Corte di Cassazione -
Sezione V Penale
Sentenza n.4741/2000 del 17 novembre 2000
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE V PENALE
Ha pronunciato la seguente
SENTENZA
La Corte osserva in fatto
D. M., con atto di querela datato 1 marzo 2000, esponeva al Pm di Genova che su
alcuni "siti" internet erano stati pubblicati scritti ed immagini,
lesivi della sua reputazione e della privacy sua e delle figlie minorenni, D. e
Da.. Riferiva il D. che le due minori, nate dal suo matrimonio con T. P., erano
state affidate ad entrambi i genitori al momento della separazione legale degli
stessi. Successivamente, la madre aveva arbitrariamente portato con sé le due
bambine in Israele, dove ella si era risposata con un rabbino, aderendo ad una
"versione" particolarmente rigorosa ed "ultraortodossa"
della religione ebraica. D. e Da., rintracciate dalle autorità israeliane,
erano state affidate al solo padre (il D., appunto) che le aveva condotte con
sé in Italia. A partire da tale momento, su alcuni "siti" internet,
erano stati immessi scritti ed immagini, che riferivano ed illustravano la
vicenda appena esposta, formulando giudizi estremamente negativi e diffamatori
sulla personalità e sul comportamento del D. (oltre che sull'operato della
autorità giudiziaria italiana), nonchè messaggi contenenti l'invito, rivolto
agli aderenti alla religione ebraica, a "liberare" le due minori,
"tenute prigioniere" dal padre, che impediva loro di professare i
culti relativi alla predetta fede religiosa.
Il Pm genovese avviava attività di indagine, ipotizzando la commissione del
reato previsto dall'articolo 35 legge 685/96 e di quello ex articolo 595 Cp. Con
riferimento solo a tale secondo reato, disponeva quindi il sequestro preventivo
in epigrafe indicato, misura che il Gip non convalidava, ritenendo insussistente
il fumus del reato di diffamazione, e sostenendo che il sequestro rappresentava
uno strumento inappropriato, dal momento che scritti ed immagini su internet
possono variare continuamente. Secondo il Gip, il provvedimento era
inappropriato anche in considerazione del fatto che il sequestro avrebbe
inevitabilmente colpito il provider, la cui responsabilità, in assenza di una
norma come quella di cui all'articolo 57 Cp, avrebbe potuto essere ritenuta solo
a titolo di concorso nel reato (ipotesi non coltivata dal requirente). Infine il
Gip rilevava che il sequestro si sarebbe necessariamente dovuto estendere anche
al server, comportando il "blocco" di numerosi altri "siti"
del tutto estranei a quelli per i quali il Pm stava procedendo.
Il tribunale del riesame, investito dell'appello del Pm, riteneva, viceversa,
pienamente sussistente il fumus criminis, mentre giudicava irrilevanti, ai fini
della convalida, tutti i rilievi relativi alla fase esecutiva del provvedimento,
in quanto non attinenti all'oggetto della convalida stessa; ciò nonostante,
l'appello veniva rigettato, ravvisando il giudicante il difetto di giurisdizione
della Autorità giudiziaria italiana, per il fatto che i "siti"
internet di cui sopra risultavano "pubblicati" all'estero ed il reato
doveva considerarsi commesso al di fuori del territorio nazionale.
Propone ricorso per Cassazione il Procuratore della repubblica presso il
tribunale di Genova, deducendo erronea applicazione della legge penale.
