Tribunale di Napoli - Sentenza 26 febbraio 2002
(Playboy c. Giannattasio)
I SEZIONE CIVILE
in persona del Giudice Monocratico
dott. GEREMIA CASABURI
ha pronunziato la seguente
S E N T E N Z A
nella causa civile iscritta al n. 2697 del ruolo generale degli affari
contenziosi dell' anno 1999, avente ad oggetto: tutela marchio
T R A
PLAYBOY ENTERPRISES INC., società di diritto USA
Elettivamente domiciliata in Napoli, via S. Lucia 20, presso lo studio dell'avv.
Fulvio Marrucco, che la rappresenta e difende unitamente agli avv.ti Fabio
Angelini e Giovanni Antonio Grippiotti (Foro di Roma)
attore
E
GIANNATTASIO MARIO
Elettivamente domiciliato in Napoli, Riviera di Chiaia 18, presso gli avv.ti
Luigi e Luigi jr Campese, che lo rappresentano e difendono.
e
C.S. INFORMATICA DI GILDA COSENZA in persona del legale rappresentante
Elettivamente domiciliata in Napoli, Riviera di Chiaia, piazza Torretta 18,
presso lo studio dell'avv. Bruno Campese, che la rappresenta e difende
unitamente all'avv. Alessandro Braccini (foro di Pisa)
convenuti
E
C.N.R. CENTRO NAZIONALE DELLE RICERCHE
Elettivamente domiciliato ex lege in Napoli, via Diaz 11, presso l'Avvocatura
Distrettuale dello Stato che lo rappresenta e difende
chiamato in causa
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E CONCLUSIONI
Con ricorso ex art. 61 - 63 legge marchi (ma anche richiamando la normativa in
materia di concorrenza sleale e quella a tutela del diritto d'autore) la
società Playboy enterprises Inc (d'ora in avanti: Playboy) esponeva di essere
titolare, tra l'altro, del notissimo marchio Playboy, registrato anche in Italia
(in diverse versioni), e - essendo presente su Internet- di aver anche
registrato sin dal 1994 il nome di dominio playboy.com.
La ricorrente deduceva poi che in rete era apparso un sito web
contraddistinto dl nome www.playboy.it, concesso dall'autorità italiana il 13
marzo 1998, a seguito di richiesta di tale Mario Giannattasio; il provider era
la CS informatica, ditta individuale con sede in Pisa. Si tratta di un sito a
pagamento, e ha contenuto erotico e/o pornografico. La società ricorrente non
aveva mai autorizzato l'uso del proprio nome; il sito, inoltre, conteneva
fotografie di proprietà dell'istante.
Da qui la domanda cautelare volta conseguire l'inibitoria all'uso, da parte
dei resistenti indicati, del proprio marchio in Internet, come nome di dominio;
l'istante aveva altresì richiesto ordinarsi la cancellazione dal sito del
Giannattasio delle proprie fotografie, la pubblicazione per estratto del
provvedimento sulla stampa e - infine - la previsione di una penale ex art. 63
cpv legge marchi.
Il provvedimento di inibitoria veniva concesso dal GD con decreto del 2 dicembre
1998, confermato, all'esito di istruttoria cautelare a contraddittorio integro,
con ordinanza del 14 gennaio 1999, a sua volta confermata anche all'esito del
giudizio di reclamo con ordinanza del 24 marzo 1999 (GADI, 3992)
Con atto di citazione, notificato il 27 febbraio 1999, Playboy instaurava il
giudizio di merito, chiedendo nei confronti del Giannattasio e della CS
Informatica di Gilda Cosenza:
a) accertare che l'uso del termine Playboy da parte del convenuto Giannattasio
come domain name identificante l'omonimo sito web costituisce contraffazione del
marchio Playboy e della omonima denominazione sociale;
b) inibirsi al Giannattasio l'uso in qualsiasi forma del termine Playboy;
c) ordinarsi al medesimo la cancellazione del domain name cit. e la
cancellazione di ogni riferimento al marchio in questione, in qualsiasi forma,
anche come metatag;
d) condannarsi entrambi i convenuti al risarcimento dei danni sia per la
contraffazione del marchio che per concorrenza sleale e per la violazione della
normativa in materia di diritto d'autore (importo quantificato in ultimo in lire
500.000.000) e) pubblicazione della sentenza su giornali e siti web.
Il Giannattasio si costituiva e chiedeva il rigetto della domanda proposta
nei suoi confronti, deducendone l'infondatezza.
La C.S. informatica pure si costituiva e chiedeva il rigetto della domanda, e in
via riconvenzionale la condanna della società attrice ai danni; su
autorizzazione del GI chiamava in causa, per esserne garantita, con atto
notificato il 23 6 1999, la R.A. italiana- GARR, Istituto per le applicazione
telematiche del CNR (consiglio nazionale delle ricerche).
Si costituiva il CNR (l'istituto per le applicazioni telematiche ne è
organo, non dotato di personalità giuridica) e chiedeva il rigetto della
domanda nei propri confronti.
All'esito, le parti concludevano come in atti; l'attore inoltre chiedeva che,
accertato il proprio esclusivo diritto di marchio quanto al termine Playboy,
anche come domain name, si ordinasse alla RA l'assegnazione del dominio
Playboy.it. a favore della licenziataria esclusiva europea Playboy Products and
Services International B.V.
La causa veniva quindi assegnata in decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
A) INTERNET E DIRITTO, PREMESSA DI METODO
1) Criteri di redazione della sentenza, in particolare con riferimento ad
INTERNET
Va subito svolta una precisazione di metodo.
Il Tribunale - consapevole della rilevanza della controversia, anche economica,
e della complessità delle problematiche giuridiche connesse - intende rendere
conto in modo compiuto delle ragioni giuridiche della propria decisione,
adottata a cognizione piena (si tratta, oltretutto, verosimilmente, di una delle
prime sentenze in materia).
Resta fermo, tuttavia, che qualunque provvedimento giurisdizionale, per quanto
ampiamente motivato, non può e non deve avere le caratteristiche
dell'intervento dottrinale, per l'intuitiva radicale diversità di funzione.
Il Tribunale si atterrà perciò ai criteri dettati per la motivazione delle
sentenze dall'art. 132 n. 4 C.P.C. e 118 norme di att. : si riporteranno le
ragioni giuridiche (e i relativi presupposti di fatto) della decisione, vale a
dire il percorso logico - giuridico seguito ed i principi di diritto applicati,
evitando di riportare quegli argomenti , anche prospettati dalle parti, non
condivisi (Cass. 10 giugno 1997, n. 5169, Giust. Civ., Mass. 1997, 952, id., 11
febbraio 1998, n. 1390, ivi, 1998, 301).
Ciò con la massima concisione possibile, compatibilmente con la esigenza di
rendere conto in modo esaustivo delle numerose questioni che la decisione
implica (specie a fronte, lo si rileva incidentalmente, dell'ampiezza degli
scritti difensivi, soprattutto di parte attrice); è poi evidente che sarà
osservata la prescrizione dell'art. 118 comma 3 cit. (fermo che
dell'elaborazione dottrinale, reperita anche a mezzo di ricerca on line, si
terrà conto).
Il Tribunale, inoltre, ridurrà al minimo la descrizione di dati e procedimenti
tecnici, relativi ad Internet : si tratta infatti di nozioni - e di definizioni
- che già possono considerarsi di dominio comune, almeno per gli operatori
giuridici, e comunque - nel presente giudizio- non controverse, né possibile
fonte di confusione.
2) INTERNET e diritto: "crisi" dell'Ordinamento
La controversia per cui è causa è di agevole soluzione in fatto; di contro
presenta profili di notevole complessità in diritto.
Ciò per due ordini di motivi, d'altronde ben noti agli operatori giuridici:
in primo luogo il fenomeno Internet (si adotta volutamente tale sintetica e
atecnica indicazione generale) non ha ancora avuto, in Italia, una specifica
regolamentazione normativa, tantomeno a livello legislativo, sia pure solo
settoriale (ma v. il disegno di legge n. 4594, meglio noto come d.d.l. Passigli,
presentato in Parlamento la scorsa legislatura, poi decaduto, come altri con lo
stesso oggetto, Giust. Civ. 2000, II, 493; Foro It., 2000, I, 2337).
In secondo luogo l'emersione giurisprudenziale degli aspetti giuridici di
Internet è - sempre nel nostro Paese- ancora relativamente recente: i primi
provvedimenti editi sono del 1996, per un totale - ad oggi - di circa un
centinaio (v., per una ricognizione quasi esaustiva, i provvedimenti riportati
in Galli, I domaine nomes nella giurisprudenza, Milano, 2001, da ora in avanti:
Galli ).
D'altronde la stessa diffusione, in Italia, della rete , è divenuta rilevante
solo nella seconda metà dello scorso decennio, pur se con un ritmo di
espansione che può ormai considerarsi esponenziale.
Tale evoluzione tecnonologica ha quindi messo in crisi il diritto, nel senso che
ha determinato delle lacune dell'ordinamento giuridico, vere o supposte.
Ciò - oltretutto - a fronte della oggettiva pericolosità del fenomeno
Internet, che per le sue stesse caratteristiche (l'immaterialità, cui è
correlata la mancanza di definitività temporale, la costante inesorabile
mutevolezza.) è fonte di molteplici illeciti .
Tuttavia il Tribunale reputa che sia - ancorché utopistico - giuridicamente
errato configurare l'esistenza di un (non meglio definito) cyberdiritto, con
regole proprie (non è dato sapere poste da chi).
Costituisce poi addirittura una sorta di rinuncia allo svolgimento della
funzione giudiziaria l'interpretazione "tecnocratica" sostenuta da una
del tutto minoritaria giurisprudenza "toscana" (v. infra) secondo cui
«finchè Internet in Italia non è regolata, normata ed in qualche modo inclusa
nell'ordinamento giuridico generale.. gli aspetti operativi, tecnici e logici
. prevalgano sull'utilità che la singola impresa può ricavare dalla
corrispondenza nome - dominio».
D'altronde - in termini ancor più generali - è criticabile, alla stregua delle
stesse regole della lingua italiana, l'uso, e l'abuso, riferito alla rete, delle
parole multimediale e, soprattutto, virtuale (Internet è infatti un fenomeno
ben tangibile, nel senso che appartiene - e come - al mondo reale). Sicchè, nel
caso di specie, la richiesta - da parte della società attrice - di una tutela
ultramediatica appare inutilmente suggestiva.
3) Verso il superamento delle lacune
Il Tribunale, anche considerando che la sentenza impone una riflessione più
pacata rispetto a quella consentita dai provvedimenti cautelari, avverte allora
la necessità di ribadire che il fenomeno Internet, come tutti quelli che
interessano l'Uomo, non può sottrarsi alla regolamentazione giuridica.
E' infatti vero che Internet è una rete aperta, senza "padroni", cui
tutti possono potenzialmente accedere (No one owns Internet), e che dà luogo a
manifestazioni anarchiche: ma ciò non significa anche che sia una sorta di
entità astratta, sottratta ad ogni norma che non sia strettamente tecnica.
A fronte della complessità del fenomeno taluno ha ritenuto che possa essere
definito solo in negativo, per quel che non è: ma - per quel che qui interessa
- Internet, (utilizzando così una delle tante possibili definizioni) null'altro
è che «il fenomeno telematico conseguente alla interconnessione dei computer
che, attraverso l'utilizzo delle reti di telecomunicazioni esistenti, possono
dialogare utilizzando protocolli univoci e servizi di comunicazione
standardizzati».
E' cioè un fenomeno di comunicazione, anche d'impresa, ove la pubblicità
commerciale ha un ruolo di grande rilievo; in definitiva è un fenomeno nuovo,
certo, ma non incompatibile con le categorie giuridiche già conosciute.
L'emersione di lacune dell'ordinamento a fronte di innovazioni tecnologiche,
d'altronde, costituisce un fenomeno non nuovo: possono ricordasi i rilevanti
problemi giuridici, anche di ordine internazionalistico, seguiti alla diffusione
del telefono (invenzione che, in un certo senso, si pone all'inizio di un
percorso che ha condotto proprio ad Internet); e si rifletta anche sugli
sviluppi "indotti" al tradizionale diritto della navigazione dalla
nascita e dalla diffusione della aviazione.
Vuole dirsi che l'Ordinamento - anche a fronte di innovazioni vissute dai
contemporanei come rivoluzionarie - ha sempre trovato, in sé stesso, i rimedi,
in un certo senso gli anticorpi, assimilando (e quindi dando veste giuridica) al
fenomeno nuovo: ciò in un primo momento ad opera degli interpreti (giudici e
studiosi), che si avvalgono, soprattutto, dell'analogia e dell'interpretazione
estensiva (pur se le soluzioni iniziali sono talora inappaganti ed inadeguate) ;
in un secondo momento, e non necessariamente, interviene il legislatore.
Così è accaduto e sta tuttora accadendo anche - e questa volta di recente -
per le implicazioni giuridiche dell'informatica (oggetto, ormai, di non pochi
interventi legislativi, nei settori più diversi, anche processuali), così
sicuramente sta accadendo e accadrà per Internet (che dell'informatica è pur
sempre espressione).
Allo stato, grazie anche a contributi dottrinali sempre più approfonditi (e
attenti alle elaborazioni straniere, sviluppate evidentemente specie negli USA)
possono ritenersi ormai già formati orientamenti costanti per diversi e
importanti aspetti del fenomeno: si allude, in primo luogo, alla sicura, estesa
applicabilità della disciplina della proprietà intellettuale ed industriale.
Il Tribunale, in definitiva, condivide l'opinione, autorevolmente espressa,
secondo cui Internet è un fenomeno non troppo dissimile, in ultima analisi,
"dal già conosciuto": e ad esso possono allora ampiamente applicarsi
modelli normativi e metodi di ragionamento già in uso, con gli opportuni
adattamenti.
