(di nuovo un’onda perversa di repressione e censura)
Nell’ultima settimana del novembre 2006 c’è stato, per
alcuni giorni, un ampio dibattito su problemi di violenza, che non riguardano
solo giovani e adolescenti – ma è comprensibile (anche se non sempre
ragionevole) che si dedichi una particolare attenzione a quelle situazioni che
coinvolgono persone “minorenni”. Spesso come vittime – ma anche, in troppi
casi, come responsabili o complici delle violenze.
Non è facile capire se si tratti di un aumento di questi fenomeni o di una più
diffusa constatazione della loro esistenza. Ma è evidente che non sono “fatti
nuovi”. Che si stiano diffondendo di più, e aggravando, è solo un’ipotesi.
Che il problema esista da molto tempo, e continui con una mescolanza di
malcostume “vecchio” e “nuovo” – è una triste, e grave, realtà.
Che se ne prenda più diffusamente coscienza è, ovviamente,
un bene. Ma non basta. Ed è importante capire (fuori dalla frettolosa
confusione delle cronache di pochi giorni) quali ragionamenti e azioni possono
essere utili – e quali, invece, non solo sono inefficaci, ma possono avere
conseguenze molto negative.
Sembra si stia esaurendo, dopo qualche giorno di “rumore”, l’onda di
notizie, commenti e proposte che è seguita a un particolare orribile episodio
(vedi il comunicato diffuso da ALCEI
il 26 novembre 2006). Il fatto è che alcuni sciagurati adolescenti hanno
aggredito e percosso una persona che ha difficoltà a difendersi. Hanno anche
filmato la loro “prodezza” – e messo il video online.
Che un tale episodio abbia suscitato una diffusa indignazione
è evidente. Ma il modo in cui l’argomento è stato trattato suscita molte
perplessità. E alcune delle “soluzioni” proposte sono peggio del male che
fingono di voler risolvere.
Molte delle cronache contengono informazioni sbagliate (per esempio la vittima
soffre di “autismo” – non, come qualcuno ha detto e molti hanno ciecamente
ripetuto, della “sindrome di Down”). Questo ovviamente non cambia la natura
del problema per quanto riguarda i comportamenti violenti e la perversa idea di
vantarsene, ma dimostra con quanta superficialità si diffondano notizie di ogni
specie.
Non tutti i commenti sono sbagliati. Si sono pubblicate osservazioni ragionevoli
e ben concepite sul problema della violenza (non solo giovanile), sulla
responsabilità dei genitori e degli educatori, sulla complessità della
situazione culturale e sociale, eccetera. Tutte cose che non si risolvono in
pochi giorni, che richiedono azioni meditate e continue, che non sono “nate
improvvisamente” ma hanno radici estese nel tempo.
Occorre anche capire che quell’episodio, particolarmente
vistoso, non è un “caso isolato”. Ci sono altre vicende di varia specie,
non meno gravi, di cui solo alcune sono “salite all’onore delle cronache”.
Una breve fiammata di interesse, che probabilmente sarà seguita da un nuovo
dimenticatoio fino alla prossima occasione che “fa notizia”, non risolve
alcun problema – ma tende a suscitare ogni sorta di proposte estemporanee, non
solo inutili, ma spesso anche nocive.
In mezzo a un mare di chiacchiere confuse e inconcludenti, c’è
chi fa proposte sensate. Per esempio un gruppo di giovani ha messo in piedi un’organizzazione
per dialogare online sulla violenza nelle scuole e offrire aiuto alle vittime e
alle loro famiglie. Solo il tempo, i fatti e risultati ci diranno quanto sarà
concretamente efficace questo genere di iniziative, ma intanto il loro valore
sta nella qualità delle intenzioni e la chiarezza della direzione che indicano:
capire, educare, aiutare, per quanto possibile prevenire, è più utile e più
importante che reprimere.
Nel caso specifico di cui si parla in questi giorni, l’idea
perversa di filmare il misfatto, e metterlo online, ha avuto un effetto
involontariamente positivo. È servita a identificare e perseguire i colpevoli.
Ciò non vuol dire, ovviamente, che si debba incoraggiare la diffusione di
materiali di quella specie. Ma è probabile che, viste le conseguenze, non siano
molti i malfattori a seguire quell’esempio (stupido quanto perverso). Cioè
che le violenze continuino, ma rimangano nascoste. Con il rischio, purtroppo
molto reale, che si consideri inesistente, o trascurabile, ciò che “non si
vede”. Molte iniziative, proposte in questa occasione come in tante altre,
tendono non a risolvere i problemi, ma a “nasconderli sotto il tappeto”.
Ci sono parecchie, gravi e diffuse, forme di ipocrisia. Il
concetto di “protezione dei minori” è ambiguo, confuso, spesso
strumentalizzato. Uno dei problemi di base è che la definizione non è chiara.