Sostiene che il reato di diffamazione si consuma nel momento e nel luogo in cui
si manifesta la diffusione delle espressioni offensive. Orbene la diffusione
costituisce concetto e momento differente dalla pubblicazione. La diffamazione
è sicuramente, secondo la sua opinione, reato istantaneo di pura condotta, ma
la condotta consiste nella comunicazione con più persone; a tanto consegue che
il reato si consuma nel momento in cui i destinatari percepiscono le espressioni
diffamatorie (consistendo in questo, in pratica, la comunicazione). La
percezione, pertanto, afferma il ricorrente, non è l'evento del reato, ma ne è
elemento costitutivo, in quanto fa parte della condotta dell'agente; essa non
integra il danno, che viceversa si verifica nel momento in cui l'interessato,
percependo le espressioni offensive che lo riguardano (ma che sono dirette a
terze persone), sente lesa la propria reputazione. Riferendo tali principi al
caso di specie, si deve giungere alla conclusione che il reato (ma non il danno)
si è perfezionato nel momento in cui il messaggio, diffuso sul
"sito", viene percepito da una pluralità di persone che a detto sito
accedono. Dunque, poiché la percezione del contenuto offensivo dei messaggi è
avvenuta in Italia, il reato deve essere considerato commesso sul territorio
nazionale. Invero, l'articolo 6 Cp accoglie il principio della cosiddetta
ubiquità, in base alla quale viene estesa, per quanto possibile, la
applicazione della legge italiana. D'altronde, non vi è nessuna ragione per
ritenere che la comunicazione in Italia sia avvenuta successivamente a quella
verificatasi in altre parti del mondo. Pertanto è arbitrario, per il Pm
ricorrente, ipotizzare che il reato si sia perfezionato altrove, piuttosto che
nel nostro Paese.
La Corte ritiene in diritto
Allo scopo di decidere correttamente una questione, quale quella prospettata,
che presenta, senza dubbio, alcuni caratteri di novità. Appare innanzitutto
opportuno verificare come si caratterizzi il delitto di diffamazione consumato
con quel nuovo mezzo di trasmissione-comunicazione che prende il nome di
internet.
Il legislatore, pur mostrando di aver preso in considerazione la esistenza di
nuovi strumenti di comunicazione, telematici ed informatici (si veda, ad
esempio, l'articolo 623bis Cp in tema di reati contro la inviolabilità dei
segreti), non ha ritenuto di dover mutare o integrare la lettera della legge con
riferimento a reati (e, tra questi, certamente quelli contro l'onore), la cui
condotta consiste nella (o presuppone la) comunicazione dell'agente con terze
persone. E, tuttavia, che i reati previsti dagli articoli 594 e 595 Cp possano
essere commessi anche per via telematica o informatica, è addirittura
intuitivo; basterebbe pensare alla cosiddetta trasmissione via e-mail, per
rendersi conto che è certamente possibile che un agente, inviando a più
persone messaggi atti ad offendere un soggetto, realizzi la condotta tipica del
delitto di ingiuria (se il destinatario è lo stesso soggetto offeso) o di
diffamazione (se i destinatari sono persone diverse).
Se invece della comunicazione diretta, l'agente "immette" il messaggio
"in rete", l'azione è, ovviamente, altrettanto idonea a ledere il
bene giuridico dell'onore. Per quanto specificamente riguarda il reato di
diffamazione, è infatti noto che esso si consuma anche se la comunicazione con
più persone e/o la percezione da parte di costoro del messaggio non siano
contemporanee (alla trasmissione) e contestuali (tra di loro), ben potendo i
destinatari trovarsi persino a grande distanza gli uni dagli altri, ovvero
dall'agente. Ma, mentre, nel caso, di diffamazione commessa, ad esempio, a mezzo
posta, telegramma o, appunto, e-mail, è necessario che l'agente compili e
spedisca una serie di messaggi a più destinatari, nel caso in cui egli crei o
utilizzi uno spazio web, la comunicazione deve intendersi effettuata
potenzialmente erga omnes (sia pure nel ristretto - ma non troppo - ambito di
tutti coloro che abbiano gli strumenti, la capacità tecnica e, nel caso di siti
a pagamento, la legittimazione, a "connettersi"). Partendo da tale -
ovvia - premessa, si giunge agevolmente alla conclusione che, anzi, l'utilizzo
di internet integra una delle ipotesi aggravate di cui dell'articolo 595 Cp
(comma terzo: "offesa recata ... con qualsiasi altro mezzo di
pubblicità"). Anche in questo caso, infatti, con tutta evidenza, la
particolare diffusività del mezzo usato per propagare il messaggio denigratorio
rende l'agente meritevole di un più severo trattamento penale. Né la
eventualità che tra i fruitori del messaggio vi sia anche la persona nei cui
confronti vengono formulate le espressioni offensive può indurre a ritenere
che, in realtà, venga, in tale maniera, integrato il delitto di ingiuria
(magari aggravata ai sensi del quarto comma dell'articolo 594 Cp), piuttosto che
quello di diffamazione. Infatti il mezzo di trasmissione-comunicazione adoperato
(appunto internet), certamente consente, in astratto, (anche) al soggetto
vilipeso di percepire direttamente l'offesa, ma il messaggio è diretto ad una
cerchia talmente vasta di fruitori, che l'addebito lesivo si colloca in una
dimensione ben più ampia di quella interpersonale tra offensore ed offeso.
