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Pubblica amministrazione e open source

Se la risposta è già nella domanda
di Guido Scorza - 28.11.02

Attraverso un laconico comunicato stampa del Dipartimento per l'innovazione e le tecnologie del 9 novembre scorso abbiamo appreso che con decreto del 31 ottobre, il ministro Lucio Stanca, ha istituito la "Commissione per l'open source nella PA", come si riferisce nell'intestazione di detto comunicato o, piuttosto, quella "per il software a codice sorgente aperto nella pubblica amministrazione" come riportato nel corpo del testo.

Sul bisticcio definitorio non voglio soffermarmi in questa sede per non distrarre i lettori dal vero problema e, quindi, mi limito solo a rilevare che, non sempre, le questioni definitorie sono di importanza trascurabile.e che se "codice sorgente aperto" vuol dire semplicemente "trasparente" - interpretazione che condividerei ma non ritengo sia quella voluta dagli estensori del decreto - allora la neo istituita commissione dovrà occuparsi anche di tutti quei software "proprietari" i cui titolari dei relativi diritti d'autore, si sono già dichiarati disponibili a consegnare i codici sorgenti alla pubblica amministrazione al solo scopo di consentirne un esame attento ed approfondito.

Tra questi, tanto per non fare nomi ma. solo cognomi. dovremmo includere anche Microsoft che con il suo Government Security Program riconosce alla pubblica amministrazione proprio tali diritti.

La circostanza che il Dipartimento di Stanca abbia deciso di farsi carico dei problemi legati alle scelte informatiche della pubblica amministrazione, tra l'altro, attraverso l'istituzione di una commissione che se ben comprendo quanto si legge nel comunicato (auspicare la pubblicazione del decreto per esteso nell'era della società dell'informazione e sulle pagine del Dipartimento per l'innovazione è evidentemente eccessivo) è nata con l'obiettivo di migliorare l'efficienza e l'efficacia dell'apparato statale e di garantire un maggior contenimento dei costi negli acquisti di software, non può che essere salutata con favore.

Troppo a lungo, infatti, per incompetenza, scarsa attenzione alle questioni dell'informatica ed alle tendenze dell'industria e del mercato del settore nonché per certe logiche di tipo clientelare - nonostante gli sforzi effettuati in sede AIPA - le scelte della PA.in relazione all'acquisto di beni e servizi informatici sono rimaste affidate alla buona volontà dei dirigenti dei singoli uffici quando non addirittura al caso.
La bontà dell'iniziativa, tuttavia, rischia di essere inficiata dalla sua attuazione che, a mio avviso, solleva, purtroppo, alcune preoccupazioni di metodo e di stile.

Cominciamo dal titolo. Pur a prescindere dal bisticcio definitorio cui già si è fatto cenno, se, effettivamente, la commissione, come par di capire dal comunicato stampa, dovrà fornire alla PA suggerimenti e consigli per l'effettuazione di scelte più oculate e conformi ai principi cui, da sempre, deve ispirarsi l'azione della pubblica amministrazione (efficienza, efficacia, economicità ecc.) in materia di software allora, sarebbe stato, probabilmente, metodologicamente più corretto intitolarla "Commissione per il buon software nella pubblica Amministrazione" o, piuttosto "commissione per la sicurezza, il contenimento dei costi e l'efficienza del software nella pubblica amministrazione".

Meglio sarebbe stato, in altre parole, evitare di sottoporre ai membri di una commissione una domanda la cui risposta è nel nome stesso della commissione della quale sono chiamati a far parte.
Fuori dalle righe, nel nostro caso, la domanda è, evidentemente se il software open source sia effettivamente in grado di assicurare alla PA maggiori garanzie in termini di sicurezza, contenimento dei costi e efficienza rispetto alle corrispondenti soluzioni "proprietarie" e la risposta - peraltro già abbondantemente annunciata nelle "linee guida" pubblicate dal Dipartimento nel giugno scorso - che si vorrebbe fosse data è evidentemente positiva.

Non sono mai stato e non vorrei apparirlo neppure in questa sede troppo attaccato alle parole ma, in alcune occasioni, la forma è sostanza e dietro la scelta di un'espressione spesso si cela la conclusione di un ragionamento che non si vuol far apparire come già esaurito ma non dispiace traspaia come tale.
D'altra parte anche se la commissione fosse stata istituita semplicemente allo scopo di studiare e valutare se l'open source costituisca o meno la soluzione ideale per migliorare l'efficienza, efficacia ed economicità delle scelte informatiche della pubblica amministrazione, allora, a tutto voler concedere, avrebbe dovuto essere chiamata "Commissione sull'open source nella PA" e non "Commissione per l'open source nella PA".

La locuzione "per" nella lingua italiana ha un significato univoco e sta ad indicare un fine, un obiettivo, una direzione o un risultato al quale si tende o che, comunque, ci si prefigge.
Al riguardo il problema, come è noto ai molti amici e colleghi con i quali negli ultimi mesi ci siamo trovati a confrontarci su queste tematiche in diversi convegni, conferenze ed incontri, è costituito dalla circostanza che il risultato del confronto tra modello open source e modello "proprietario" in ambito pubblico e privato, non è affatto scontato come la definizione della commissione indurrebbe a ritenere.