4) INTERNET e la giurisprudenza
La strada da percorrere, beninteso, è ancora impervia: è infatti innegabile
che esistono ampie zone d'ombra, poco esplorate , o anche del tutto trascurate,
su aspetti pure di grande rilievo di INTERNET (v. infra sulla responsabilità
del provider e della R.A.).
Infine - ed è rilievo di non poco conto - la giurisprudenza edita è tutta di
merito, in quanto la Corte di Cassazione non ha ancora potuto esercitare la
propria funzione nomofilattica, ex art. 65 Ord. Giud.
Anzi, a ben considerare, i provvedimenti editi sono pressochè esclusivamente
ordinanze cautelari (alcune collegiali, emesse in sede di reclamo, ex art. 669
terdecies c.p.c.), pronunciate ai sensi dell'art. 700 c.p.c. , o anche degli
artt. 61 - 63 R.D. 21 giugno 1942 n. 929 (in seguito: legge marchi); la
inevitabile sommarietà della decisione cautelare, che si traduce- per i profili
di diritto - nel mero accertamento della possibile fondatezza della pretesa
della parte ricorrente (fumus boni iuris) comporta anche, talora, una eccessiva
stringatezza (se non superficialità) di non poche delle motivazioni dei
provvedimenti in parola.
5) Gli illeciti in Internet
A fronte delle enormi potenzialità ed ella inesauribile ricchezza di
contenuti di Internet possono configurarsi -come già accennato - gli illeciti
più diversi.
Dottrina e giurisprudenza segnalano in particolare la possibilità che, in rete,
circolino messaggi diffamatori, o per quanto qui interessa, che sia violata la
normativa sul diritto d'autore, ovvero sulle privative industrialistiche, o
infine che siano commesse condotte di concorrenza sleale.
Ad una pluralità di discipline normative invocabili corrisponde, evidentemente,
una pluralità di titoli di responsabilità.
È un dato acquisito che il sistema di responsabilità civile è ormai
policentrico.
Una prima fondamentale distinzione è tra responsabilità di fonte contrattuale
e illecito extracontrattuale; contrattuali sono in primo luogo i rapporti tra
titolare del sito e provider e (come nella specie) tra quest'ultimo e RA.
(ulteriori rapporti contrattuali sussistono tra il provider e il concessionario
dell'infrastruttura di base).
La dottrina, al riguardo, configura contratti atipici, con elementi di taluni
contratti nominati.
Nella specie la responsabilità delle parti convenute dalla Playboy è - fin
alla prospettazione della citazione - di tipo aquiliano; è d'altronde appena il
caso di ricordare che la società attrice ha proposto l'azione di contraffazione
(chiedendo il relativo risarcimento) ed e art. 2598 ss c.c.
B) INTERNET , DOMAIN NAME e SEGNI DISTINTIVI
6) L'interferenza tra domain name e segni distintivi: la normativa applicabile;
l'orientamento prevalente.
L'uso commerciale dei domain names solleva il problema della interferenza con
i segni distintivi dell'impresa; infatti i domain names talora coincidono con
marchi o altri segni distintivi altrui, o comunque presentano elementi di
somiglianza con questi ultimi.
Il primo problema da affrontare è allora quello della qualificazione giuridica
dei domain names e, quindi, della individuazione delle norme applicabili, in
primo luogo per risolvere i conflitti scaturenti dalle interferenze sopra
richiamate .
Si tratta della questione di maggiore rilievo e che però ormai pone i minori
problemi, in quanto sul punto dottrina e giurisprudenza hanno raggiunto
risultati univoci e difficilmente reversibili, cui il Tribunale aderisce (il che
lo esonera, evidentemente, da particolari approfondimenti).
Si è già affermato che Internet costituisce in primo luogo una forma di
comunicazione, anche di impresa, nonché un veicolo pubblicitario (Garante
concorr. mercato 27 marzo 1997, n. 4820, Dir. industriale 1997,1064).
Da qui allora l'applicabilità delle regole in materia di segni distintivi:
questi ultimi a loro volta mezzi di comunicazione d'impresa, specie alla stregua
delle concezioni più avanzate che saranno esaminate in prosieguo.
Costituisce così principio ormai consolidato che
«per la sua capacità di identificare l'utilizzatore del sito web ed i servizi
di varia natura da essi offerti al pubblico, il domain name assume le
caratteristiche e la funzione di un vero e proprio segno distintivo, che può
dar luogo a problemi sul piano della tutela della proprietà intellettuale,
potendosi verificare casi di confusione con i segni distintivi di altre imprese,
anche non presenti sulla rete Internet», v. Trib. Napoli 24 marzo 1999 cit. (è
il provvedimento di reclamo della fase cautelare del presente giudizio, che pure
mai le parti hanno richiamato nelle proprie difese). Il leading case è ritenuto
Trib. Milano 10 giugno 1997, GADI, 3666, Foro it. 1998,I, 923 caso Amadeus: «Va
inibito, in quanto integra contraffazione del marchio Amadeus, l'utilizzo della
denominazione Amadeus.It. quale "domain name" di un sito Internet
destinato ad ospitare offerte di servizi commerciali di natura analoga a quelli
prestati dalla societa' titolare del marchio predetto».
Pertanto è senz'altro illecito l'uso di un domain name confondibile con un
segno distintivo altrui anteriore (e non solo quando l'appropriazione di
quest'ultimo (con la registrazione del domain name) è avvenuta all'esclusivo
scopo di ottenere un ingiusto profitto, c.d. domain grabing).
E' veramente superfluo richiamare ulteriore giurisprudenza (comunque
analiticamente riportata in Galli, op. cit.), tranne forse - per la completezza
della motivazione - Trib. Viterbo 24 gennaio 2000, caso Touring, Corr. Giur.
2000, 1367; GADI, 4124; Foro It.. 2000, I, 2334.
7) segue: . e la tesi minoritaria
E' invece assolutamente minoritario, al punto di essere definito dai
commentatori "anarchico" e addirittura "bizzarro"
l'orientamento espresso da alcune decisioni toscane (Trib. Firenze 29 giugno
2000, Dir. Ind., 2000, 331; id. sezione dist. di Empoli 23 novembre 2000, Giur.
It. 2001, 1902, ; ma v. anche Trib. Bari, 24 luglio 1996, Foro It., 1997, I,
2316), secondo cui «la funzione del domain name system è solo quella di
consentire a chiunque di raggiungere una pagina web e, in quanto mezzo operativo
e tecnico - logico, non può porsi per esso un problema di violazione del
marchio di impresa, della sua denominazione o dei suoi segni distintivi».
Si giunge ad affermare, da parte di tali decisioni, fatte evidentemente proprie
nella specie dai convenuti, che il domain name è solo un mero indirizzo
numerico, tradotto in lettere alfabetiche: una sorta di numero telefonico.
E' stato però agevole replicare che il domain name -oltretutto liberamente
scelto dal titolare (nel rispetto delle regole tecniche), è solo tecnicamente
un indirizzo, ma nell'uso commerciale, specie nella prospettiva della
pubblicità e del commercio elettronico - e di rimando giuridicamente - può
avere in concreto le stesse funzioni dei segni tipici dell'imprenditore, ed è
suscettibile di conflitto con questi ultimi.
Così Trib. Modena 1 agosto 2000, Giur. merito 2001, 328 che inoltre -
espressamente confutando i provvedimenti toscani surrichiamati - ha sottolineato
che il domain name può avere in comune con i segni "tradizionali"
soprattutto la natura di rappresentazione grafica (denominativa), prescelta dal
titolare per far riconoscere la propria attività o i propri prodotti rispetto
agli altri (capacità identificativa specifica).
Al più può riconoscersi - come ritenuto da alcuni provvedimenti- che la
qualifica dei domain names come meri indirizzi telematici o come segni
distintivi andrebbe determinata in concreto caso per caso, v. Trib. Modena, 27
luglio 2000, id., 328.
D'altronde la possibilità che l'uso di un indirizzo costituisca violazione di
un altrui segno distintivo si desume agevolmente dall'art. 1-bis, comma 1°
legge marchi.
Il valore e la funzione commerciale dei domain name, inoltre, sta anche nella
loro capacità - economicamente rilevantissima - di "catturare" il
consumatore nella rete, orientandone le scelte di consumo.
In particolare l'importanza dei domain names, coincidenti con segni distintivi,
sta nel fatto che consentono all'utente medio, di individuare l'indirizzo di una
impresa anche senza conoscerlo a priori, attraverso una ricerca semplice ed
intuitiva.
Essi allora, in quanto consentono di individuare nella rete un soggetto
commerciale, sono a loro volta segni distintivi: è stato giustamente rilevato
che i domain names sono davvero - come si è rilevato - "la chiave"
per l'ingresso nella new economy , e segnano inevitabilmente il divario tra il
mercato tradizionale e la rete Internet.
Infine sembra che il vulnus all'uniformità dell'insegnamento giurisprudenziale
sopra esposto sia stato "cicatrizzato" dalla stessa giurisprudenza
toscana successiva; così Trib. Firenze, 28 maggio 2001, Guida al diritto, 2001,
fasc. 37, 39, che ha riformato id. sez. distaccata Empoli 23 novembre 2000, Dir.
Inf. 2001, 509., ha prestato piena adesione all'accostamento tra domain name e
segni distintivi dell'impresa.
8) Domain name, insegne marchi e segni atipici
Vi è invece qualche perplessità, in giurisprudenza, sul tipo di segno
distintivo cui il domain name è riconducibile: Trib. Milano 10 giugno 1997, cit,
richiama l'insegna «in quanto il sito spesso configura di fatto il luogo
(virtuale) ove l'imprenditore contatta il cliente al fine di concludere con esso
il contratto»; v. anche Trib. Ivrea 19 luglio 2000 Dir. Ind. 2001, 177; in tale
prospettiva la tutela è essenzialmente quella prestata ex art. 2598 c.c.
Tale accostamento, certo suggestivo, è stato criticato in dottrina,
osservandosi che non sempre il sito contrassegnato dal domain name è strumento
per l'esercizio di una attività economica. Anche in tale ipotesi, d'altronde il
domain name contrassegna generalmente prodotti (venduti in quel sito), o
servizi; ed allora potrebbe essere meglio assimilato ad un marchio.
Effettivamente domain names e marchi assolvono una funzione che può definirsi
induttiva, in quanto - attraverso una serie di associazioni mentali - comunicano
informazioni e suggestioni su un certo prodotto o servizio.
La dottrina e la giurisprudenza più recenti, infatti, a seguito soprattutto
della novella del 1992 alle legge marchi, hanno sottolineato che il marchio non
ha più la funzione solo distintiva, di origine di provenienza, ma anche - e
sotto il profilo economico soprattutto - quella pubblicitaria e di garanzia (pur
se non in senso strettamente giuridico) della qualità del prodotto o del
servizio cui si riferiscono.
L'equiparazione al marchio, peraltro, non può essere piena: diversissimi sono i
presupposti per la registrazione e diversa e anche la natura dei diritti che su
di essi incidono (i domain name sono solo assegnati in uso).
Marginale è poi l'accostamento alla testata giornalistica (v. Trib.
Viterbo,. 24 gennaio 2000 secondo cui « un sito del world wide web (può)
essere equiparato ad una rivista o altra pubblicazione del tipo cartaceo
classico: con una home page identica alla copertina, il nome della testata
assimilabile al domain name, e le ulteriori pagine del sito identiche alle
pagine che si sfogliano in una rivista cartacea»).
E' preferibile, ad avviso del Tribunale, il richiamo al c.d. segno distintivo
atipico, figura riconosciuta dalla giurisprudenza ( v. - con riferimento allo
slogan pubblicitario - App. Roma 20 gennaio 1981, GADI, 214); ed in realtà il
domain name ha - alla stregua di quanto si è prima rilevato- un valore
giuridico ed economico autonomo, irriducibile ai segni preesistenti.
La questione, in realtà, non è di rilievo decisivo: la giurisprudenza più
avveduta ha avuto modo di sottolineare che - a prescindere dall'etichetta
giuridica che si vuol dare ad un segno - esso, in quanto utilizzato nel
commercio e nell'esercizio di una attività di impresa, se costituisce
contraffazione degli altrui segni distintivi , viola la normativa a tutela di
questi ultimi, nonché può integrare una condotta di concorrenza sleale, arg.
ex Trib. Genova 13 ottobre 1999, Dir. Inf., 2000, 346 (per la tutela anche della
denominazione sociale, a fronte di contraffazione a mezzo di domain name, v.
Trib. Napoli 27 maggio 2000, Giur. Nap., 2001, 3, 93).
In particolare va richiamato l'art. 1 legge marchi, che assicura al titolare del
marchio registrato l'utilizzo esclusivo del proprio segno, con interdizione di
altrui segni uguali o simili (se confusori).
La norma in parola non specifica però i contesti in cui può realizzarsi l'uso
da parte di chi non ne è titolare; pertanto nulla osta a che l'ambiente
Internet si ricondotto a tale previsione; d'altronde - e di converso -- la
tutela non si vanifica solo perché ci sono nuovi strumenti di comunicazione
Così - nella fase cautelare si è già pronunciato anche questo Tribunale,
ord. 24 marzo 1999 cit. : "Poiché la tutela prevista dall'art. 1 l.m. è
strutturata in modo tale da garantire il rispetto dei diritti connessi al
marchio prescindendo dalla tipizzazione del fatto illecito attraverso il quale
detti diritti risultano violati, essa trova immediata e diretta applicazione in
tutti i casi in cui l'utilizzazione di qualsiasi altro segno, ed attraverso
qualsiasi tipo di comportamento, determini la situazione pregiudizievole
contemplata dalla norma. Pertanto anche il domain name, considerata la sua
attitudine identificativa, può rientrare tra i segni idonei in concreto a
creare confusione con il marchio registrato"
Vi è di più: sempre l'art. 1 cpv legge marchi consente al titolare di
utilizzare il proprio marchio nella corrispondenza e nella pubblicità, e anche
tale previsione sembra corrispondere ad alcuni fondamentali profili di Internet
(pur se non prevedibili dal legislatore, del 1941 e anche del 1992); in
particolare può derivarsene il diritto del titolare del marchio all'uso
esclusivo dello stesso come domain name.