D'altronde, anche per altri media si verifica la medesima situazione. Un'offesa
propagata dai giornali o dalla radio-televisione è sicuramente percepibile
anche dal diretto interessato, ma la fattispecie criminosa che, in tal modo, si
realizza è, pacificamente, quella ex articolo 595 Cp e non quella ex articolo
594.
Peraltro, la diffusività e la pervasività di internet sono solo lontanamente
paragonabili a quelle della stampa ovvero delle trasmissioni radio-televisive.
Internet è, senza alcun dubbio, un mezzo di comunicazione più
"democratico" (chiunque, con costi relativamente contenuti e con un
apparato tecnologico modesto, può creare un proprio "sito", ovvero
utilizzarne uno altrui). Le informazioni e le immagini immesse "in
rete", relative a qualsiasi persona sono fruibili (potenzialmente) in
qualsiasi parte del mondo. Ma proprio questo è il nodo che qui interessa
sciogliere, dal momento che, in considerazione della caratterizzazione
"transnazionale" dello strumento adoperato, può apparire, in un primo
momento, problematica la individuazione del luogo in cui deve ritenersi
consumato il delitto commesso "a mezzo internet". In realtà, una
espressione ingiuriosa, una immagine denigratoria, una valutazione poco
lusinghiera inserite in un "sito" web sono soggette ad una diffusione
al di fuori di ogni controllo e di ogni ragionevole possibilità di
"blocco", se non attraverso i mezzi coercitivi legalmente riservati
alla pubblica autorità (e sempre che siano disponibili adeguati strumenti
tecnici). Ma, va da sé, le procedure, appunto legali o tecniche, hanno bisogno
di tempi lunghi, mentre il messaggio veicolato dal computer si propaga
fulmineamente.
Per il tribunale di Genova, si è in presenza di una vera e propria lacuna
legislativa, dal momento che non sarebbero perseguibili in Italia quelle azioni
diffamatorie consumate tramite internet, nella ipotesi in cui la diffusione del
messaggio sia partita dall'estero; e ciò anche nel caso in cui il provider sia
italiano. Ed invero, fatta salva la ipotesi di concorso nel reato, quest'ultimo
non è responsabile del contenuto dei di messaggi trasmessi. Osservano ancora i
giudici del Riesame che non è prevista deroga ai comuni criteri di attribuzione
della giurisdizione. Infatti il tetto sanzionatorio dell'articolo 595 Cp rende
inapplicabili le disposizioni degli articoli 7 e 10 Cp (in tema di reati
commessi all'estero) mentre, per altro verso, manca una norma derogatoria della
competenza come quella prevista dall'articolo 30 legge 6 agosto 1990 n. 223,
che, come è noto, stabilisce che, in materia di diffamazione televisiva o
radiofonica, foro competente è quello del luogo della persona offesa.
Conseguentemente, si legge nel provvedimento impugnato, nel caso di diffamazione
"a mezzo internet", se la diffusione è avvenuta fuori dai confini
dello Stato italiano, anche la consumazione deve ritenersi avvenuta all'estero.
Questo perché la diffamazione si consuma, secondo quanto si legge nel
provvedimento impugnato, nel momento in cui si verifica la diffusione della
manifestazione offensiva diretta a più persone e, in caso di manifestazione
separata, alla seconda persona. Quindi, quando il messaggio è stato diffuso su
sito internet, benché esso sia leggibile (anche) in Italia, ciò non significa
che parte della condotta si sia necessariamente verificata sul nostro territorio
nazionale. Si tratta, infatti, scrive il giudice a quo, di reato istantaneo ed
in Italia si è verificata solo parte della diffusione, se non la mera
percezione; in tale momento (percezione da parte dell'interessato) si verifica
il danno, ma non si consuma, secondo il Riesame, il reato, in quanto gli
elementi costitutivi della fattispecie sono già tutti presenti.
