"Società
vulnerabile": lo scriviamo da otto anni
di Manlio Cammarata - 12.06.03Giovedì 5 giugno 2003. Al controllo della posta nel primo pomeriggio c'è
una dozzina di messaggi. Tre hanno lo stesso mittente (microsoft.com), e
odorano di spam o peggio. Non li scarico nemmeno, li cancello sul server. Tra
quelli che passano ce n'è uno con un allegato che presenta la doppia
estensione ".scr.pif". Non c'è dubbio, è un virus. Nessun
problema, basta lasciarlo lì e verificare se c'è stata una deplorevole
"distrazione" dell'antivirus o se si tratta di un codicillo nuovo.
Un rapido controllo on line conferma che si tratta di un nuovo virus, che si
chiama W32.Bugbear.B, che è piuttosto pericoloso e che tra qualche ora saranno rilasciate le
contromisure.
Passo a occuparmi di altre cose.
A sera scarico le nuove "firme", elimino l'intruso e a ora di
cena lancio una scansione completa del sistema, non si sa mai. Tutto a posto,
a parte il fatto che a intorno a mezzanotte nelle mie caselle di posta il
numero di messaggi con Bugbear.B ha superato la ventina.
Ma intanto è scoppiato il finimondo televisivo, che l'indomani sarà
puntualmente ripreso dalla stampa. Con toni, in qualche caso, da catastrofe
planetaria, le schermate di Outlook in primo piano e le immancabili interviste
agli esperti di turno. Saltano all'occhio, come al solito, il pressapochismo
dell'informazione e l'assenza di consigli pratici. Manca soprattutto
l'informazione essenziale che questi virus si diffondono in poche ore su scala
planetaria perché la stragrande maggioranza degli utenti si serve di Outlook
come client di posta elettronica e della rubrica di Windows per archiviare i
dati delle persone con cui è in contatto.
Per dire pane al pane: se non ci fossero queste applicazioni, geneticamente
vulnerabili, presenti e attive in quasi tutti i computer venduti ogni
giorno nel mondo, questo tipo di disastri sarebbe molto, molto più raro.
Senza un client che lancia gli allegati (nella migliore delle ipotesi) per il
solo fatto che l'utente cerca di sapere che cosa ha ricevuto, senza un elenco
di indirizzi e-mail privo di protezioni efficaci, che moltiplica i messaggi
distruttivi, il compito degli autori dei virus-worm sarebbe molto più
difficile e la diffusione dei codici malefici più limitata.
Se poi gli utenti fossero informati, in maniera molto chiara, di come
comportarsi al cospetto di un allegato con certe estensioni, se gli antivirus
e i relativi aggiornamenti fossero obbligatori, allora tutto sarebbe più
facile. Avvisi del tipo "Il fumo provoca il cancro" dovrebbero
essere obbligatoriamente stampigliati su tutti i monitor e dovrebbero apparire
automaticamente ogni volta che si scarica un allegato che non sia un ".txt"
o simile.
Ma l'ultimo allarme ha messo in luce un problema molto serio: è stato
scritto che Bugbear.B contiene un grande elenco di banche americane (non è
vero) e che ha messo a rischio decine di istituti bancari italiani (e questo
è possibile).
C'è qualcosa che non va. Una banca, un ente pubblico, una qualsiasi
organizzazione che tratta informazioni la cui diffusione può comportare
effetti devastanti, non possono essere vulnerabili per minacce così
"banali", come un virus-worm che funziona sostanzialmente come
decine di altri che lo hanno preceduto.
E' vero che la sicurezza totale è irraggiungibile, è vero che ci sono
minacce sofisticate e imprevedibili che possono prendere in contropiede il
più attento amministratore di sistema o sorprendere il più capace degli
esperti di sicurezza. Ma una banca, un ente pubblico, un grande centro di
telecomunicazioni (è accaduto anche questo!) non possono capitolare in pochi
secondi di fronte a un tipo di attacco più che prevedibile.
L'aspetto più preoccupante dell'ultima "epidemia" è dato dalla
capacità del codice di costruire messaggi attendibili, coerenti con
l'attività del proprietario del sistema colpito. Dunque non solo c'è una
minore riconoscibilità della natura del messaggio, ma anche una maggiore
probabilità che vengano diffusi segreti aziendali o dati personali riservati
(si pensi alle informazioni normalmente presenti nei sistemi bancari o nelle
basi di dati delle aziende sanitarie).
Ora non si tratta più di valutare i danni che possono derivare dalle
temporanee sospensioni dell'attività dei sistemi, necessarie per eliminare i
codici dannosi e ripristinare dati e applicazioni: il problema è costituito
dagli effetti irreparabili che possono venire dalla diffusione di informazioni
che devono restare riservate.
E' necessario prevenire, per quanto è tecnicamente e giuridicamente
possibile, questo tipo di danni. Non bastano disposizioni generiche come
quelle contenute nel DPR 318/99 sulle
misure minime di sicurezza, che si limitano a imporre l'uso di un antivirus
(da aggiornare ogni sei mesi!) per gli elaboratori connessi in rete. Si deve
prevedere una specifica responsabilità penale per gli amministratori di
sistema, o per i responsabili della sicurezza, che non controllano con la
necessaria diligenza i più fattori di rischio più comuni, come la presenza
di programmi notoriamente vulnerabili o l'inadeguatezza delle misure antivirus
e anti-intrusione in relazione alla complessità del sistema o alla
delicatezza dei dati che vi sono custoditi.
Fra l'altro tutto questo dovrebbe riguardare anche i garanti per la
protezione dei dati personali, che non sembrano particolarmente attivi sul
fronte delle minacce concrete, connesse all'impiego generalizzato di sistemi
informatici che sembrano fatti apposta per mettere a rischio la riservatezza
dei dati del loro proprietario e di tutti quelli con i quali ha contatti
telematici.
Sono passati otto anni da quando un piccolo gruppo di esperti appassionati,
che ha dato vita a questa rivista con il Forum multimediale "La società
dell'informazione", ha lanciato l'allarme sulla vulnerabilità dei
sistemi che fanno funzionare la società moderna e ne costituiscono il sistema
nervoso. Quel convegno, accompagnato da una discussione telematica (la prima
in materia di diritto delle tecnologie sul web italiano), si intitolava Comportamenti
e norme nella società vulnerabile.
A rileggere adesso alcuni di quegli interventi sembra che otto anni siano
passati invano. |