E pure riconduce ad Internet, anzi agli stessi domain names, l'art. 13 legge
marchi, che vieta l'adozione di una denominazione uguale o simile all'altrui
marchio; l'art. 17, d'altro canto, stabilisce che non sono nuovi - e non possono
essere registrati - i segni identici o simili ad altro segno già noto come
altrui ditta, denominazione o ragione sociale, insegna.
La dottrina ha d'altronde elaborato, con riferimento alle due ultime norme
citate, il principio di unitarietà dei segni distintivi, e di circolarità
della tutela.
Si afferma così che il segno distintivo è slegato da un determinato e
specifico ambito di operatività; ciascun segno è idoneo a violare o ad essere
violato da segni pur di tipo diverso.
Anche l'uso dei domain names, può dare luogo ad una tale interferenza, non
diversamente da lesioni con altri mezzi, giornali, radio TV.
Da qui l'unitarietà della normativa applicabile: vale a dire che ai domain
names si applicherà, in via diretta e non analogica, la disciplina dei segni
distintivi, in primo luogo - evidentemente - quella archetipale dei marchi.
In termini v. - ad esempio - Trib. Parma, 26 febbraio 2001 (Galli, 76) secondo
cui il domain name è "un nuovo segno distintivo dell'impresa,
suscettibile, in quanto tale, di entrare in conflitto con altri segni
distintivi, in base al principio dell'unità dei segni distintivi desumibile
dall'art. 13 l.m.".
L'applicabilità ad Internet del diritto dei marchi, peraltro, deve misurarsi
- così come può trovare dei limiti - nelle peculiarità del sistema stesso;
così, ad esempio, il sistema Internet non conosce confini, sicchè ad esso è
inapplicabile il principio di territorialità (fondamentale nel diritto dei
marchi), così come non può trovare applicazione il principio di specialità.
Infine non si esamina, perché non richiesta, la possibilità di tutelare la
testata, abusivamente usata come domain name, alla stregua della normativa sul
diritto d'autore (v. Trib. Padova 14 dicembre 1998, Trib. Bari 18 giugno 1998,
Foro It., 1999, 3061).
9) L'irrilevanza del principio first come first served.
La registrazione dei siti, effettuata dalla RA italiana, si regge sul
principio, meramente cronologico, first come first served: chi chiede la
registrazione di un domain name può ottenerla, sempre che il second level non
coincida con altro già registrato (per ragioni tecniche il domain name può
essere assegnato una sola volta).
La RA svolge esclusivamente un controllo tecnico, cui è estraneo il giudizio di
corrispondenza con altri nomi commerciali anteriori.
Da qui il principio, fermamente sostenuto in giurisprudenza, secondo cui la pur
regolare registrazione è inidonea a conferire diritti di sorta; v. Trib.
Cagliari 25 febbraio 2000, Gius, 2519 (relativa alla tutela di un marchio
celebre di fatto); Trib. Vicenza 6 luglio 1998, GADi, 3824; Trib. Roma 2 agosto
1997, caso Porta Portese, Foro It., 1998, I, 923; Dir. industriale 1998, 138. La
regola First come è quindi irrilevante, ai fini che qui interessano: non ha
forza normativa, ma natura al più solo privatistica, e non potrà mai essere
opposta ai terzi.
Pertanto l'uso di un domain name pur correttamente attribuito dal punto di vista
tecnico può ben integrare gli estremi - a seconda dei casi - della lesione del
diritto al nome, o della concorrenza sleale, o della legge marchi; il fatto che
si sia ottenuto il domain name seguendo le regole del sistema non vuol dire che
si sia sottratti dalle norme giuridiche vigenti, che spiegano la loro efficacia
anche in Internet.
10) premessa sulle peculiarità del giudizio di contraffazione
Il giudizio di contraffazione e di confondibilità va condotto alla stregua
dei principi generali ormai consolidati in giurisprudenza, ma risente fortemente
delle peculiarità di Internet.
Si è già detto che per quest'ultimo non può operare il principio di
specialità: infatti in tutto il mondo non possono coesistere due domain name
uguali (principio di univocità), pur se per settori diversissimi, mentre
possono esistere marchi identici, se differenziati per l'ambito merceologico e/o
territoriale di protezione.
Ne segue allora - come giustamente osservato in dottrina - una accentuazione
dell'esclusiva del titolare sull'uso del segno che - sul piano della tutela - si
riflette (favorevolmente per il titolare del segno preesistente) anche sul
giudizio di contraffazione.
Peraltro la contraffazione - e quindi la confondibilità - di un marchio da
parte di un domain name successivo andranno affermate o negate all'esito di una
comparazione condotta solo tra parole, e non tra qualunque segno grafico (v.
Trib. Bergamo 5 maggio 2001, Dir. Inf., 2001, 735, relativa peraltro ad un
marchio con parte denominativa debole).
Infatti il giudizio in parola è necessariamente influenzato dalla essenzialità
grafica dei domain name, che hanno struttura rigida: possono essere costituiti
esclusivamente da una combinazione di lettere in grado di formare parole di
senso compiuto (la portata dell'art. 16 legge marchi, con riferimento ad
Internet, deve essere drasticamente "ridimensionata").
Pertanto il giudizio in parola va condotto tra un marchio denominativo (ovvero
tra la parte denominativa di un marchio complesso, se ne costituisce il cuore)
di cui si lamenta la contraffazione in rete, da un lato, e il domain name che si
assume in violazione della privativa, dall'altro.
Le eventuali varianti, idonee ad evitare il rischio di confusione, rispetto al
segno altrui, possono essere solo letterali .
Si è acutamente osservato che - al momento in cui l'utente digita il domain
name - è esclusivamente la parte denominativa dello stesso ad avere rilievo: la
eventuale parte grafica - che del domain name neanche fa parte - apparirà solo
dopo il collegamento con il sito.
Ma a questo punto sono del tutto irrilevanti le differenziazioni cromatiche o
dimensionali (o anche ottenute con l'aggiunta di simboli o di figure) che
dovessero apparire - essendosi - l'agganciamento con il segno altrui già
verificato in precedenza, prima del collegamento.
Può anzi concordarsi con quella dottrina che giunge a ritenere irrilevanti per
l'utente, al momento della digitazione del domain name, la considerazione dei
servizi offerti o la qualità dei soggetti che li offrono, assumendo importanza
esclusivamente il segno (o nome) che viene digitato.
La giurisprudenza ha poi segnalato che il giudizio di confusione non è escluso
dalla presenza del top level domain name TLDN (ovvero, quando il confronto è
tra domain name, dalla presenza di TLDN diversi).
Si tratta, infatti, di un elemento di variazione del tutto marginale; quello
geografico (It, Fr.) è assegnato a tutti i richiedenti nell'ambito del
country code, ed è assimilabile ad un nome di uso generale; ha una rilevanza
solo organizzativa, funzionale, nel sistema di assegnazione dei domain name (e
del pari è qui irrilevante, a maggior ragione, l'hostname www).
Considerazioni analoghe possono farsi per il TLDN Com., riservato ai siti
commerciali.
V., in termini, Tribunale Roma, 28 agosto 2000, Dir. informatica 2001, 39.
La parte significativa del domain name - in ultima analisi - è nella stringa di
secondo livello: lì vanno ricercati gli elementi - propri del giudizio di
contraffazione- di somiglianza ovvero di differenziazione.
Non ha poi particolare rilievo - ai fini dell'identificazione del consumatore
medio - rispetto al quale valutare il rischio di confusione, la circostanza che
la contraffazione avviene in ambiente Internet.
Infatti deve ritenersi superata la fase pionieristica ed iniziale, durante la
quale i navigatori Internet erano effettivamente forniti di un livello culturale
alquanto superiore alla media, ciò per le particolarità del mezzo di
comunicazione, il che li metteva al riparo dalla grande maggioranza dei
possibili errori, come ritenuto da parte della dottrina.
L'enorme diffusione, anzi la massificazione dell'uso di Internet, comporta che
l'utente esposto al rischio di inganno e di confusione come qualsiasi altro
consumatore, nella realtà commerciale contemporanea.
In prosieguo saranno esaminati ulteriori profili del giudizio di contraffazione
e di confusione in ambito Internet.
C) IL CASO PLAYBOY: IL FATTO E LE PARTI
11) ll fatto: i marchi dell'attrice e il sito del convenuto
La vicenda per cui è causa può riassumersi nei termini che seguono.
La società attrice, di diritto americano, è titolare del marchio PlayBoy,
registrato in Italia fin dal 1963: ma più precisamente i marchi PlayBoy
registrati, in varie formi e classi (ma sempre comprensivi della denominazione
sociale) sono ben 26 ( v. prod. att.); inoltre pubblica in lingua italiana
l'omonima rivista (editore Edizioni Lancio s.p.a.; in Italia circola anche la
rivista originale americana).
In particolare va segnalato l'omonimo marchio denominativo (reg. italiana 000138
19 1 93); vi è poi una altra versione in cui la lettera O di playboy è
sostituita dalla rappresentazione umoristica di una testa di coniglio con
cravatta a fiocchetto (registrazione 438786); la testa di coniglio, in una
ulteriore versione, sovrasta la parola in questione.
Fin dal 1996 l'attrice ha depositato il marchio per la classe 42 (dom. n.
rm96c001117), vale a dire per servizi computerizzati (accessi in linea riviste
nel settore della moda, intrattenimento, costume e altri argomenti di interesse
generale).
Quanto ad Internet, l'attrice dal 1994 è titolare del dominio PlayBoy.com; la
rivista è disponibile sul web-site .
Tuttavia il 13 marzo 1998 l'Autorità Italiana ha concesso il dominio
www.Playboy.it, su richiesta di Mario Giannattasio; quest'ultimo si avvale, come
provider, della C.S. informatica.
Il logo del sito è - secondo una definizione dello stesso convenuto, (la testa
di) un maiale assatanato di sesso
Si tratta di un sito a pagamento, di carattere erotico - pornografico.
i servizi principali offerti, sempre secondo l'indicazione del Giannattasio
(vedi prod. conv.), sono indirizzi di massaggiatrici, transessuali, luoghi per
incontri di sesso, scambio di coppie ecc. foto porno vietate ai minori, filmati
hardcore con scene di sesso esplicite.
E' previsto un abbonamento il cui costo varia da 59.000 a 119.000 lire (a
seconda se di durata mensile o trimestrale).
Il sito del Giannattasio contiene alcune fotografie erotiche i cui diritti
d'autore competono alla società attrice (v. elencazione e contratti di
copyright in prod. att.); si tratta di una circostanza incontestata: il
convenuto si limita a riferire che si tratta di foto rinvenute nel "libero
mercato".
Infine il sito in questione consente - tramite hyperlink (collegamento
telematico) il passaggio ad altro sito di analogo contenuto www.men.it, che pure
presenta foto su cui l'attrice dispone del diritto d'autore.
Da qui il giudizio cautelare prima, e quindi il presente di merito.
12) Le azioni proposte e i legittimati passivi.
La società attrice, in particolare, ha proposto la fondamentale azione di
contraffazione, ex art. 1 legge marchi, ed ha altresì invocato la normativa in
materia della concorrenza sleale.
Il principale destinatario delle domande è quindi il titolare del sito in
contestazione, il Giannattasio, la cui legittimazione passiva - e sostanziale
responsabilità - sarà oggetto di accertamento.
Sarà esaminata anche - sotto il profilo della legittimazione passiva- la
posizione del provider, CS informatica, pure convenuta in giudizio.
D'altronde la domanda risarcitoria (di cui, peraltro, si rileverà
l'infondatezza), l'unica proposta nei confronti della CS informatica, presuppone
l'accertamento della responsabilità del provider, quanto alla contraffazione e
alla concorrenza sleale.
L'attore non ha proposto alcuna domanda nei confronti della R.A., l'autorità
italiana preposta all'assegnazione dei domain name, chiamata in causa solo dal
provider (v. infra).
La Playboy ha così esercitato una propria insindacabile facoltà.
Né sussiste alcun litisconsorzio necessario con la RA, atteso che - al più -
potrebbero porsi in astratto questioni tecniche relative all'attuazione
dell'inibitoria (ma nella specie ha già trovato attuazione l'inibitoria
cautelare)..
La posizione della RA, a fronte della domanda attorea, pur se qualificata, in
definitiva può in qualche misura richiamare quella dei soggetti terzi
destinatari dei provvedimenti di sequestro o descrizione, adottati ex art. 62
legge marchi (non può pertanto condividersi l'orientamento giurisprudenziale
secondo cui «va disattesa l'istanza cautelare volta a ottenere una pronuncia
inibitoria dell'utilizzo d'un nome di sito Internet senza chiamare in causa,
oltre al preteso utilizzatore abusivo, la "Registration Authority"
italiana, v. Tribunale Modena, 7 dicembre 2000 , Giur. merito 2001, 328; v.
anche Tribunale Brescia, 11 ottobre 2000, Dir. industriale 2001, 169) .
13) La domanda di garanzia, questioni pregiudiziali e preliminari
Va anche esaminata la posizione della parte chiamata in garanzia da C.S.
Informatica: il rigetto della domanda di risarcimento - infatti - non esonera il
tribunale da tale valutazione, al fine del governo delle spese (v. infra).
