Provider e responsabilità nella legge comunitaria 2001
di ALCEI - 19.06.02Dietro le formule "buoniste" e le astratte dichiarazioni di
principio contenute nelle direttive europee 2000/31/CE e 2001/29/CE - che dovranno
essere recepite in Italia entro il gennaio 2003 - si nasconde il pericoloso
mutamento dei principi giuridici sulla responsabilità dell'internet
provider e, più in generale, dei fornitori di servizi internet. Il provider
viene, di fatto, trasformato in un giudice-poliziotto, che per evitare di
essere chiamato a rispondere in prima persona del comportamento illecito degli
utenti, sarà costretto ad esercitare censure, filtraggi e controlli più o
meno palesi su quanto accade nei propri server. E questo quando oramai, almeno
in Italia, sembrava un dato acquisito (anche dalla giurisprudenza) che l'unica
responsabilità ipotizzabile a carico del provider fosse quella fondata sul
concorso nell'illecito (per "concorso", lo ricordiamo a chi non
fosse un esperto del diritto, si intende la partecipazione attiva nella
commissione di un reato).
La situazione è peggiorata dalla continua e ipertrofica crescita del corpo
normativo, che continua a svilupparsi sia in quantità sia in scarso
coordinamento. Il che crea ovvi problemi applicativi agli operatori e agli
utenti che non hanno indicazioni chiare sul come strutturare e usare i servizi
offerti. E che dunque rischiano di incappare nei rigori della legge più per
difficoltà oggettive che per "cattiva volontà".
Un esempio è rappresentato dalle disposizioni della legge 1. marzo 2002 n. 39
per il recepimento delle direttive europee in materia di commercio elettronico
(2000/31/CE) e di diritti d'autore nella società dell'informazione
(2001/29/CE). Che impongono oneri e responsabilità molto pesanti ai provider
lasciandoli praticamente "fra l'incudine e il martello". Lo schema
delle responsabilità definito dalle norme in questione è ambiguo e dunque
lascia molto spazio di manovra" nei confronti dei fornitori di servizi.
Viene, infatti, affermato nell'art. 31 il principio secondo il quale
d) il prestatore non sarà considerato responsabile delle informazioni
trasmesse a condizione che:
1) non sia esso stesso a dare origine alla trasmissione;
2) non selezioni il destinatario della trasmissione;
3) non selezioni né modifichi le informazioni trasmesse;
Tutto questo dovrebbe significare, in pratica, che non si dovrebbe (il
condizionale è d'obbligo) commettere un illecito se ci si limita al
cosiddetto "mero trasporto" (con evidente analogia a quanto accade
per la telefonia, dove nessuno pensa di coinvolgere un gestore negli illeciti
commessi dagli utenti del servizio). Ma la prestazione di servizi internet non
è assimilabile tout-court a quella di servizi telefonici perché
tecnicamente il provider - anche quello "intermedio" - ha un ruolo
attivo nella gestione e nello smistamento delle comunicazioni in transito.
Basta pensare al ruolo dei proxy, che si interpongono fra l'utente e i dati. O
ai vari sistemi di filtraggio adottati da molti provider per bloccare certi
contenuti o "indirizzare" la navigazione. Oppure, ancora, si pensi
alla gestione dei news-server, caso in cui il provider, per varie ragioni,
decide di veicolare solo certe gerarchie di newsgroup e non altre. Dal che
potrebbe derivare che il semplice fatto di "ospitare" un certo
newsgroup implichi averne accettato i contenuti.
E poi ci sono i motori di ricerca che intervengono sui risultati delle
interrogazioni formulate dagli utenti, sia vendendo posizionamenti, sia
eliminando unilateralmente l'accessibilità a determinati contenuti. Anche in
questo caso è discutibile sostenere che il "provider intermedio"
non incida sulla circolazione delle informazioni.