Da un lato, infatti, gli studi economici e tecnici sino a questo momento svolti a livello nazionale, europeo ed internazionale non sono pervenuti a conclusioni univoche circa la maggior sicurezza ed economicità delle soluzioni open rispetto a quelle proprietarie e, anzi, in molte occasioni sono giunti a conclusioni opposte o, comunque, hanno pronunciato un "verdetto" di sostanziale equivalenza tra le due soluzioni.

Dall'altro la comunità scientifica (soprattutto quella di giuristi ed economisti) ritengo non abbia ancora valutato a fondo quali possano essere le conseguenze di un'adozione diffusa del modello di circolazione dei diritti che caratterizza il software open source (e quello "libero") in relazione ad un aspetto che, in realtà, dovrebbe stare particolarmente a cuore proprio al Dipartimento presieduto da Lucio Stanca: quello degli effetti di tale scelta sul versante del progresso scientifico e tecnologico.

Nel mondo del software OS (e di quello "libero"), infatti, si propone un modello di "motivazione" alla creazione di nuovo codice sensibilmente diverso rispetto a quello caratteristico del sistema tradizionale della proprietà intellettuale ed industriale di remunerazione economica diretta per lo sforzo creativo/inventivo sostenuto; il dubbio, al riguardo, è che tale modello alternativo, possa finire con il frenare, rallentare o distorcere l'innovazione nel settore informatico.

Pur tralasciando poi ogni aspetto definitorio, anche il contenutissimo lasso di tempo assegnato ai super esperti per ultimare i lavori della neo istituita commissione lascia piuttosto perplessi e fa sorgere una domanda: volontà di rompere il pluridecennale costume italico di commissioni in seduta permanente da anni o, piuttosto, esigenza di disporre di un illuminato ma non illuminante parere al più presto?

Mi auguro, ovviamente, che la risposta corretta sia la prima delle due e che, quindi, il termine di tre mesi sia stato dettato unicamente dall'intento - in questo caso apprezzabile - del Ministro di non creare una ulteriore lenta ed elefantiaca struttura all'italiana e da una - certamente perdonabile - sottovalutazione dei reali problemi e delle complesse questioni giuridiche, economiche e culturali sottese alla tematica della quale la commissione dovrà occuparsi.

Appare, infatti, difficile credere che gli esperti nominati dal Ministro sulla cui competenza - almeno su quella del presidente Meo, come si dirà più avanti, unico nominativo reso disponibile - non vi è ragione di dubitare riescano a risolvere in un così breve intervallo di tempo questioni sulle quali l'intera comunità scientifica, le istituzioni dell'Unione europea e quelle di tutti i Paesi industrializzati si interrogano, in maniera insistente, ormai da diversi anni.

Negli ultimi tempi, infatti, proprio grazie al movimento per il software libero ed open source, nel mondo giuridico ed economico si è riacceso un dibattito che dopo la direttiva 91/250/CE sulla tutela giuridica del software ai sensi della legge sul diritto d'autore ed il decreto legislativo 518/92 di attuazione, sembrava ormai sopito: quello sulla disciplina giuridica dei programmi per elaboratore ovvero sulla ricerca di una soluzione giuridica che fosse in grado di contemperare i molteplici interessi (degli utenti, dell'industria e del progresso) che convergono e si scontrano in materia di circolazione dei diritti e sul regime delle esclusive in materia di software.

E veniamo ora all'ultima delle perplessità sollevate dalle modalità con le quali si è proceduto all'istituzione della commissione.
Pur a prescindere dalle predette questioni giuridiche, non sembra lecito dubitare che le problematiche che i membri della commissione si troveranno ad affrontare involvono interessi e questioni suscettibili di condizionare sensibilmente il mercato e l'industria informatica dei prossimi anni.

Sarebbe stato, per questo, forse auspicabile che prima di istituire la commissione per l'open source nella pubblica amministrazione, si fosse avviata una fase di consultazione tra i soggetti coinvolti e, magari, si fosse chiesto a questi ultimi di individuare possibili rappresentanti da invitare a prender parte ai lavori della commissione.

Si è invece ritenuto di procedere in maniera silente senza neppure preoccuparsi di pubblicare i nomi dei membri di detta commissione consentendo così, a quanti fossero interessati, almeno, di cercare con essi un confronto ed uno scambio di idee.

Alla neo istituita commissione non possono, comunque, che essere indirizzati i migliori auguri di pronto raggiungimento degli ambiziosi obiettivi e l'auspicio che, almeno il risultato dell'attività svolta, possa, al più presto, essere posto a disposizione della comunità scientifica perché ne discuta, ci si confronti e ne tragga comunque motivo di crescita culturale nella più tradizionale logica "open source".

Quanto alle perplessità esposte, è ben noto che criticare è più facile che costruire e, quindi, esse vanno lette scevre da ogni volontà di demolire quanto di buono si sta facendo per migliorare l'efficienza e l'efficacia dell'apparato pubblico sotto il profilo delle nuove tecnologie e, piuttosto, dettate unicamente dalla volontà di contribuire a tale processo di innovazione fondamentale per il nostro Paese.