Si pongono alcune questioni pregiudiziali di rito e preliminari di merito.
Il provider ha ritenuto di citare la Registration Autority Italiana - G.A.R.R.
"nella persona dell'istituto per le Applicazioni telematiche del Consiglio
Nazionale delle Ricerche (CNR) nella persona del direttore commissario legale
con sede in Pisa".
Si è costituito il C.N.R., a mezzo dell'Avvocatura dello Stato, deducendo che
la R.A. Registration Authority Italiana costituisce un proprio organo interno,
non dotato di personalità giuridica autonoma.
Da qui l'eccezione di irritualità della notifica della citazione; in realtà,
tuttavia, il C.N.R. ha sostanzialmente accettato il contraddittorio, e quindi la
propria legittimazione passiva.
Infatti l'eccezione processuale è stata avanzata esclusivamente «ai fini della
remissione in termini ex art. 184 bis c.p.c., per evitare decadenze»: la
questione deve allora ritenersi assorbita, in quanto - in concreto - non vi è
stata alcuna violazione delle facoltà processuali di tale parte.
Il C.N.R. ha poi eccepito l'incompetenza per territorio di questo Tribunale,
sussistendo quella del Tribunale di Roma, foro convenzionalmente eletto, in
forza del contratto del 29 aprile 1998 tra il C.N.R. e la C.S. informatica.
L'eccezione è infondata, ex comb. disp. artt. 31, 32 e 33 c.p.c.
La domanda di garanzia, tipica causa accessoria, può infatti essere proposta,
alla stregua delle due prime norme cit., al Giudice competente territorialmente
per la causa principale.
Né rileva che per la causa di garanzia - sia prevista la competenza
territoriale di altro giudice, in forza di clausola convenzionale, ex art. 28
c.p.c..
Infatti, alla stregua di un consolidato orientamento giurisprudenziale, il foro
convenzionale, anche se pattuito come esclusivo, puo' subire deroga nel caso di
connessione oggettiva, ai sensi dell'art. 33 c.p.c.
D'altro canto il foro stabilito dalle parti (convenzionale), essendo di origine
pattizia e non legale, dà luogo ad una ipotesi di competenza derogata, e non
inderogabile, ed anche quando sia stabilito come esclusivo (art. 29 c.p.c.), non
impedisce, al pari di ogni altro criterio determinativo della competenza, che
questa possa essere modificata per ragioni di connessione in base alle regole
della prevenzione o dell'assorbimento ovvero ancora del cumulo soggettivo (art.
31-40 c.p.c.), v. Cass. 30 luglio 1996, n. 6882, Giust. civ. Mass. 1996,1080; 15
luglio 1985 n. 4143, id. Mass. 1985, fasc. 7; 4 giugno 1980 n. 3633, id. Mass.
1980, fasc. 6.
In termini v. ancora Cass. 16 dicembre 1996, n. 11212 , id. Mass. 1996,1751,
secondo cui in ipotesi di cause contro piu' convenuti, connesse per l'oggetto o
per il titolo, l'attore puo' adire il giudice competente per una di esse perche'
le decida tutte in un unico processo senza esser limitato nella scelta dall'aver
pattuito, relativamente ad una causa, un foro esclusivo; 16 gennaio 1990 n. 159,
id. Mass. 1990, fasc. 1; 11 gennaio 1989 n. 72, id. Mass. 1989, fasc. 1.
La vis attractiva della connessione, d'altronde, è tale che essa opera anche
con riferimento a cause connesse assoggettate a riti differenti, salva solo la
competenza inderogabile per materia (v. Cass. 2 febbraio 1996, n. 898, Giur. it.
1997,I,1, 75 ).
Né può dubitarsi che la normativa in esame trovi applicazione - per l'evidente
identità di ratio- sia con riferimento a più domande proposte dallo stesso
attore nei confronti di più convenuti, sia allorchè uno dei convenuti proponga
a sua volta domanda autonoma (ma connessa) nei confronti di un terzo.
E' poi evidente che - accertata la connessione - la clausola del foro è
inoperante nei confronti delle altre parti del giudizio principale, ad essa
estranee (arg. ex Cass. 18 febbraio 1981 n. 989, Giust. Civ. 1981, I,1370).
Tale è il caso di specie, ove è evidente la connessione oggettiva (e
parzialmente soggettiva) tra la domanda principale, proposta dall'attore nei
confronti del Giannattasio e di C.S., e quella di garanzia proposta da
quest'ultima - che assume così la posizione di attore - nei confronti del
C.N.R., in relazione alla medesima fattispecie.
Si consideri poi che almeno uno dei convenuti del giudizio principale, il
Giannattasio, risiede a Napoli: da qui allora la sicura applicabilità dell'art.
33 c.p.c., anche alla stregua della giurisprudenza più rigorosa, secondo cui la
norma in oggetto operi solo allorchè la competenza per la causa principale sia
stata determinata ex artt. 18 e 19 c.p.c., e non anche quando sia prevista la
competenza di un foro speciale esclusivo, v. Cass. 17 dicembre 1991 n. 13594,
id. Mass. 1991, fasc.12.
Non può invece richiamarsi, in senso contrario all'interpretazione qui
sostenuta, Cass. 1 luglio 1994, n. 6269, id. Mass. 1994, 913 che esclude sì
l'applicazione dell'art. 31 cit., e quindi la possibilità di proporre la
domanda accessoria dinanzi al giudice che e' competente sulla domanda principale
per ragioni di territorio, allorchè quest'ultimo sia determinato
convenzionalmente per effetto di una clausola negoziale, ciò in forza del
carattere eccezionale della norma cit: nel caso di specie, infatti, questo
Tribunale è stato correttamente individuato come giudice della causa
principale, proposta dall'attore, alla stregua degli ordinari criteri di
competenza per territorio.
14) L'istruttoria processuale e le difese delle parti convenute
I convenuti hanno chiesto il rigetto della domanda, in quanto la causa non
sarebbe stata istruita: ed effettivamente le parti, in primo luogo l'attore (su
cui incombeva l' onere probatorio) non hanno formulato richieste istruttorie.
Nondimeno, la domanda principale di contraffazione può essere accolta.
Ciò alla stregua di una cognizione senz'altro esauriente: da un lato infatti i
principali fatti di causa sono sostanzialmente incontestati, dall'altro le parti
hanno prodotto, fin dalla fase cautelare, ampia ed idonea documentazione.
Né ha pregio il rilievo che il Tribunale, in questa sede di merito, decide alla
stregua dello stesso materiale istruttorio di cui disponeva il giudice della
cautela.
Infatti se è vero, in linea generale, che il procedimento cautelare si fonda su
una cognizione, in fatto, sommaria, è del pari vero che il giudizio di merito,
successivo alla fase cautelare, ben può esaurirsi rapidamente, senza lo
svolgimento di attività istruttoria, in quanto può essere deciso sulla base
delle sole prove precostituite.
Così nella specie, ove anzi i provvedimenti cautelari sono stati adottati, in
concreto, alla stregua di una cognizione già esaustiva (per il più volte
richiamato carattere documentale della controversia): inoltre la causa può
essere subito decisa anche quanto alle domande risarcitorie (evidentemente non
considerate in sede cautelare), come sarà meglio esposto in prosieguo, rispetto
alle quali effettivamente si riscontrano lacune istruttorie, evidentemente
imputabili alla attrice.
Di contro - e con scarso rispetto per le vigenti regole processuali - i
convenuti si sono limitati a richiamare le proprie difese nella fase cautelare,
senza riprodurle analiticamente in questa sede, come invece sarebbe stato
necessario (stante l'autonomia del giudizio di merito da quello cautelare).
Quanto alle altre domande, a fronte di effettive lacune istruttorie (su cui v.
infra), si farà ricorso ai fondamentali principi in materia di prove, di cui
agli artt. 115 e 116 c.p.c. .
D) IL MARCHIO PLAYBOY
15) Caratteri dei marchi Playboy
I marchi di parte attrice sono forti.
L'attenzione deve catalizzarsi sul marchio denominativo Playboy, ovvero sulla
omonima parte denominativa degli altri marchi, di cui (anche per la costante
presenza) costituisce l'elemento caratterizzante, il cuore.
Si tratta di una parola di fantasia, di lingua inglese, priva di aderenza
concettuale, se non indiretta e allusiva, ai prodotti e i servizi cui si
riferisce (d'altronde molteplici, e nei più diversi ambiti).
Playboy è inoltre marchio di rinomanza, ex art. 1 lettera c) e 13 cpv legge
marchi, ed anzi celebre.
Marchio di rinomanza è quello "conosciuto da una parte significativa del
pubblico interessato ai prodotti o ai servizi da esso contraddistinti".
(così Corte Giust. C.E., 14 settembre 1999, in causa C-375/97, GADI, 4047; v. -
con specifico riferimento ai domain names - Trib. Parma, ord. 22 gennaio 2001,
Galli 70).
Un marchio invece è celebre quando è di fatto conosciutissimo presso il
pubblico in generale, a prescindere dal fatto che si tratti di un pubblico di
consumatori di prodotti contrassegnati dal marchio ovvero di un pubblico
costituito indistintamente da consumatori o da non consumatori, e quando il
segno è dotato di una carica simbolica che travalica il contenuto tipico del
marchio per assurgere a significati affatto diversi, v. Trib. Milano 13
settembre 1990, GADI, 2562.
Per altro verso, in giurisprudenza si segnala che le due figure (solo la
prima normativamente prevista) non coincidono: «la rinomanza ha una estensione
più ampia della celebrità, in quanto richiede unicamente che il marchio sia
notorio ad una gran parte dei consumatori. Ricorre infatti l'ipotesi del marchio
notorio che gode di rinomanza quando vi sia una vasta diffusione di prodotti
recanti il detto marchio, tale da imprimersi nella mente di una ampia fascia di
pubblico che, pur non acquistando il prodotto, viene comunque quotidianamente e
ripetutamente in contatto con lo esso. Invece il marchio celebre investe settori
merceologici differenti e differenti prodotti, tutti rispondenti ugualmente alle
aspettative del pubblico, in modo da fungere da collettore di clientela,
indirizzando il pubblico dei consumatori verso prodotti contrassegnati da quel
marchio quale garanzia di qualità del prodotto medesimo», Trib. Monza 8 luglio
1999, GADI, 4016.
Nella specie parte attrice, peraltro, non ha ritenuto di documentare in alcun
modo tali caratteri dei propri marchi (pur se usualmente, nei giudizi di merito,
una tale prova è offerta, anche a mezzo di indagini demoscopiche, v. ad es.
Trib. Milano 13 settembre 1990, GADI, 2562)
Al riguardo il Tribunale (e nonostante l'oggettiva negligenza difensiva della
attrice) può fare ricorso al notorio, di cui all'art.115 cpv c.p.c. , da
intendersi come fatto conosciuto da un uomo di media cultura nel tempo e nel
luogo della decisione, v. Cass. 19 aprile 2001, n. 5809, Giust. civ. Mass. 2001,
835.
Così già Trib. Napoli 24 marzo 1999 cit.: «per la sua notevole capacità
distintiva (il nome Playboy) si imprime con particolare efficacia nella memoria
dell'utente. E ciò tanto più in quanto detta denominazione è divenuta
eccezionalmente nota e di conseguenza finisce con l'assumere un ruolo
decisamente preminente ed individualizzante per qualsiasi tipo di clientela» (e
non è privo d'interesse il rilievo che la U.S. District Court dello Stato di
New York, nel 1996, ha dichiarato non accessibile egli USA il sito playmen .it ,
proprio a tutela del segno Playboy).
Ed in realtà il Tribunale può affermare - come dato "sociologico" e
di "generale conoscenza" che la denominazione Playboy, che in origine
contraddistingueva una rivista americana, è ormai - da molti anni - segno ben
noto in tutto il mondo.
Da un lato infatti contraddistingue pubblicazioni, prodotti e servizi di più
vario genere (cfr le registrazioni italiane), anche solo latamente erotico, in
quanto è piuttosto legato allo svago e al divertimento (e così è conosciuto
da fasce di persone ben più ampie rispetto agli effettivi utenti e acquirenti).
Dall'altro lato Playboy (rivista, marchi) è assurto a simbolo di una certa
concezione della vita, del piacere e del sesso, non volgare e anzi - ormai - in
un certo senso, "imborghesita" ; l'impero editoriale (e non solo)
creato da Hugh Hefner a partire degli anni cinquanta ha davvero contribuito in
modo decisivo a quella che è stata definita l'unica rivoluzione risuscita del
XX secolo, quella sessuale.
A ben guardare l'assoluta notorietà di Playboy è, nel caso di specie,
riconosciuta dagli stessi convenuti, beninteso inconsciamente: ed in tal modo
può leggersi - i la "tesi" sostenuta nella fase cautelare dai
convenuti, e già disattesa dal Tribunale , secondo i quali il marchio di parte
attrice sarebbe assurto a termine di uso comune, una sorta di sinonimo di Don
Giovanni .
E' infatti fin troppo ovvio il rilievo che, in Italia, prima dell'arrivo (o
meglio, della conoscenza) dei prodotti e servizi della attrice la parola Playboy
non aveva particolare diffusione.
In termini giuridici, CS e Giannattasio invocano la volgarizzazione del marchio
Playboy, vale a dire di perdita - per la generalizzazione - di capacità
distintiva.
Tale eccezione è palesemente pretestuosa e infondata e non richiede particolare
approfondimento: né è stata ulteriormente sviluppata in questa sede; C.S. si
limita ad osservare - a quel che è dato comprendere ironicamente - che chiunque
si definisce playboy - con l'iniziale minuscola - sarebbe passibile di denuncia
da parte della attrice (e in fase cautelare, evidentemente sempre con lo stesso
proposito ironico, tale parte aveva indicato taluni playboy del passato,
idealmente includendo nell'elenco anche Gabriele D'Annunzio e lo stesso Don
Giovanni).
