di Andrea Monti - 12.10.2000
Oggi è tuttavia necessario il dolo e potrebbe non essere sempre agevole
provare che un server era consapevole di ciò che è transitato dalla sua porta
di accesso. Dunque manca una legge organica che preveda regole di
comportamento e obblighi di controllo su ciò che viene messo a disposizione del
pubblico nei diversi siti. Così parlò Carlo Federico Grosso, presidente
della Commissione per la riforma del codice penale, nell'intervista a Repubblica
del 1. ottobre 2000.
Uno dei principi fondamentali che regolano la responsabilità penale è
contenuto nell'art. 27, c. II della Costituzione, che ne sancisce la
"personalità". In altri termini, si risponde penalmente soltanto per
avere commesso consapevolmente (per dolo, salvi i casi eccezionali della colpa)
un atto tipico (cioè previsto dalla legge) e antigiuridico. Corollari di questa
impostazione sono: l'impossibilità di rispondere per fatto altrui e quella di
attribuire responsabilità penali alle persone giuridiche (societas
delinquere non potest, amano dire i penalisti).
Nel multiforme universo del diritto, dove è vero tutto e il contrario di
tutto, almeno su questi capisaldi si è sempre registrato un consenso pressoché
unanime. Ma sulla spinta di precisi interessi economici, dell'isteria
forcaiola di una "piazza ignorante", e last but not least di
una scarsa conoscenza dell'ABC delle tecnologie dell'informazione, anche un
essenziale principio di civiltà giuridica viene messo a rischio di estinzione
dall'azione (inconsapevolmente?) congiunta di Unione europea e Stati membri.
De iure condito, la direttiva
2000/31/CE, che dovrebbe occuparsi di commercio elettronico, contiene delle
parti chiaramente fuori contesto che "toccano" il delicato tema della
responsabilità penale degli internet provider. L'affermazione di principio
sembrerebbe neutra, anzi, condivisibile: il mero trasporto dei dati non genera
responsabilità, come anche la diffusione di contenuti illeciti. A condizione,
però - e qui casca l'asino - che il fornitore non sia messo "in
mora". Quindi, se qualcuno segnala la presenza di un contenuto illegale ad
un ISP e questi non lo rimuove, diventa automaticamente responsabile.
Provider fra l'incudine e il martello, quindi, visto che da un lato saranno
"minacciati" da chi lamenta la presenza di contenuti fuori legge, e
clienti che ne sostengono la conformità a norme e contratto. Nei fatti, chi mai
si prenderà la briga di assumersi la responsabilità per un fatto imputabile al
cliente? Tecnicamente - si potrebbe dire - questo non è un caso di
responsabilità oggettiva perché non c'è una diretta applicabilità della
norma penale nei confronti dell'ISP, ma nei fatti viene innescato un
pericolosissimo automatismo sanzionatorio.
De iure condendo, la bozza
di convenzione internazionale sui reati informatici rincara la dose, nel
momento in cui afferma che si dovrà stabilire, in qualche modo, la
responsabilità penale delle persone giuridiche. Un principio "comodo"
per strutture di investigazione privata come la Business Software Alliance, che
trarrebbero grande vantaggio dalla possibilità di incriminare direttamente il
legale rappresentante di un'azienda (mediamente molto più
"solvibile" di ragazzini e studenti). Fortunatamente una recente
sentenza del Tribunale di Torino (20/4/2000) ha ribadito che questa impostazione
non è (ancora) ammissibile nel nostro ordinamento nemmeno in materia di tutela
del software, ma il fatto che un giudice abbia dovuto sottolineare il problema
è chiaro indice di una tendenza oramai diffusa a puntare il mirino dell'azione
giudiziaria non necessariamente nei confronti dell'effettivo e materiale
autore di un reato.
Ancora più sconfortante è il segnale che arriva dalla commissione che sta
riformando il codice penale, del cui presidente abbiamo riportato alcune
significative affermazioni nell'apertura di questo articolo. Carlo Federico
Grosso, commentando le fattispecie penali in materia di tutela dei minori,
rispolvera tesi antiche (vedi gli atti del Forum
multimediale del 1995) secondo le quali nei fatti il "server"...
meglio, il provider, è da ritenersi concorrente nel reato. Ma siccome le norme
in questione richiedono il dolo, cioè la coscienza e volontà di commettere il
reato, Grosso ammette che "potrebbe non essere sempre agevole provare che
un server era consapevole di ciò che è transitato dalla sua porta di
accesso". Il che può essere parafrasato in questo modo: i provider sono
responsabili per i contenuti veicolati dai server o pubblicati dagli utenti, ma
la legge richiede che sia dimostrato un loro coinvolgimento diretto e volontario
per poterli punire. Se non li si può vincolare con la responsabilità
oggettiva, almeno che siano responsabili per omesso controllo (vedi appunto la
direttiva comunitaria).
E' evidente che, al di là del formalismo tecnico con il quale si
aggireranno i divieti costituzionali all'introduzione di forme di
responsabilità "atipiche", le linee guida che ispireranno la
normativa penale prossima ventura sembrano già chiare.
Purtroppo.