Ci possono essere situazioni difficili a ogni età, ci sono vittime e colpevoli
in una grande varietà di circostanze. Un bambino di quattro anni è molto
diverso uno di dieci. Un adolescente di tredici anni non è uguale a uno di
diciassette. E comunque nessuna individualità reale si colloca nella “media
statistica”. Definire e classificare le persone, a qualsiasi età, per
categorie che si presumono “omogenee” vuol dire non capirle e non saperle
ascoltare.
Violenze, sfruttamento e persecuzione sono particolarmente
gravi quando si tratta di “minorenni”, ma non per questo diventano
giustificabili quando le vittime sono “adulte”.
Da un’infinità di tempo si discute, per esempio, su “minori” e
televisione. Tutti sanno che lasciare i bambini incontrollati davanti a un
televisore, senza mai badare a che cosa guardano e come lo capiscono, è un
errore pericoloso. È altrettanto ovvio che, nel caso di adolescenti, “vietare”
è inutile e può essere “controproducente” (ciò che si cerca di proibire
è spesso cercato per il solo motivo che è “vietato” – e così il divieto
si trasforma in un incentivo).
Ma si continua a credere (o a fingere) che possano essere
utili provvedimenti semplicistici e imposti “dall’alto”. Come le
cosiddette “fasce protette” che servono a proteggere le emittenti – non
gli spettatori (di qualsiasi età) che possono essere confusi, o male orientati,
da informazioni e spettacoli se li “subiscono” senza sufficienti capacità
critiche. E, ovviamente, il problema non riguarda solo la televisione, ma tutto
l’insieme dei sistemi di informazione e comunicazione.
(Vedi l’analisi delle risorse
di informazione e comunicazione,
basata sulle ricerche del Censis, pubblicata nel 2006,
e altri studi sull’argomento che si trovano nella sezione
dati).
Il problema è noto. Le discussioni sono infinite. Le
soluzioni sono scarse o del tutto mancanti. Occorre un lavoro molto più
approfondito, continuo nel tempo, sulle basi della cultura e della società.
Più ci si perde in clamori temporanei e in provvedimenti semplicistici, più ci
si allontana da ogni possibilità di reale miglioramento della situazione.
“Ciò premesso” – ritorniamo al tema specifico. Si è
ampiamente glorificata, con scarsa verifica critica, la diffusione di strumenti
sempre più complessi e con molteplicità di funzioni. Con la telefonia
cellulare, il computer, l’internet, eccetera, si mette a disposizione di
(potenzialmente) “tutti” la capacità non solo di dire e scrivere, ma anche
di usare immagini, musica, filmati. Questo (che piaccia o no a chi è abituato a
situazioni di privilegio) è un bene per tutti. Ma se per milioni di persone è
uno strumento di libertà e di attività culturale in tutti i suoi aspetti, dai
più banali e talvolta divertenti ai più sostanziosi e interessanti, è
inevitabile che nelle mani di alcuni diventi una “arma impropria”.
In alcuni casi (per esempio i telefoni cellulari più
complessi) c’è una particolare diffusione fra i giovani – compresi
adolescenti e anche bambini. Un tardivo allarme si preoccupa delle conseguenze
che possono derivare dalle attività di persone “immature”. Ma anche questa
è una grossolana e pericolosa semplificazione. Ci possono essere “malintenzionati”
a tutte le età. E nessun provvedimento restrittivo o repressivo può rimediare
alla mancanza di una più diffusa preparazione (a tutte le età, dall’infanzia
alla vecchiaia) sui modi di difendersi e di non lasciarsi ingannare.
C’è anche un problema più esteso. Il
potere della stupidità. Che imperversa dovunque – ovviamente anche in
rete. Si possono diffondere fastidiose sciocchezze senza avere “cattive
intenzioni”. L’esagerata diffusione di stupidaggini può facilmente portare
alla tentazione di vietare, censurare, filtrare – che è ovviamente
pericolosa. È più efficace, oltre che più corretto e civile, un percorso meno
frettoloso e meno superficiale: lo sviluppo diffuso di capacità critiche, di
anticorpi culturali.
È mancato, per decenni, un impegno esteso sulle basi
culturali e civili (lasciando prevalere una mal concepita, spesso ostica e
sgradevole, “alfabetizzazione” tecnica – oppure una diffusione “spontanea”
di capacità, anche elevate, di gestione di aggeggi complessi senza alcuna
preparazione sui valori umani e sociali). A quella sciocca incuria ora si pensa
di poter rimediare, in modo affrettato e spesso balordo, con l’arma peggiore:
la repressione.