L'attrice ha così potuto replicare - con giustificato sarcasmo - di non essere
contraria anche a che qualcuno voglia infliggere ad un figlio un crudele
destino, chiamandolo Playboy.augurandosi peraltro che il proprio successo non
arrivi a tanto!.
Si deve però convenire con la Playboy che altra cosa è la tutela - alla
stregua della normativa vigente - della propria denominazione sociale e dei
propri segni distintivi commerciali.
Solo per completezza, può rilevarsi da un lato che la pretesa volgarizzazione
costituisce un assunto assolutamente non provato, dall'altro, sempre con il
provvedimento di reclamo che «deve certamente escludersi che (la denominazione
Playboy) sia divenuta un termine usuale svincolato da qualsiasi riferimento con
l'impresa di origine, che definisca non solo un determinato prodotto proveniente
da certa fonte produttiva, ma ogni prodotto dello stesso genere da chiunque
offerto. La tesi (di parte convenuta) finisce per confondere la presunta
volgarizzazione del marchio con la sua particolare diffusione e celebrità,
anche a livello mondiale, che impone anzi un giudizio di confondibilità più
rigoroso e finisce perciò per rafforzare l'esigenza di tutela invocata».
E) IL GIUDIZIO DI CONTRAFFAZIONE E DI CONFONDIBILITA'
16) Il confronto tra i segni
Il domain name in contestazione del Giannattasio costituisce contraffazione
dei marchi di cui è chiesta la tutela, come già riconosciuto dai giudici della
cautela, alla stregua dei criteri tradizionalmente elaborati dalla
giurisprudenza (giudizio di sintesi, di impressione ecc.).
D'altronde il domain name www.playboy.it è identico - nel second level (unico
elemento da considerare) al marchio denominativo Playboy.
Il domain name del Giannattasio è poi indiscutibilmente simile anche agli altri
marchi della Playboy, vale a dire quelli complessi, comprensivi - come si è
detto - della denominazione omonima e della testa di un coniglietto: l'elemento
denominativo, di fortissima forza evocativa (e - come pure detto - di vasta e
ormai risalente notorietà) è senz'altro il cuore di tutti i marchi Playboy.
Alcuna rilevanza ha poi il fatto che il domain name del Giannattasio si
accompagna al disegno stilizzato della testa di un suino.
Può certo condividersi l'opinione del giudice di reclamo, secondo cui la mera
sostituzione di un animale - il coniglietto Playboy con un altro, il maiale
«non è privo di elementi che potrebbero indurre ad una qualche forma di
collegamento tra le fonti di provenienza dei servizi».
Coniglietto e maiale, l'uno con il papillon, l'altro con una bombetta e un
sigaro, evocano evidentemente entrambi divertimento e - quantomeno - erotismo
(il secondo, beninteso, in modo ben più greve e "radicale").
Peraltro, e ben più radicalmente - alla stregua di quanto si è esposto prima
sub 1 d)- le varianti in parola non devono prendersi in considerazione nel
giudizio di contraffazione, in quanto appaiono sul sito solo successivamente
all'apertura dello stesso: la testa di suino, in definitiva, neanche attiene al
domain name (né potrebbe, tecnicamente, farne parte).
17) Il giudizio di confusione
L'art. 1 lettera a) legge marchi vieta ai terzi di usare un segno identico o
simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a
causa dell'identità o somiglianza fra i segni e dell'identità o affinità fra
i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il
pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione tra i due
segni.
D'altro canto l'art. 13 legge marchi vieta l'adozione come ditta, denominazione
o ragione sociale, insegna - ed implicitamente anche domain name, alla stregua
del richiamato principio di unità dei segni distintivi- l'altrui marchio (se ne
deriva pericolo di confusione, negli stessi termini dell'art. 1 cit.).
Peraltro - nella specie - trova applicazione l'art. 1 lettera c) legge marchi,
in comb. disp. con l'art. 13 cpv che vietano ai terzi l'uso di un segno identico
o simile al marchio registrato altrui, anche per prodotti o servizi non affini,
se il marchio registrato goda nello Stato di rinomanza . se l'uso del segno
senza giusto motivo consente di trarre indebito vantaggio dal carattere
distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.
Tale è il caso dei marchi Playboy, come già rilevato.
La rinomanza/celebrità non rileva, qui, per affermare la tutela
ultamerceologica dei marchi in parola: infatti il prodotto Playboy e i servizi
offerti dal sito del Giannattasio sono affini.
La società attrice, fin dal ricorso introduttivo della fase cautelare, segnala
(ma si tratta di dati notori) che le proprie pubblicazioni (anche informatiche)
si caratterizzano «per la bellezza esplosiva delle stupende ragazze.ritratte>
e per la qualità delle «opere dell'arte fotografica ma anche della letteratura
del genere, leggera quanto si vuole ma pur sempre letteratura, ad esaltazione
della bellezza femminile».
Si è già detto del carattere francamente erotico - pornografico del sito del
Giannattasio.
Da qui allora l'affinità - e anzi la contiguità - tra i servizi offerti dalla
Playboy e quelli del sito del Giannattasio: erotismo e pornografia costituiscono
settori omogenei (al di là dei giudizi estetici e di qualità, o anche etici,
che certo non competono al Tribunale), e ciò è tanto più vero sotto il
profilo commerciale, con riferimento a pubblicazioni (anche elettroniche)
specializzate nel settore dell'Eros.
E' appena il caso di ricordare che la giurisprudenza riconosce l'affinità tra
prodotti e servizi che presentano l'attitudine a soddisfare le medesime esigenze
di mercato (Cass. 9 febbraio 2000, n. 1424, Foro it., 2001, I, 641, caso
Formaggino Mio).
Deve poi considerarsi la particolare valenza del rischio di confusione, ex art.
1 e 13 legge marchi cit..
La giurisprudenza reputa che la celebrità del marchio aumenta il pericolo di
confusione, anche ove altri utilizzino il medesimo marchio per prodotti non
affini (ad es. v. Trib. Vicenza 28 ottobre 1993, GADI 3076): e il rischio di
confusione è riconosciuto anche in ipotesi di confondibilità in senso ampio,
allorchè il pubblico sia indotto a ritenere che esistano rapporti contrattuali
o di gruppo tra il titolare del segno imitato e il titolare del domain name
imitante.
In termini v. - con riferimento ai domain names - Trib. Roma 9 marzo 2000 (Galli
37); Trib. Modena 24 gennaio 2001 (id. 72) secondo cui « L'utilizzazione di un
domain name che ripete esattamente la componente denominativa di un marchio
altrui per un sito nel quale vengono pubblicizzati servizi affini a quelli per i
quali tale marchio è registrato costituisce contraffazione del marchio stesso,
poiché rende concreto quanto meno il rischio di confusione per associazione tra
le due imprese, potendo indurre nell'utente l'opinione che tra le stesse
sussistano rapporti di licenza e collaborazione".
Tanto si riscontra anche nella specie, ove il rischio che gli utenti ritengano
sussistere siffatti legami tra la Playboy e il Giannattasio è acuito dalla
rilevata affinità tra i servizi offerti ; in particolare tale affinità
comporta che il rischio di confusione non può escludersi neanche allorchè
l'utente si avvalga di un motore di ricerca (dove i siti individuati vengono
presentati insieme ad una sommaria descrizione del loro contenuto).
18) Initial confusion
Il rischio di confusione/associazione si manifesta con modalità peculiari in
Internet, con riferimento ai domain names costituenti contraffazione dei marchi
di rinomanza.
L'attore ha richiamato al riguardo la pre - sale confusion; in dottrina non
mancano riferimenti all'initial confusion, in sostanza la confusione che si
manifesta solo in una prima fase dell'approccio al prodotto o al servizio
(quindi, nel nostro caso, al sito) contraddistinto dal segno dell'imitatore.
Tale iniziale confusione è di per sé sufficiente a determinare l'approfittamento
per l'imitatore, e - di converso - un pregiudizio per il titolare del marchio.
La dottrina più avveduta ha già avvertito che, in ambito telematico, l'effetto
utile per il titolare del sito è il momento del contatto.
Specularmente, il pregiudizio per il titolare del marchio imitato non sta tanto
nel fatto che rischia di essere confuso con altri: il rischio è il contatto,
nel senso che altri può profittare della domanda dei consumatori/navigatori
che, cercando prodotti di un certo genere o marca, approdino a servizi e offerte
più o meno succedanee, che lo distolgano dall'obiettivo primario.
L'utente, infatti (sia che digiti direttamente il domain name, sia che passi
attraverso links o motori di ricerca) è indotto - sia caduto o meno in
confusione - ad associare mentalmente, e quindi ad instaurare un collegamento,
tra il domain name e il segno distintivo ad esso simile.
Tale interferenza comporta un drenaggio della clientela dall'uno (il titolare
del segno da tutelare) all'altro (il titolare del domain name); si è così
segnalato che il mero collegamento favorisce la provvista pubblicitaria dei siti
non ricercati.
In particolare «il modello distributivo di Internet.è quello che prevede uno
schema asimmetrico, in base al quale a fronte del solo costo di connessione ad
Internet, il consumatore riceve copia del prodotto informativo, mentre il
titolare del sito ottiene in cambio: informazioni sull'utente, riutilizzabili o
vendibili, il valore aggiunto rappresentato dal contatto tra l'utente e il sito,
che fa lievitare il valore di scambio del sito web, i compensi lucrabili quali
corrispettivi di inserzioni pubblicitarie».
In termini v. Trib. Macerata, ord. 2 dicembre 1998, Dir. Ind. , 1999, 35, che ha
vietato l'adozione di un domain name simile all'altrui marchio rinomato per un
sito relativo a prodotti non affini a quelli per cui il marchio è registrato,
"anche in ragione della precipua e specifica modalità di accesso al
servizio Internet, tale che di primo acchito l'elemento fondamentale per il
riconoscimento è proprio l'indirizzo, quando riprenda un marchio altamente
diffuso e conosciuto.»
Una tale configurazione ben si attaglia al caso di specie: l'utente che,
collegatosi al sito del Giannattasio attratto dal domain name, identico a quello
della notissima rivista dell'attrice, potrebbe presto dubitare dei collegamenti
tra l'uno e l'altro, in ragione del carattere pornografico, e dell'intrinseca
volgarità del sito del convenuto.
Tuttavia a questo punto si sono già verificati sia gli effetti pregiudizievoli
per la Playboy - nel senso sopra evidenziato -che il vantaggio parassitario per
il Giannattasio il cui sito, senza la contraffazione per cui è causa,
verosimilmente non sarebbe stato contattato.
19) Le nuove funzioni del marchio
A ben vedere, tuttavia, la questione va posta - ad ulteriore conferma
dell'illiceità della condotta del convenuto - in termini ancora più radicali
ed innovativi, in considerazione sia del nuovo ruolo del marchio, specie se di
rinomanza o celebre, e della relativa tutela a fronte di fatti contraffattivi,
ma anche delle peculiarità di Internet.
Così questo Tribunale - adeguandosi ad un orientamento sostenuto dalla
dottrina, ma anche dalla giurisprudenza più attenta alle esigenze del commercio
moderno - ha più volte ribadito che è ormai venuta meno la centralità della
funzione distintiva del marchio, ciò quanto meno dalla novella del 1992 .
Prevale infatti, e non più sotto il solo profilo economico, la concezione del
marchio come brand: strumento di comunicazione e di "promozione":
concezione, si noti, perfettamente omogenea con i caratteri di Internet più
volte richiamati, vale a dire di strumento di comunicazione anche commerciale e
veicolo pubblicitario.
Da qui anche la più rigorosa, avanzata tutela del segno a fronte di condotte
confusorie, e che incidono negativamente su tale ulteriore funzione.
Particolare significato ha avuto, al riguardo, l'introduzione del rischio di
associazione, di cui agli artt. 1 e 13 legge marchi cit.
Così Trib. Napoli 3 luglio 1998, caso Levi Strauss, riv. Dir. Ind. 1999, II,
344, nonché id. 5 novembre 1998, caso Benckiser - Henkel, ivi 1999, I, 243.
In particolare il primo provvedimento ha affermato: « Le riforme del 1992
(di attuazione della direttiva 89/104 CE cit.) e del 1996 (di attuazione dell'
accordo TRIPs) hanno quantomeno avviato una radicale "trasformazione"
del diritto italiano dei marchi.
In particolare è entrata in crisi la tradizionale concezione del marchio come
"indicatore di provenienza" dei prodotti e servizi che
contraddistingue. Basta ricordare, a tale proposito, la riscrittura (ad opera
del d. legisl. 480/92 cit.) dell' art. 15 l.m. ; capovolgendo l' originaria
previsione, è ora prevista la libera trasferibilità del marchio, che può
anche essere oggetto di licenza non esclusiva.
Così anche in Italia i contratti di merchandising (con i quali si attribuisce
ad altri, verso il pagamento di una royalty, la utilizzazione del segno per
contraddistinguere prodotti che non hanno alcuna relazione con quelli in
precedenza contrassegnati) hanno trovato piena legittimazione.
In altri termini si è notevolmente allentato (se non spezzato, per i marchi di
rinomanza) il nesso tra il marchio e l' impresa che ne fa uso per
contraddistinguere la propria produzione ; d' altronde, a ben vedere, neanche è
più richiesto che il titolare del diritto sul marchio sia un imprenditore.
.. come rilevato in dottrina, il legame tra "segno ed elementi reali
della fonte di produzione risulta sostanzialmente abolito in tutti i momenti
più rilevanti della vita del marchio : nel momento genetico, in quello
traslativo, in quello circolatorio".