L'assunto è errato.
Va innanzitutto chiarito che la possibilità di dare applicazione alla legge
penale italiana dipende essenzialmente dalla concreta formulazione delle singole
norme incriminatrici, strutturate, di volta in volta, come reati commissivi od
omissivi, di danno o di pericolo, di pura condotta o di evento, ecc.
La diffamazione, contrariamente a quello che il Riesame e lo stesso Pm
ricorrente affermano, è un reato di evento, inteso quest'ultimo come
avvenimento esterno all'agente e causalmente collegato al comportamento di
costui. Si tratta di evento non fisico, ma, per così dire, psicologico,
consistente nella percezione da parte del terzo (rectius dei terzi) della
espressione offensiva. Pertanto è sicuramente in errore il ricorrente quando, a
proposito, appunto, della percezione, scrive che essa è elemento costitutivo
della condotta; in realtà la percezione è atto non certamente ascrivibile
all'agente, ma a soggetto diverso, anche se - senza dubbio - essa è conseguenza
dell'operato dell'agente.
Il reato, dunque, si consuma non al momento della diffusione del messaggio
offensivo, ma al momento della percezione dello stesso da parte di soggetti che
siano "terzi" rispetto all'agente ed alla persona offesa. Sul punto,
ha avuto modo di pronunziarsi, sia pure implicitamente, la giurisprudenza di
questa Corte (Asn 199908118 - Rv 214128; Asn 199202883 - Rv 189928; Asn
198100847 - Rv 147558; Asn 198100847 - Rv 147405).
Per di più, nel caso in cui l'offesa venga arrecata tramite internet, l'evento
appare temporalmente, oltre che concettualmente, ben differenziato dalla
condotta. Ed invero, in un primo momento, si avrà l'inserimento "in
rete", da parte dell'agente, degli scritti offensivi e/o delle immagini
denigratorie, e, solo in un secondo momento (a distanza di secondi, minuti, ore,
giorni ecc.), i terzi, connettendosi con il "sito" e percependo il
messaggio, consentiranno la verificazione dell'evento. Tanto ciò è vero, che,
nel caso in esame sono ben immaginabili sia il tentativo (l'evento non si
verifica perché, in ipotesi, per una qualsiasi ragione, nessuno
"visita" quel "sito"), sia il reato impossibile (l'azione è
inidonea, perché, ad esempio, l'agente fa uso di uno strumento difettoso, che
solo apparentemente gli consente l'accesso ad uno spazio web, mentre in realtà
il suo messaggio non è masi stato immesso "in rete").
Orbene, l'articolo 6 Cp, al comma secondo, stabilisce che il reato si considera
commesso nel territorio dello Stato, quando su di esso si sia verificata, in
tutto, ma anche in parte, l'azione o l'omissione, ovvero l'evento che ne sia
conseguenza. La cosiddetta teoria della ubiquità, dunque, consente al giudice
italiano di conoscere del fatto-reato, tanto nel caso in cui sul territorio
nazionale si sia verificata la condotta, quanto in quello in cui su di esso si
sia verificato l'evento. Pertanto, nel caso di un iter criminis iniziato
all'estero e conclusosi (con l'evento) nel nostro Paese, sussiste la potestà
punitiva dello Stato italiano.
A tanto consegue che l'impugnata ordinanza va annullata con rinvio al medesimo
tribunale, che, per il nuovo esame, dovrà fare applicazione del principio di
diritto sopra riportato, verificando innanzitutto se la condotta o l'evento del
reato di diffamazione si siano verificati sul territorio nazionale; trattene
quindi le necessarie conseguenze in tema di giurisdizione, si determinerà in
ordine al gravame interposto dal Pm avverso il provvedimento del Gip del 13
maggio 2000.
PQM
La Corte annulla l'impugnata ordinanza con rinvio al tribunale di Genova per
nuovo esame.
Roma, 17 novembre 2000
(da www.andreamonti.net) |