La notizia si può riassumere in poche righe nonostante la sua gravità: la
Procura di Milano ha iscritto nel registro degli indagati i due legali
rappresentanti di Google Italy Srl nell'ambito dell'inchiesta avviata sul video
choc girato ai danni di un giovane disabile. Entrambi gli indagati sono
americani. I reati contestati sono quelli di concorso omissivo nel reato di
diffamazione a mezzo internet. In pratica è stata estesa a Google la normativa
sulla stampa sul presupposto che “la rete Internet, quale sistema
internazionale di interrelazione tra piccole e grandi reti telematiche, è
equiparabile ad un organo di stampa” e che “il titolare di un nome di
dominio Internet ha gli obblighi del proprietario di un organo di comunicazione”
(Trib. Napoli, 8 agosto 1997).
La società Google Italia si è difesa affermando che “i filmati pubblicati
dagli utenti vanno in linea automaticamente e che non c'è nessun filtro
editoriale preventivo da parte nostra. Quello che facciamo è 'tirare giù' i
contenuti illegali quando ce ne accorgiamo. Il video era evidentemente contrario
alle nostre policy, infatti l'abbiamo cancellato immediatamente, appena ci è
stato segnalato.Stiamo sperimentando, e continueremo a sperimentare, tecnologie
in grado di individuare automaticamente i contenuti illegali. Ma non è
un'impresa facile.Per fortuna ci siamo accorti che il filtro più importante è
il controllo della comunità. Sono gli stessi utenti di Google, che appena
vedono qualcosa di anomalo, provvedono a segnalarcelo''. Secondo il Garante
della Privacy, “il caso del video del ragazzo down pestato in classe
effettivamente pone il problema del controllo sui siti Internet e sui nuovi
media per i quali è più difficile intervenire con provvedimenti interdettivi.
Il web è molto ampio e la quantità dei siti si moltiplica quotidianamente.
Spesso, perciò, sono difficili il monitoraggio e l'intervento tempestivo''.
Oggi il web permette di inviare non solo messaggi ma anche immagini e filmati
all'interno di newsgroups, mailing lists, chat line e di costruire pagine web
personali. Tramite internet, quindi, si possono commettere diversi reati: la
violazione delle norme sul diritto d'autore, la diffamazione (è il caso di cui
ci occupiamo), la violazione delle norme contro lo sfruttamento sessuale dei
minori, la violazione delle norme sull'ordine pubblico con la diffusione di
materiale di carattere terroristico; la violazione del diritto alla privacy.
Quali sono le norme applicabili? La Procura di Milano sembra orientata ad
attribuire una responsabilità a Google (inquadrato come un internet provider)
per fatti commessi da terzi in base alle norme sulla responsabilità del
direttore di una testata giornalistica ed in particolare all'articolo 57 Cp,
equiparando il gestore di un sito internet ad un direttore responsabile e
attribuendogli l'obbligo di verificare la liceità del materiale pubblicato sul
proprio server, compreso quello inviato da terzi. La legge 223/1990 (“legge
Mammì”) ha esteso questa responsabilità ai direttori dei Tg e dei
radiogiornali, mentre la legge 62/2001 ha coinvolto direttamente i direttori dei
siti web. Una sentenza milanese va in questa direzione:“Alla luce della
complessiva normativa in tema di pubblicazioni diffuse sulla rete Internet,
risulta ormai acquisito all’ordinamento giuridico il principio della totale
assimilazione della pubblicazione cartacea a quella diffusa in via elettronica,
secondo quanto stabilito esplicitamente dall’articolo 1 della legge 62/2001”
(Tribunale di Milano, II sezione civile, sentenza 10-16 maggio 2002 n. 6127).
L’internet provider sarebbe corresponsabile della condotta illecita del
terzo utente sulla base del principio giuridico della culpa in vigilando, che si
realizza con il mancato adempimento dell'obbligo di monitoraggio del materiale
sistemato nel server, obbligo sancito indirettamente dall’articolo. 57 Cp. Il
direttore deve evitare che, con il mezzo della stampa (o di internet), si “commettano
delitti”.
Il Pm di Milano, però, dovrà valutare l’incidenza di una direttiva
comunitaria, che sembra scagionare Google. L’articolo 31 della legge 39/2002
delega il Governo ad emanare un dlgs per l'attuazione della direttiva
2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società
dell'informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno.
Il dlgs è il n. 70/2003 (Attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a
taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell'informazione nel
mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico). L’articolo
16 di questo dlgs, paragonabile alla classica ciambella di salvataggio (per
Google), specifica che “nella prestazione di un servizio della società
dell'informazione, consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da
un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile delle
informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a
condizione che detto prestatore: a) non sia effettivamente a conoscenza del
fatto che l'attività o l'informazione è illecita e, per quanto attiene ad
azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono
manifesta l'illiceità dell'attività o dell'informazione; b) non appena a
conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca
immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l'accesso”.
Google in questo caso svolge un’attività di semplice “ospitalità” del
filmato incriminato. Tale circostanza potrebbe evitare grane alla società
americana ove si legga anche l’articolo 17 (Assenza dell'obbligo generale di
sorveglianza) del dlgs 70/2003: “Nella prestazione dei servizi…..il
prestatore non è assoggettato ad un obbligo generale di sorveglianza sulle
informazioni che trasmette o memorizza, né ad un obbligo generale di ricercare
attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite.
2. ….il prestatore è comunque tenuto: a) ad informare senza indugio
l'autorità giudiziaria o quella amministrativa avente funzioni di vigilanza,
qualora sia a conoscenza di presunte attività o informazioni illecite
riguardanti un suo destinatario del servizio della società dell'informazione;
b) a fornire senza indugio, a richiesta delle autorità competenti, le
informazioni in suo possesso che consentano l'identificazione del destinatario
dei suoi servizi con cui ha accordi di memorizzazione dei dati, al fine di
individuare e prevenire attività illecite. 3. Il prestatore è civilmente
responsabile del contenuto di tali servizi nel caso in cui, richiesto
dall'autorità giudiziaria o amministrativa avente funzioni di vigilanza, non ha
agito prontamente per impedire l'accesso a detto contenuto, ovvero se, avendo
avuto conoscenza del carattere illecito o pregiudizievole per un terzo del
contenuto di un servizio al quale assicura l'accesso, non ha provveduto ad
informarne l'autorità competente”. Se non c’è obbligo di sorveglianza non
c’è responsabilità penale. E se c’è correttezza nei comportamento con le
autorità di vigilanza non c’è responsabilità civile.
Frattanto un senatore di Forza Italia (Maria Burani Procaccini) ha presentato
un disegno di legge per vietare la divulgazione via internet di immagini di
episodi di bullismo. L’obiettivo è quello di colmare un ''vuoto legislativo''.
Saranno previste pene pesanti per i trasgressori, con l'inasprimento delle pene
per i minori e per i genitori correi nonché la chiusura dei siti. Probabilmente
questa è la via giusta. Bisogna tener conto che il comma 2 dell’articolo 21
proibisce la censura sulla stampa. Gli internet provider non possono esercitare
funzioni vietate espressamente dalla Carta fondamentale della Repubblica.
Soltanto il giudice può ordinare che un filmato illecito sia tolto dal web.
Altra storia è l’accusa di diffamazione: il Pm dovrà provare che i
responsabili di Google abbiano agito con dolo. L’impresa, per le questioni
illustrate, è a prima vista alquanto difficile. L’Europa sembra escludere
questa accusa.
|