Altro aspetto problematico riguarda il concetto di "origine della
trasmissione". Tecnicamente, c'è sempre un provider che da origine ad
una trasmissione e non necessariamente si tratta del soggetto che ha formato
il contenuto asseritamente illecito (ancora una volta, torniamo al caso dei
proxy). Quindi affermare che la responsabilità sussiste se si origina la
trasmissione di un qualcosa significa che si è sempre e comunque
responsabili. Probabilmente la norma voleva significare che il provider non
dovrebbe essere responsabile se si limita a fornire una piattaforma
tecnologica che poi l'utente impiega come meglio crede. Ma se questa era la voluntas
legis la si poteva esprimere in termini sicuramente più chiari.
Veniamo ora alla successiva lettera e) che si occupa della memorizzazione
temporanea detta "caching" (sigh!) secondo la quale
e) il prestatore non sarà considerato responsabile della memorizzazione
automatica, intermedia e temporanea di tali informazioni, effettuata al solo
scopo di rendere più efficace il successivo inoltro ad altri destinatari a
loro richiesta, a condizione che egli:
1) non modifichi le informazioni;
2) si conformi alle condizioni di accesso alle informazioni;
3) si conformi alle norme di aggiornamento delle informazioni;
La norma è chiaramente scritta pensando ai proxy, ai mirror e alla
gestione delocalizzata dei servizi in banda larga e, ancora una volta, crea
più problemi di quanti ne risolve. Come dobbiamo intendere, infatti, quel
"conformarsi alle condizioni di accesso e di aggiornamento delle
informazioni"? Lo scenario che si prospetta è quello di dover
interpellare ciascun titolare dei diritti sul materiale memorizzato in un
mirror o in un proxy per chiedergli ogni quanto tempo aggiorna i contenuti e
se quei contenuti possono ancora rimanere on line oppure no. Applicando
rigorosamente questa norma la paralisi è praticamente inevitabile.
Pressoché incomprensibile, poi, è la frase contenuta al punto 4, che
vuole che il provider
indichi tali informazioni in un modo ampiamente riconosciuto e utilizzato
dalle imprese del settore;
Tradotto, questo dovrebbe significare pressappoco quanto segue:
a) io sono il titolare di certe informazioni che rendo disponibili tramite i
miei servizi;
b) tu provider memorizzi temporaneamente le mie informazioni sul tuo server;
c) quando lo fai, devi rendere disponibili le informazioni (indicare=rendere
disponibili?) con metodi ampiamente riconosciuti e utilizzati dalle imprese.
Attenzione, la norma non parla di standard industriali aperti (come quelli
dell'internet), ma ricorre ad una nozione molto più vaga (ampiamente
riconosciuti e utilizzati). Quindi, se una casa discografica o una software
house riescono ad imporre una propria tecnologia, questa diventa vincolante
per tutti anche se non è uno standard riconosciuto.
Anche i successivi punti 5 e 6 meritano di essere analizzati a parte
perché contengono delle prescrizioni che possono impattare drammaticamente
non solo sulla responsabilità ma anche sull'organizzazione interna del
provider. Per quanto riguarda il primo, è infatti prevista l'esenzione di
responsabilità quando il fornitore
5) non interferisca con l'uso lecito delle tecnologie ampiamente
riconosciute ed utilizzate nel settore per ottenere dati sull'impiego delle
stesse informazioni;
Cioè il fornitore non deve interferire e quindi deve consentire che
soggetti terzi possano accedere ai propri sistemi con strumenti tecnologici
(anche remoti) per sapere chi, quando, come ha scaricato un certo contenuto
temporaneamente memorizzato sui server in questione. Questa legalizzazione del
cosiddetto spyware e più in generale del diritto di terzi di svolgere
indagini private senza controllo sull'uso delle risorse internet è non solo
una grave minaccia per la sicurezza dei sistemi, ma espone gli utenti ad un
regime ingiustificato di controllo preventivo e sistematico, sulla base di una
presunzione di colpevolezza.