Tali fondamentali innovazioni sono espressione della "presa d' atto",
da parte del legislatore (comunitario e interno) dell' effettivo ruolo svolto
dal marchio nel mercato.
Infatti il marchio ha assunto ormai un valore autonomo- pubbllcitario, di
comunicazione, di investimento (per le imprese e per il pubblico)- ampiamente
svincolato dai prodotti e servizi cui inerisce (il che non è privo di profili
negativi : si pensi alla pratica del c.d. "marchio di richiamo").
Esso, come rilevato da accorta dottrina, non è tanto il segno o anche il
simbolo di una origine comune dei prodotti su cui è apposto (che può non
esserci, ax art. 15 cit.), ma il compendio di un insieme di informazioni e di
suggestioni positive, che dal marchio si estendono al prodotto o al servizio
contraddistinto (che, in un certo senso, finisce per avere una posizione di
"secondo piano").
Economisti e dottrina giuridica sottolineano ormai come prevalente la funzione
pubblicitaria o suggestiva del marchio ; si è quasi provocatoriamente affermato
(ma con precisi supporti economici) che "la marca moderna non appartiene
più all' universo del commercio, quanto piuttosto a quello della
comunicazione".
In termini semiologici, il marchio è il "significante" (strumento di
comunicazione) che racchiude e comunica valori, conoscenze, qualità, almeno in
parte autonome rispetto al "significato" (il prodotto o il servizio);
esso - di conseguenza- ha una valenza economica e, in forza della novellazione,
giuridica propria (che è tanto maggiore quanto più ampio è il divario tra
significante e significato, ossia tra la percezione del marchio e quella del
prodotto o del servizio).
Il valore di un marchio (inteso sia in senso economico che come capacità
distintiva) sta quindi nella capacità che il segno ha di catturare l' interesse
dei consumatori, anche in forza delle suggestioni e delle associazioni mentali
che esso è in grado di evocare.
Non vuole certo affermarsi che la funzione di indicatore di provenienza sia
venuta meno, nel mercato e nella previsione normativa ; tuttavia tale funzione -
nella realtà economica e quindi nell'ottica giuridica - ha perduto importanza,
e comunque non è più esclusiva.
La rilevanza giuridica delle ulteriori funzioni del marchio, fino ad ora negata,
ormai si impone nel diritto interno italiano, e ciò sia (in positivo) in forza
delle novellazioni già richiamate sia (in negativo) per la mancanza di reali
dati ostativi (non essendo poi concepibile che funzioni di primario rilievo non
trovano tutela nelle generali previsioni della l.m.).
In tal senso depone lo stesso considerando 10 dirett. 89/04/CEE (nonchè il 7
del reg. marchio com.), che espressamente prevede la possibilità che il marchio
svolga funzioni ulteriori rispetto a quella di indicazione di provenienza.
Si consideri che la stessa Corte di giustizia CE ha di recente riconosciuto
autonoma valenza giuridica, ex art. 7 2° comma dirett. Cit., alla funzione
pubblicitaria del marchio (cfr Corte di giustizia CE 4 novembre 1997 , c.
337/95, Foro It. 1998, V, 157).
Tanto si verifica con particolare forza per i marchi rinomati o celebri, che
hanno finalmente trovato specifica tutela negli art. 1 lett. c. e 17 lett. b
legge m., introdotti dalla novella del 1992. ; in effetti la tutela
ultramerceologica ad essi attribuita non costituisce tanto una deroga al
principio di specialità, quanto il riconoscimento, in via generale, della loro
peculiare ed autonoma rilevanza economica, tale da "oscurare" il ruolo
dei prodotti e servizi cui possono inerire.
Ulteriore conferma della rilevanza giuridica della funzione
"attrattiva" del marchio (specie di rinomanza) sta proprio nella
introduzione del rischio di associazione.
Quest' ultimo, quindi, non allarga- almeno direttamente- il concetto di
"somiglianza tra segni", non "diluisce" i parametri cui il
giudice deve attenersi nella comparazione dei marchi, ma consente di riferire il
rischio di confusione (estendendone la relativa tutela) al nuovo contenuto
(giuridicamente rilevante) del marchio.
Il rischio di confusione, pertanto, ne risulta "accresciuto", quanto
ad area di operatività, sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo.
Autorevole dottrina ha sottolineato che vi rischio di confusione "per
associazione" quando i consumatori riconoscono, anche inconsapevolmente, in
un dato segno un richiamo o un riferimento ad un altro segno registrato ; il
pubblico, in tal caso, associa determinati prodotti e servizi a una immagine
seducente e originale, quella espressa dal marchio usurpato.
Il titolare di quest' ultimo cattura l' attenzione dei clienti non con la
propria capacità imprenditoriale ed inventiva, ma appunto facendo propri i
caratteri promozionali dell' altrui segno.
La giurisprudenza straniera già da tempo ha sottolineato che si ha confusione
(per associazione) allorchè vi è appropriazione del "potere
attrattivo", ancorchè del carattere distintivo, dell' altrui marchio (cfr
Trib. Comm. Namur, Belgio, 23 dicembre 1992, Journ. Trib. 1993, 319,).
La tutela repressiva dovrà intervenire quando il segno "somigliante"
è in grado di evocare, per le modalità di utilizzo, e tenuto conto del
concreto contesto di mercato, il messaggio proprio del segno imitato.
Quel che rileva è l' "association entre le signe et la marque" vale a
dire "l' impressione di dejà vu che il segno imitante produce sul
pubblico, richiamando alla mente dei consumatori il messaggio collegato al segno
imitato, impressione che- pur in assenza di un pericolo di confusione sulla
provenienza- può consentire al titolare del segno posteriore di superare la
diffidenza iniziale che il consumatore è indotto a nutrire verso un prodotto su
cui è apposto un marchio nuovo, riducendo così la necessità di iniziative
promozionali".
E' evidente- ed è qui la maggiore differenza con la norma previggente- che la
confusione, così intesa, va riconosciuta come sussistente ogni qualvolta si
instaura agli occhi del pubblico un significativo collegamento - o, appunto,
associazione- tra segno imitante e marchio imitato, ciò per la presenza di
caratteri essenziali comuni (da individuare e valutare secondo i criteri prima
esposti).
Di contro non occorre che, la confondibilità tra i segni comporti anche l'
insorgere del dubbio (o anche di un errore) circa la provenienza imprenditoriale
dei prodotti o servizi contrassegnati.
In altri termini - si è osservato in dottrina - la confusione per associazione
non presuppone necessariamente un errore da parte del pubblico sulla provenienza
e qualità dei prodotti contrassegnati : si può verificare anche quando i
consumatori siano consapevoli di avere a che fare con due marchi del tutto
indipendenti l' uno dall' altro, in quanto facenti capo a soggetti diversi e non
collegati (non è neanche richiesto che il pubblico sia indotto a ritenere che i
due prodotti provengano da due imprese distinte, tra cui però intercorrono
rapporti di licenza, o comunque, di autorizzazione all' uso del marchio, come
invece ritenuto da Corte d' Appello di Milano, 28 novembre 1995, GADI 1996,
3444).
L' associazione tra i marchi influenza il pubblico nelle sue scelte,
inducendolo ad acquistare prodotti (o servizi) il cui marchio evoca quello
antecedente, imitato; ciò in quanto il pubblico è indotto a trasferire almeno
una parte dell' "immagine" positiva che ha della prima
"marca" al prodotto o al servizio contraddistinto dal marchio
contraffatto. Tanto, lo si ribadisce, pure se il pubblico è consapevole del
fatto che marchio e prodotto non sono originali (in termini, con ambiguità,
Trib. Udine 31 maggio 1993, riv. Diritto industriale, 1995, II, 2)».
Già in precedenza, ed ancor più icasticamente, Trib. Napoli 13 maggio 1996
(Rivista diritto industriale, 1996, II, p. 294 ; GADI, 3487, Diritto
Industriale, 1997, 17; Giurisprudenza Napoletana, 1997, 84 ; Trib. Napoli 31
maggio 1997, Il Dir. ind. 1997, 923).
Aveva affermato che il «concetto di associazione, specie in presenza di
marchi di rinomanza... comprende ogni ipotesi di collegamento, anche potenziale,
anche meramente psicologico tra i due segni. Ciò nel senso che la clientela,
indipendentemente da ogni confusione tra i prodotti e, prima ancora, in ordine
alla origine degli stessi, è indotta a collegare il marchio originale al
contraffatto, nel senso che tende ad attribuire ai prodotti cui il secondo è
apposto le caratteristiche- positive- di quelli contrassegnati dal primo. In
altri termini l' associazione è meramente psicologica, al limite inconscia (si
pensi al ruolo, anche in pubblicità, dei messaggi subliminari), e comporta l'
estensione, nella memoria, al marchio contraffatto (rectius: ai prodotti
relativi) dell' "immagine", complessivamente intesa (e comprensiva di
rinomanza, qualità, garanzia ecc.) sottesa al marchio originale»; v. anche
App. Bologna 18 febbraio 1998, GADI, 3906.
20) Marchi di rinomanza e approfittamento
Ad integrazione di quanto sopra può solo ribadirsi che le nuove funzioni del
marchio - e quindi la nuova configurazione del rischio di
confusione/associazione- trovano particolare riconoscimento proprio con
riferimento ai marchi di rinomanza.
Si consideri al riguardo il chiaro disposto del già richiamato l'art. 1 lettera
c) legge marchi, che vieta l'uso di un segno eguale o simile ad un marchio di
rinomanza, qualora tale uso "consente di trarre indebitamente vantaggio dal
carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli
stessi" ; la norma in parola (e così quella ex art. 13 cpv cit.), così
come l'ipotesi di cui alla lettera a), e al contrario di quanto previsto dalla
lettera b) non richiama espressamente il rischio di confusione.
Da un lato, quindi, capacità distintiva e rinomanza, dall'altro - ini stretto
legame - vantaggio o pregiudizio.
Pertanto - alla stregua del letterale tenore della norma in esame - il rischio
di confusione/associazione, per tali segni, si manifesta essenzialmente come
possibilità che l'uso illecito da parte di terzi di un segno uguale o simile si
risolva in un indebito vantaggio (ossia in un approfittamento del terzo), ovvero
in un pregiudizio per il titolare del segno imitato; e ciò, lo si ribadisce,
anche in virtù di un mero "richiamo" psicologico al messaggio
collegato al marchio di rinomanza.
Tanto si riscontra, indubbiamente, nella specie, quanto al domain name del
Giannattasio.
Poco interessa - in ultima analisi - che l'utente Internet configuri o meno
l'esistenza di collegamenti commerciali tra la società Playboy e il
Giannattasio: quel che rileva è che questi, con il proprio domain name,
coincidente con il marchio degli attori, si sia concretamente approppriato
-oltretutto nello stesso ambito di mercato - del plusvalore positivo sotteso al
marchio Playboy, uscendo così, a costo zero, dall'anonimato.
Infatti il numero di siti erotico - pornografici è, notoriamente, enorme e in
continua crescita: da qui allora il cruciale rilievo del domain name
(illecitamente) scelto nella specice, in quanto accattivante ed in grado di
evocare (quantomeno) un "soggetto" , l'odierna attrice,
particolarmente esperto nel settore ed affidabile.
Si è realizzato - in altri termini - l' approfittamento da parte del
Giannattasio dei valori positivi - e di rilevante capacità attrattiva di
clientela - sottesi ai marchi Playboy. Ciò in un settore - quello
dell'intrattenimento maschile- di forte interesse per la società ricorrente e
già sovrasaturato.
Inoltre il Giannattasio ha arrecato anche - e soprattutto - un rilevante
pregiudizio ai marchi della società attrice.
Ciò in quanto il domain name in contestazione da un lato - e per i dedotti fini
di approfittamento - richiama i marchi della Playboy, dall'altro
"contamina" il messaggio originario di tali marchi.
Il sito del Giannattasio è infatti essenzialmente pornografico, mentre Playboy,
anche con riferimento alla propria presenza in rete, si fa vanto di non essere
mai scaduta nella volgarità e, tantomeno, nella pornografia. In definitiva si
è realizzata la situazione così brillantemente descritta in dottrina: «il
pregiudizio sussisterà non soltanto quando il segno dell'imitatore venga a
contraddistinguere prodotti o servizi scadenti o vili, ma più in generale
quando esso comunque sia utilizzato con modalità che non sono coerenti con
l'immagine connessa al marchio imitato, perché spesso è proprio questa
coerenza, cioè il fatto che il marchio richiami un determinato
"stile", a costituire una parte considerevole del valore di mercato
del marchio stesso. In relazione ai segni distintivi di Internet, questa
situazione potrà quindi ricorrere in particolare quando l'attività svolta in
un sito sia tale da accostare il marchio a messaggi negativi o comunque
distorsivi rispetto a quello di cui il marchio stesso è portatore».
Può richiamarsi - in giurisprudenza - Trib. Vicenza 6 luglio 1998 cit.; si è
affermata la contraffazione del celere marchio Peugeot (automobili) da parte del
sito peugeot.it, pur se nella disponibilità di società che si occupano di
sistemi informatici.
Il Tribunale ha osservato che : «l'uso del marchio peugeot comporta l'immediato
vantaggio di ricollegare la propria attività a quella del gruppo francese,
sfruttando la buona fama da questo goduta. Vantaggio che è sicuramente indebito
attsa la mancanza di autorizzazione e smaccatamente parassitario. Oltra a ciò,
sussiste sicuramente, pur come rovescio della stessa medaglia, il pericolo di
pregiudizio per il titolare del marchio celebre che vede il suo nome associato a
servizi e prodotti non da lui provenienti, che ben possono essere di scarso
valore, tale da indurre a ritenere nel pubblico che la casa non sia più
all'altezza delle sue tradizioni e rinomanza"; in termini v. anche Trib.