Divieti e censure non risolvono il problema. Ma possono
servire a nasconderlo – e così evitare la fatica di doverlo affrontare
davvero. Basterebbe questo per definire l’ipocrisia e l’inciviltà di quelle
iniziative. Ma c’è di peggio. Sono un facile pretesto per giustificare
censure, controlli, invasività, eccetera, che hanno tutt’altri obiettivi.
Come si è già dimostrato in un’infinità di occasioni.
Ritorniamo all’episodio specifico. Pare che il “video”
incriminato sia stato tolto dalla circolazione (prima ancora che ci fosse
qualsiasi iniziativa giudiziaria e che la notizia diventasse estesamente “di
pubblico dominio”). Ovviamente non c’è motivo di piangere sulla sua
scomparsa. Se criminologi o studiosi del malcostume vorranno analizzarlo,
probabilmente da qualche parte qualcuno ne ha conservata una copia. E
naturalmente nessuno può impedire che di questa spregevole opera d’arte, come
di chissà quante altre simili, continui a esserci una diffusione clandestina.
Ma c’è un altro problema – ed è molto serio. Una volta
definito il concetto che un gestore di servizi può (o deve) “rimuovere”
qualcosa, si è stabilito un principio che si può facilmente estendere a
qualsiasi genere di censura.
Quella di cui si è parlato in questi giorni è l’incriminazione di Google.
Che è indagata per “corresponsabilità” nella la diffusione di quel filmato
(e anche sottoposta a perquisizioni e sequestri). La notorietà del nome ha
contribuito a far conoscere e discutere un episodio che non è affatto “isolato”.
Non è chiaro se l’indagine riguardi Google come “motore di ricerca” o
solo il fatto che qualcuno aveva messo il video su Youtube.
Non ripeto qui ciò che è chiaramente definito nel comunicato ALCEI che ho
segnalato all’inizio. Mi limito (per chi non l’avesse ancora letto) a
citarne un paragrafo.
Sarebbe palesemente assurdo se (come interpretato in
alcuni dibattiti, articoli di giornale e programmi televisivi) si considerasse
“responsabile dei contenuti” un motore di ricerca. Ma, anche se il
procedimento contro Google si basasse su fatto che ora è proprietaria di
Youtube, si tratterebbe di una grave distorsione delle responsabilità e di un
ennesimo tentativo di repressione che, da un episodio particolare, si potrebbe
facilmente allargare a forme estese di censura.
La percezione del problema si è un po’ diffusa. A qualche
iniziale plauso per quella discutibile iniziativa giudiziaria e poliziesca
(difficile capire quanto fosse ingenuo o consapevolmente deformato) sono seguite
varie perplessità. Per fortuna non tutti sono disposti a lasciar passare, con l’ipocrita
pretesto della “protezione dei minori” (o, in generale, dei “più deboli”)
un ennesimo tentativo di repressione e censura.
* * *
In questo momento (fine novembre 2006) non sappiamo ancora
quale sarà l’esito della procedura giudiziaria. Né sappiamo se e come le
insensate dichiarazioni di alcuni politici (di diversi partiti e orientamenti)
avranno un seguito in termini di proposte legislative.
Staremo a vedere. Ma, qualunque sia il percorso di questa particolare vicenda,
il problema rimane. Anche questa volta, come in tanti casi precedenti, il
temporaneo clamore su uno o pochi episodi rischia di spegnersi lasciando il
problema nell’abbandono. E non desistono i nemici della libertà di opinione e
dei diritti civili, che “sotto mentite spoglie” approfittano di ogni
occasione per reprimere, controllare e censurare.
* * *
Mentre alcuni (non solo in Italia) cercano di approfittare
dei casi di violenza per reprimere e censurare la rete, altri, in varie parti
del mondo, fanno il contrario.
Gli esempi sono tanti. Ce n’è uno che, per una interessante coincidenza, è
di questi giorni. Nello stesso periodo in cui da noi infuriano proposte
repressive, un’associazione internazionale impegnata sul tema delle violenza
contro le donne segnala (anche con esempi concreti) l’importanza di usare la
rete come risorsa in favore delle vittime.
Vedi il comunicato
(in inglese) diffuso da APC
il 27 novembre 2006 – che parla, fra l’altro, di specifiche attività negli
Stati Uniti, in India, in Malesia, in Sudafrica e in altri paesi, dove varie
forme di collaborazione, informazione e mobilitazione in rete aiutano a
combattere violenze e persecuzioni.
In molte situazioni, in giro per il mondo, le iniziative di libertà o di difesa
degli oppressi sono contrastate dalla censura e repressione di chi vuole
mantenere un perverso status quo. Si rendono conto, i censori di casa
nostra, che mentre fingono di essere difensori delle vittime sono alleati e
discepoli dei carnefici?
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