Altro dovere del provider è quello di vigilare sulla effettiva permanenza
online dei contenuti che ha memorizzato sulle proprie macchine. Per evitare di
essere ritenuto responsabile, è necessario che
6) agisca prontamente per rimuovere le informazioni che ha memorizzato o
per disabilitarne l'accesso, non appena venga effettivamente a conoscenza del
fatto che le informazioni sono state rimosse dal luogo dove si trovavano
inizialmente sulla rete o che l'accesso alle informazioni è stato
disabilitato oppure che un organo giurisdizionale o un'autorità
amministrativa ne ha disposto la rimozione o la disabilitazione dell'accesso;
A parte l'enormità dello sforzo richiesto per eseguire un compito del
genere, c'è il non banale problema di definire precisamente cosa significa
quel "non appena venga effettivamente a conoscenza". Basta una
semplice mail anonima perché il provider sia obbligato a rimuovere un
contenuto, o una telefonata, o un articolo di giornale? Oppure cos'altro?
Dunque il criterio adottato dalla UE per non considerare colpevole un provider
delle violazioni compiute da terzi tramite i propri server è quello che si
può definire del "non intervento".
In altri termini, se il provider non modifica, filtra, o "maneggia"
in qualche modo ciò che passa sulla propria rete, non può essere
automaticamente considerato responsabile. Come si è visto, però, questo è
un principio solo apparentemente ragionevole che, attuato nei termini proposti
dal legislatore, si rivela ancora più discutibile, dato che in suo nome si
impongono ai provider obblighi di controllo inesigibili o costosissimi.
Il che risulta ancora più evidente dall'analisi della lettera f) dell'articolo
31 della legge 39/02 relativo alla disciplina dell'hosting. La norma di
riferimento esclude la responsabilità del provider per le informazioni
memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che egli
1) non sia effettivamente al corrente del fatto che l'attività o
l'informazione è illecita;
2) per quanto attiene alle azioni risarcitorie, non sia al corrente dei fatti
o di circostanze che rendano manifesta l'illegalità dell'attività o
dell'informazione;
3) non appena al corrente di tali fatti, agisca immediatamente per rimuovere
le informazioni o per disabilitarne l'accesso;
Anche in questo caso le parole utilizzate dal legislatore sono alquanto
oscure. Cosa si intende, per esempio, con la locuzione "effettivamente al
corrente"? Una interpretazione rigoristica potrebbe addirittura stabilire
che la responsabilità del provider sussiste quando, a prescindere dalle
formalità di una eventuale comunicazione (notifica tramite ufficiale
giudiziario, atto di diffida e quant'altro), di fatto, egli è a conoscenza
che il proprio cliente sta compiendo un atto illecito o diffondendo
informazioni illecite.
Altro punto critico: con quale potere il provider decide se un cliente sta
commettendo un atto illecito o diffondendo informazioni illecite? E' vero
che in alcuni casi può essere più semplice di altri rendersi conto che certe
azioni possono essere contrarie alla legge. Ma questo non fa venir meno il
dato di fatto, e cioè che la norma trasforma il provider in una sorta di
mostro bicipite, mezzo inquirente e mezzo giudicante, per di più senza
nemmeno una toga o una divisa che gli fornisca un titolo istituzionale per
svolgere questo lavoro.
Una interpretazione più elastica potrebbe essere quella secondo cui la
norma è fonte di responsabilità del provider se questi, venuto comunque a
conoscenza di una sentenza passata in giudicato che dichiara la illiceità di
una informazione o di una attività, ne tollera comunque la permanenza. Anche
questa soluzione, però, è molto poco soddisfacente. Intanto perché non
risolve il problema dello stabilire quando e come un qualcosa sia
"effettivamente" conosciuto. E poi perché non viene elusa l'impostazione
di fondo della norma, che sembra mostrare un certo disprezzo per i principi di
tutela e garanzia che informano il nostro ordinamento.