Parma, 22 gennaio 2001 cit
E) LA RESPONSABILITA' DEL PROVIDER
21) La responsabilità del provider, in generale
La questione più complessa su cui il Tribunale deve pronunciarsi è quella
della responsabilità per le violazioni commesse a mezzo di Internet del
provider, il soggetto che - grazie alla propria organizzazione - fornisce al
titolare del sito l'accesso alla rete Internet.
Si tratta di un profilo di fondamentale importanza, in primo luogo pratica,
specie con riferimento alla domanda di risarcimento dei danni.
L'Internet provider, che normalmente è un imprenditore, è infatti, di norma -
tra i possibili responsabili di illeciti commessi su Internet - il soggetto più
agevolmente individuabile e che offre (sempre in linea di massima) le maggiori
garanzie di solvibilità.
La riflessione giurisprudenza italiana sul punto è tutt'altro che copiosa e,
inoltre, ad avviso del Tribunale, ancora insoddisfacente quanto
all'approfondimento.
Si riscontrano, inoltre, orientamenti discordanti, nessun dei quali sembra aver
avuto la prevalenza.
Vi è però una certa generale tendenza volta a limitare la responsabilità del
provider, anche alla stregua della legislazione e della giurisprudenza
straniera, specie USA (qui il provider - per escluderne la responsabilità - è
stato paragonato ad un bibliotecario che non può controllare l'afflusso di
materiale alla rete, o al gestore di una bacheca elettronica, del pari non
controllabile; si veda però anche la direttiva comunitaria sul commercio
elettronico, n. 2000/31/C.E. dell'8 giugno 2000, G.U.C.E., n. L 178/1, del 17
luglio 2000; più rigorosa, quanto alla responsabilità penale del provider, la
legge antipedofilia 269/98).
In Italia è però minoritario l'orientamento che tende, radicalmente, ad
esclude in ogni caso la responsabilità del provider per il contenuto del sito
ospitato, assimilandone il ruolo "a quello di un centro commerciale che
abbia concesso in locazione la bancarella sulla quale l'autore ha esposto i
prodotti incriminati", v. Trib. Cuneo, 23 giugno 1997, AIDA, 1997, 942.
E' controversa, in sostanza, l'esatta individuazione delle fattispecie di
responsabilità del provider.
Va segnalato - per la radicalità speculare all'indirizzo sopra esaminato -
quello che afferma con notevole ampiezza la responsabilità del provider,
equiparandolo "ad una sorta di editore, il quale ha l'obbligo di vigilare
affinché attraverso la sua pubblicazione non vengano perpetrati delitti o
illeciti di natura civilistica", (v. Trib. Macerata, 2 dicembre 1998 , cit.
che pertanto ha ritenuto un service provider responsabile dell'illecito
consistente nell'adozione, per un sito da esso ospitato, di un domain name che
costituiva violazione dell'altrui marchio e titolo di una pubblicazione).
La dottrina, a sua volta (ma senza riscontri in giurisprudenza), ha talora
tentato di affermare la responsabilità del provider, per omesso controllo delle
informazioni presenti su internet, richiamando l'art. 2050 c.c. (responsabilità
per l'esercizio di attività pericolose; vi è riscontro specifico nell'art. 18
della legge sulla privacy, n. 675/1996) o l'art. 2051 c.c. (responsabilità per
cose in custodia); si è però replicato che entrambe le norme - che pongono
fattispecie quasi di responsabilità oggettiva - postulano un potere di
controllo sulla attività o sulla cosa che - per il provider - neanche è
configurabile.
La medesima obiezione si muove a chi - anche in giurisprudenza (v. Trib. Roma 6
novembre 1997 AIDA 1998, 75; Tribunale Napoli, 8 agosto 1997, Giust. civ. 1998,I
259) - ha equiparato Internet alla stampa, e il provider all'editore, così
applicando il regime di responsabilità che opera per quest'ultimo; né può
trascurarsi - al di là delle difficoltà tecniche di controllo sul flusso delle
informazioni - che una tale equiparazione finisce per attribuire al provider -
che non ha poteri di vigilanza sui contenuti dei siti- un ruolo di garante
rispetto alla liceità delle comunicazioni via rete.
22) Tipologia di provider e fondamento colposo della responsabilità
Prevale - in dottrina e in giurisprudenza - la valutazione della
responsabilità del provider secondo i parametri dell'art. 2043. Pertanto la
responsabilità sussiste solo se sia configurabile una colpa a carico del
provider, vale a dire la violazione norme di prudenza, diligenza e perizia
individuate secondo l'agente modello (v., per profili ulteriori, Tribunale Roma,
4 luglio 1998, Arch. civ. 2000,1252; peraltro ben più rigorosa è la
responsabilità del provider che emerge dalla normativa in materia di pedofiia,
legge 269/1998).
Assume allora rilievo il tipo di servizio da lui effettivamente prestato.
Se infatti la prima obbligazione del provider è quella di consentire l'accesso
alla rete (qualificabile fornitura di servizi propedeutica alla fruizione di
tutti gli altri ), sono configurabili ben più rilevanti obbligazioni ulteriori.
Si distingue così tra contratti che hanno ad oggetto la mera fornitura dei
servizi di connessione, e contratti di fornitura di accesso in hosting (in cui
"il prestatore di servizi concede l'utilizzazione di uno spazio all'interno
del proprio disco rigido alle condizioni e secondo le modalità previste dal
contratto") o in housing (nel quale invece"la proprietà dell'hardware
e del server e la sua configurazione permangono in capo al titolare del
sito").
I primi danno luogo alle obbligazioni dell'access provider, gli altri,
comportando servizi aggiuntivi di editoria elettronica, a quelle del service
provider, questi collabora con il titolare del sito, ad esempio curando
l'approntamento e la diffusione dei messaggi immessi in rete (alla stregua di
diversa classificazione il service provider fornisce servizi di supporto, mentre
il content provider veicola propri contenuti, es . gestisce pagine web l'accesso
ai servizi forniti dai clienti).
Alla stregua del parametro della colpa, si tende ad escludere, per gli illeciti
industrialistici, la responsabilità dell' access provider, responsabilità che
- per il ruolo ben più attivo - è più agevolmente configurabile per il
content provider.
Per altro verso la direttiva CE sul commercio elettronico cit. pur escludendo
che il provider «sia responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di
un destinatario del servizio", né afferma invece la responsabilità quando
sia al corrente dell'illiceità dell'attività o dell'informazione (ovvero, ai
fini delle azioni risarcitorie, di fatti o circostanze che rendono manifesta
l'illegalità di esse) e quando egli, non appena al corrente di tali fatti, non
abbia agito immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitare
l'accesso.
23) La giurisprudenza su provider e domain name costituente contraffazione di
marchio
La giurisprudenza si è più volte pronunciata sulla responsabilità del
provider per la registrazione di un domain name che interferisce con un marchio
registrato.
Va subito segnalato che anche l'indirizzo che con più forza esclude la
responsabilità del provider ne ammette la responsabilità proprio quando viene
contestato il domain name, v. Trib. Velletri, 20 maggio 2000 (Galli, 43).
Trib. Macerata 2 dicembre 1998 cit. - peraltro sul discutibile presupposto della
equiparazione del provider all'editore - ha sostenuto che questi ha l'obbligo di
vigilare affinchè non vengano commessi illeciti, e ne ha affermato la
responsabilità nell'ipotesi di adozione di un domain name in violazione
dell'altrui marchio.
Più interessante sono Trib. Napoli 8 agosto 1997 cit., caso Cirino Pomicino
s.p.a., uno dei primi provvedimenti editi sull'illecito concorrenziale a mezzo
di Internet, e Trib. Roma,. 22 marzo 1999, caso INA, (AIDA, 1999, n. 634; GADI,
4081; Dir. inf., 2000, 66).
Il Tribunale partenopeo - pur con qualche incertezza lessicale (dovuta alla
precocità della pronuncia) ha affermato la responsabilità concorrente, a
titolo di illecito concorrenziale, del titolare del sito e del provider nella «
diffusione di un messaggio promozionale allocato in un sito Internet il cui
domain name è costituito dal segno distintivo di un concorrente»; in
particolare la responsabilità del provider è stata affermata per culpa in
vigilando (v. infra per ulteriori rilievi).
Il provvedimento romano ha affermato che l'Internet service provider , il quale
ospitava il sito di un imprenditore risponde a titolo di concorso dell'illecito
concorrenziale commesso da quest'ultimo per aver fatto uso di un domain name
riproducente l'acronimo di una nota società, l'INA, avendo "colpevolmente
omesso di rilevare l'illecita interferenza fra le due denominazioni", in
quanto "Nel caso del provider, che effettua il collegamento, non si dubita
che egli non possa accertarsi del contenuto illecito delle comunicazioni e dei
messaggi che vengono immessi in un sito; tuttavia, non può escludersi la sua
colpa, se le comunicazioni necessariamente date allo stesso provider al fine di
ottenere il collegamento, configurino esse stesse all'evidenza un
illecito".
Infine va richiamato Trib. Firenze 7 giugno 2001, caso Novamarine, Guida al
Dir., fasc. 37, 41, che - in sede di reclamo - pur sostenendo l'interpretazione
maggioritaria sulla contraffazione dei marchi a mezzo dei domain name, ha
revocato la misura cautelare dell'inibitoria disposta nei confronti del provider
, sostenendo che la responsabilità di questi può affermarsi solo «in casi
particolari se non proprio eccezionali, stante la minore evidenza dell'illecito
contraffattorio o confusorio rispetto ad altri tipi di illecito». Quindi «la
responsabilità del provider dovrà in concreto essere affermata con riferimento
a quei casi palesi di illecito confusorio, come nel caso di marchi o nomi
celebri. Una simile conclusione è poi rafforzata (per) la necessità di
diversificare il comportamento del provider in relazione al contenuto delle
singole obbligazioni assunte con l'utente finale, al fine di valutare, poi, la
diligenza del comportamento del provider in relazione al diritto dei terzi,
Invero qualora ..il provider abbia assunto la obbligazine di provvedere alla
registrazione del domain name, è evidente che nessun responsabilità sarà
configurabile al di fuori della ipotesi di registrazione di un nome di dominio
corrispondente ad un marchio di tale risonanza da indurre necessariamente il
provider secondo le normali regole di prudenza, ad astenersi dall'eseguire la
prestazione, essendo di immediata evidenza l'illecito dell'utente finale.
Diversamente opinando si finirebbe con l'addossare al provider il giudizio di
liceità o meno della registrazione del dominio, e quindi tutta una serie di
valutazioni (ad es. circa eventuali eccezioni di nullità del marchio, ecc.) che
sicuramente non competono a tale soggetto:.. la conclusione è particolarmente
adeguata al sistema italiano, considerato che neppure l'ufficio italiano Marchi
e Brevetti è in grado di verificare tutte l priorità in materia di marchi
registrati, onde è impensabile che un tale compito possa essere affidato ad un
provider». Nella specie il Tribunale ha escluso la responsabilità del provider
perché il marchio violato, seppure notorio, non è stato ritenuto di risonanza
tale da indurre il provider secondo l'ordinaria diligenza a ritenere con
sicurezza l'illiceità della registrazione come domain name.
Nel caso di specie, si noti, la responsabilità del provider CS Informatica
potrebbe affermarsi alla stregua di tutti tali provvedimenti: la convenuta,
infatti, ha assunto in concreto il compito, minimale (rispetto alle possibili
obbligazioni del provider) ma fondamentale, di attivare il sito (anche
presentando la domanda di registrazione del domain name Playboy).
Non poteva non avvedersi, alla stregua della comune diligenza, dell'interferenza
di tale denominazione con i celeberrimi marchi di parte attrice. Ciò senza che
abbia rilievo la distinzione tra access, service, content provider, cui - al
più - può farsi ricorso in relazione a messaggi ed informazioni illecite
presenti nel sito, ma non certo con riferimento all'assegnazione dei domain name.
In altri termini l'estraneità del provider al contenuto dei siti cui fornisce
il collegamento in rete non si può spingere sino ad ignorare i domain names di
essi, specie se celebri.
24) Il carattere assoluto della responsabilità contraffattoria
Il Tribunale tuttavia non condivide integralmente le argomentazioni
giuridiche ei provvedimenti surrichiamti, in particolare di quello fiorentino,
che rende del tutto marginale la responsabilità del provider (e ciò pur se -
come rilevato - comunque ne discende la responsabilità della CS informatica).
Si è più volte rilevato che la Playboy ha agito con la fondamentale azione di
contraffazione di marchio, per conseguire l'inibitoria e il risarcimento dei
danni.
La giurisprudenza afferma senza esitazioni che si tratta di una azione
proponibile erga omnes, che accorda al titolare del marchio una tutela assoluta
ed esclusiva.
legittimati passivi sono tutti i responsabili, vale a dire i contraffattori, tra
cui si ricomprendono - tradizionalmente -non solo i fabbricanti gli importatori
delle merci con i segni contraffatti, ma anche chiunque ne faccia commercio, o
comunque le utilizzi in contrasto con il diritto di esclusiva del titolare della
registrazione (App. Milano, 19 dicembre 1997, GADI 3896).
Si afferma così che la contraffazione del marchio è perpetrata da tutti i
terzi che abbiano preso parte all'uso dei prodotti contraddistinti dal marchio
contraffatto (Trib. Roma 15 novembre 1988, id., 2350) e comunque di chiunque
commerci o detenga a scopo di commercio prodotti con segni confondibili con quel
marchio (trib. Palermo 30 maggio 1991, id., 2675); la responsabilità di
ciascuno di tali soggetti è autonoma rispetto a quella degli altri.
Si prescinde dall'accertamento dell'esistenza di un complicità tra commerciante
e produttore, ovvero dall'esistenza di un comportamento doloso o colposo del
commerciante, rilevante solo al diverso fine del risarcimento del danno (App.
