che se uno perde la carta, o la carta si guasta, il poveretto resta senza
identità. Però c'è anche chi vuole aggiungere altre carte.
D. Una volta si offrivano le grandi macchine, poi i PC, poi i servizi,
adesso le smart card. Questa è l'evoluzione, il progresso tecnologico, senza
rispetto per le esigenze dei cittadini e delle imprese! |