Desta inoltre molta preoccupazione la scelta di stabilire per legge l'esistenza
di "informazioni illecite" intrinsecamente tali. In altri termini,
la responsabilità (anche) del provider dipenderà "semplicemente"
dall'avere diffuso o concorso a diffondere una informazione unilateralmente
classificata come illecita a prescindere dalle finalità perseguite da chi le
rende disponibili. Ad esempio, nello stabilire che sono illecite le
informazioni relative alla produzione delle droghe, sarebbero posti sullo
stesso piano lo studioso di farmacologia che pubblica i risultati di una
ricerca scientifica sulla sintesi di sostanze psicotrope e il delinquente che
fa circolare gli stessi contenuti per scopi criminali.
Ma attenzione, tutto questo solo se il mezzo utilizzato per la circolazione
è l'internet. Si, perché a quanto pare il problema non sembra essere tanto
l'informazione in sé, ma il modo in cui è veicolata. Preoccupa di più l'incontrollabilità
della circolazione delle informazioni che la loro esistenza. I riflessi sulle
attività dei provider sono abbastanza evidenti, come dimostra la successiva
lettera j) dello stesso articolo che impone di
j) prevedere che il prestatore di servizi è civilmente responsabile del
contenuto di tali servizi nel caso in cui, richiesto dall'autorità
giudiziaria o amministrativa, non ha agito prontamente per impedire l'accesso
a detto contenuto, ovvero se, avendo avuto conoscenza del carattere illecito o
pregiudizievole per un terzo del contenuto di un servizio al quale assicura
l'accesso, non ha usato la dovuta diligenza;
La previsione della responsabilità civile per la mancata esecuzione dell'ordine
dell'autorità giudiziaria o amministrativa (già peraltro sanzionate
penalmente e amministrativamente) è superflua solo in apparenza, perché
aggrava non poco la posizione del fornitore di servizi. L'art. 2043 del
codice civile stabilisce infatti una clausola generale secondo la quale
chiunque commette un fatto illecito è tenuto a risarcirne le conseguenze. Ma
per applicarla al provider sarebbe necessario dimostrare un suo coinvolgimento
attivo nella commissione dell'illecito. Con la formula proposta dalla legge
comunitaria, invece, non c'è bisogno di provare che il fornitore di
contenuti sia "coinvolto" nell'azione delittuosa dell'utente.
Basta "soltanto" che non abbia rimosso prontamente il materiale
incriminato. Il che si collega alla seconda ipotesi di responsabilità,
relativa a quella che sembra essere una vera e propria "obbligazione di
controllo" delle modalità di utilizzo dei servizi da parte dei clienti.
E' abbastanza evidente quale sia l'origine storica (recente) di norme
così inutilmente restrittive: la "caccia alle streghe" iniziata sei
o sette anni fa all'insegna della demonizzazione indiscriminata della rete.
Si è partiti da affermazioni come "sull'internet ci sono le istruzioni
per costruire le bombe", per passare attraverso quelle secondo le quali
"in rete ci sono i terroristi e i pervertiti" per arrivare a
stabilire per legge una responsabilità (quasi) oggettiva del provider e la
criminalizzazione delle informazioni. Secondo un copione tanto chiaro quanto
ignorato. Per di più l'ambigua oscurità semantica e grammaticale del testo
di legge consentirà un ampio spazio di manovra in fase di emanazione dei
provvedimenti attuativi di queste linee guida, e non ci si può certo
aspettare una mitigazione dei toni, anzi.
E' ragionevole pensare che, quando queste normative saranno a regime, si
produrrà una frattura molto netta nel mercato dei fornitori di servizi
internet. Quelli grandi e potenti - che si possono permettere costose
consulenze legali - saranno in grado di gestire i propri clienti e i casi
critici. Quelli piccoli e squattrinati dovranno sistematicamente cedere di
fronte alle minacce di azioni legali anche intentate strumentalmente al solo
scopo di ridurre al silenzio le "voci fuori dal coro". Rischiando
altrimenti di subire i sequestri dei propri server e pesanti sanzioni. Il
prossimo futuro assetto giuridico, dunque, rischia seriamente di creare un
sistema giuridico fortemente sperequato, oltre che vessatorio dei diritti di
operatori e utenti.
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