Napoli , 11 aprile 1994, id., 3229)
E' stata così affermata la legittimazione passiva anche del semplice
rivenditore, pur se in buona fede (Trib Torino,11 maggio 1987, id., 2258; Trib.
Salerno, 27 giugno 1990, id.., 2551).
In tal senso anche la giurisprudenza di legittimità: Cass. 4 dicembre 1999, n.
13592 , caso Cristal (id., 4051): «il diritto di esclusiva accordato al
titolare del marchio è leso da chiunque pretenda, con qualsiasi atto di
commercio, di operare uno sfruttamento del segno altrui. Non rilevano a
differenziare tale qualità giuridica di atti che comunque conducono ad una
confusione nel mercato la diversa collocazione nella catena distributiva o
produttiva».
25) L'illecito contraffattorio del provider
Il Tribunale reputa che tali principi possano essere riferiti, con gli
opportuni adattamenti, anche alle violazioni dell'esclusiva che avvengono in
ambiente Internet.
Ciò con particolare riferimento al ruolo del provider.
I siti Internet possono avere (e hanno, nella gran parte dei casi) carattere
commerciale/pubblicitario: da qui, d'altronde, la più volte affermata
possibilità di interferenza dei domain names con i segni dell'imprenditore, in
particolare con i marchi registrati.
La registrazione del domain name costituisce -è un dato intuitivo - il
presupposto stesso della "presenza" in rete, e quindi della
conoscibilità, di un sito: così come presupposto della registrazione è la
relativa domanda.
Certo, di per sé difficilmente la registrazione (e così il collegamento alla
rete) può qualificarsi atto di commercio in senso stretto, e a maggior ragione
l'attività preparatoria, a partire dalla stessa domanda: da qui il carattere
analogico della interpretazione proposta.
Tuttavia, pur non potendo qualificarsi di per sé atti di commercio, la
registrazione e il collegamento in rete costituiscono presupposti ineludibili
dell'attività commerciale svolta a mezzo Internet: si pone quindi come il primo
momento di una catena causale che ha - come logica conclusione - l'accesso al
sito, una volta attivato, da parte degli utenti (che già concreta l'attività
commerciale, v. quanto prima osservato sulla initial confusion).
In altri termini, così come costituisce contraffazione qualunque attività che
si pone in qualunque punto della catena distributiva di una merce o di un
servizio, avvalendosi illecitamente di un dato segno, così sono sanzionabili
come atti di contraffazione la registrazione, compresi gli atti preparatori, e
quindi la stessa attivazione di un sito, in quanto primo segmento della catena
del "commercio elettronico" (ovvero, utilizzando per una volta il
linguaggio che pure si prima criticato, la registrazione rientra - quanto meno
come presupposto - nel commercio mediatico, rappresentato dalla stessa
accessibilità del sito)
D'altronde il comportamento da reprimere, nel caso di contraffazione di marchio
a mezzo di indebita utilizzazione di domain name, non consiste nella
disponibilità sulla rete del sito in cui si perpetra la violazione, ma nella
predisposizione del sito stesso, v. Trib. Verona, 18 dicembre 2000, Foro It.,
2001, I, 2032.
Ne segue che il provider, assumendo l'obbligazione di procedere alla
registrazione, vale a dire di richiederla, e dando attuazione a tale suo
impegno, ha tenuto una condotta causalmente rilevante rispetto alla
registrazione stessa: d'altronde la registrazione è sempre subordinata alla
nomina di un provider.
Certo, il domain name è scelto di norma dal (futuro) titolare del sito, ma il
provider, accettando di chiedere la registrazione di quella denominazione,
assume - ed in via autonoma - la posizione di legittimato passivo dell'azione di
contraffazione, esattamente come il rivenditore che mette in commercio il
prodotto con il marchio contraffatto.
Considerazioni non diverse valgono per l'attivazione e il mantenimento del sito.
La buona fede, alla stregua della giurisprudenza sopra richiamata, è
irrilevante.
Tale interpretazione, certo rigorosa, è però conforme al dato normativo, e
assolve oltretutto anche ad una funzione di deterrenza; anche sotto il profilo
tecnico, d'altronde, il provider - esattamente come il titolare del sito - deve
considerarsi destinatario dell'inibitoria, e delle altre misure richieste.
Non può infatti trascurarsi che i provider sono, di norma, come accennato,
imprenditori, e svolgono le attività concordate con il cliente dietro
corrispettivo: il rischio di chiedere la registrazione di un domain name
coincidente con un marchio da altri registrato (subendone le conseguenze di
legge) è, in definitiva, un tipico rischio di impresa.
Beninteso, ai fini risarcitori (art. 66 cpv legge marchi) il provider - sempre
alla stregua delle regole generali in materia di contraffazione - risponderà
solo se in dolo o in colpa: ma tale responsabilità non è certo configurabile
solo in ipotesi eccezionali, come erroneamente invece ritenuto dal Tribunale di
Firenze.
Nei confronti del terzo danneggiato, titolare del marchio registrato, il
provider risponderà esattamente come il titolare del sito.
Né può obiettarsi che in tal modo si grava il provider di una responsabilità
eccessiva, a fronte di illeciti di difficile verificabilità.
Infatti la legge stabilisce un regime di pubblicità delle registrazioni e delle
domande, che ne comporta l'agevole accessibilità (art. 79, 80 legge marchi);
così come chi intende registrare (e, ancor prima, utilizzare) un marchio ha
l'onere di accertare se questo è già stato oggetto di registrazione, così -
anzi a maggior ragione - deve procedere chi (utente, o per conto di questi, il
provider) deve procedere chi intende registrare un domain name.
A conclusioni non diverse - lo si rileva per completezza - dovrebbe giungersi
anche qualora si voglia affermare che la responsabilità contraffattoria del
provider non sia autonoma, ma concorrente con quella del titolare del sito, che
chiede (direttamente o a mezzo del provider) la registrazione; troveranno in tal
caso i medesimi principi operanti per il concorso del provider nella concorrenza
sleale.
26) Il caso di specie
Nella specie, come già si è accennato, è del tutto superfluo accertare le
eventuali prestazioni accessorie rese dalla CS informatica, quanto alla gestione
del sito (anche se appare francamente poco credibile quanto sostenuto dalla CS
circa la "difficoltà" a conoscere il contenuto del sito del
Giannattasio).
Quel che rileva è che la CS ha provveduto, quale provider, all'inoltro del nome
di dominio per cui è causa, ed anche della lettera di assunzione di
responsabilità prevista dalle regole di naming, e ha proceduto alla attivazione
del collegamento.
Ciò in base ad una obbligazione contrattualmente assunta con il Giannattasio.
Si tratta di circostanze incontestate, e che trovano comunque riscontro negli
atti di causa: si veda il contratto di housing del 17 dicembre 1997; la
registrazione del sito Playboy, peraltro, è del 13 marzo 1998. La CS,
nonostante sia stata diffidata dala società attrice fin dal settembre di
quell'anno, ha rinnovato gli impegni contrattuali con il Giannattasio:v. cil
contratto 1 ottobre 1998 (housing a banda garantita) e quello di connessione del
1 novembre 1998.
Così la comparsa conclusionale della CS: «la CS in qualità di provider mette
a disposizione del cliente i mezzi per rendere visibile ed accessibile il sito.consentendo
altresì al suddetto di operare sul proprio sito attività commerciali mediante
un servizio specifico di abilitazione di password.nel nostro caso il provider
si è limitato a offrire l'accesso in rete al cliente, al più consentendogli di
commercializzare il prodotto che quest'ultimo offre».
Tali affermazioni - di portata latamente confessoria - costituiscono la
definitva conferma del contributo causale dato dal provider allo svolgimento
dell'attività commerciale del Giannattasio, con l'illegittimo uso del segno
distintivo della società attrice.
Vi è riscontro puntuale, d'altronde, nella conclusionale del CNR, secondo cui
«la registrazione del dominio di secondo livello Playboy sotto il dominio it.
è stata fatta a seguito di una precisa richiesta della CS Informatica (che)
chiedeva inoltre di poter usufruire del servizio di name server secondario per
il dominio Playboy.it»
Né la CS può affermare correttamente che non avrebbe potuto procedere
diversamente, in quanto ormai contrattualmente vincolata al Giannattasio,
sicchè sarebbe incorso in responsabilità contrattuale verso quest'ultimo se
non avesse registrato il domain name in discussione (sui presupposti tecnici di
tale rilievo, d'altronde, il CNR ha svolto convincenti deduzioni , che
smentiscono l'assunto della CS).
E' infatti agevole replicare che tale pretesa responsabilità non può certo
opporsi alla società attrice, del tutto estranea ai rapporti tra il
Giannattasio e la CS, e che ha proposto azione extracontrattuale.
Di più: mai il provider deve considerarsi contrattualmente vincolato ad
attivarsi per la registrazione di un domain name illecito, perché in violazione
dell'altrui diritto: una tale clausola contrattuale sarebbe infatti nulla per
illiceità dell'oggetto.
F) PROVIDER e R.A. (AUTORITA' ITALIANA)
27 ) RA e NA: natura privatistica
La CS informatica assume anche che - in ogni caso - il controllo (una sorta
di filtro) sui domain name è svolto dalla R.A. (registration authority), alla
stregua delle regole di Naming, e che questa e la sola valutazione possibile sui
domain name medesimi.
La tesi non può essere condivisa.
La R.A. , a dispetto del nome che riecheggia le Autorità Garanti (che
prolificano nel nostro ordinamento) non e' un organismo istituzionale: infatti
non opera alla stregua di norme di diritto pubblico (benchè si tratti di organo
del CNR, e persegua finalità di interesse generale), ed è anzi un soggetto
privo di qualsiasi connotato pubblico, v. Trib. Genova 17 luglio 1999 , Dir.
informatica 2000, 341.
Da qui anche l'inesattezza di ogni paragone con il contenuto dei controlli
svolti dall'Ufficio Italiano Brevetti e Marchi, che opera alla stregua di norme
pubblicistiche (da cui derivano anche, evidentemente, la configurazione della
relativa responsabilità).
La RA è stata istituita su base convenzionale ed è filiazione di una più
vasta organizzazione internazionale (l'ICANN); gestisce il data base dei nomi di
dominio con il country code it. e verifica la rispondenza delle richieste di
assegnazione dei domain name al relativo regolamento.
La procedura operativa, e il regolamento in base al quale opera la RA, sono
fissate da un altro organismo, la NA (naming authority), separato ed
indipendente dalla RA.
In altri termini la NA definisce le regole di naming, regole essenzialmente
tecniche e procedurali per l'assegnazione e gestione nomi a dominio registrati
sotto il TLDOMAIN NAME it; la RA compie invece le operazioni tecniche necessarie
perché il domain name sia visibile e raggiungibile in Internet.
Le regole di naming vigenti sono in uso dal 14 agosto 2001 che peraltro, per
quel che qui interessa non si discosta dalla versione in vigore all'epoca della
registrazione del domain name in contestazione.
E' allora evidente che il provider non può pretendere di escludere la propria
responsabilità solo perché la registrazione è avvenuta nel rispetto delle
regole di naming: la richiamata natura privatistica di queste ultime le rende
inopponibili al terzo danneggiato, nella specie la Playboy.
28) Regole di naming e marchi
Vi è di più.
L'assegnazione in uso dei domain name è sostanzialmente automatica perché la
RA si limita ad effettuare controlli di natura tecnica sulla completezza delle
domande, senza entrare nel merito, salvo il divieto di registrazione dei nomi di
dominio riservati, assegnabili solo a soggetti determinati.
Unico criterio è quello, già richiamato, del first come first served: chi
chiede la registrazione di un domain name può ottenerla, sempre che il second
level non coincida con altro già registrato.
In altri termini un segno può essere utilizzato come domain name quando abbia
avuto esito negativo la ricerca di anteriorità identiche condotte dalla RA
esclusivamente sui domain names già registrati, senza cioè che l'esame si
estenda al confronto con antecedenti registrazioni del medesimo segno come
marchio (v. trib. Genova 18 dicembre 2000, Dir. informatica 2001, 521 : «Tra i
compiti della Registration Authority non rientra quello di verificare
l'eventuale conflitto tra il "domain name" e la disciplina relativa ai
marchi e agli altri segni distintivi.»
Le regole di naming prescindono quindi dal significato commerciale di quella
parola, e dalle possibili informazioni che possono essere accessibili da quel
dominio: non si occupano del rapporto tra nd e marchio, ma puntualizzano che il
domain name è un domain name e null'altro.
Pertanto l'interferenza tra domain name e marchio prescinde totalmente dalla
registrazione: la procedura prevista dalle regole di naming non assicura alcun
tipo di filtro, anche solo sommario, a tutela dei segni distintivi
dell'imprenditore (v. infra).
Al riguardo opereranno le norme dell'Ordinamento statuale, evidentemente in
primo luogo la legge marchi e la normativa in materia di concorrenza sleale,
come si è prima evidenziato, norme cui sono soggetti tutti gli interessati,
compresi i provider.
29) La responsabilità della RA
E' sorta semmai la questione della corresposabilità anche della RA., sia con
riferimento all'illecito contraffattorio che alla concorrenza sleale.
Nella specie la questione deve essere esaminata, pur se sommariamente, ai fini
della sola valutazione della c.d. soccombenza virtuale, perché (a seguito del
rigetto della domanda di risarcimento, v. infra) la domanda di garanzia proposta
dal provider nei confronti della RA dovrà considerarsi assorbita.
L'unico provvedimento edito, Trib. Macerata,. 2 dicembre 1998 cit., ha escluso
questa responsabilità in quanto la registration authority
"ragionevolmente, non può rifiutare una registrazione solo perché ritiene
che il nome proposto sia il marchio noto di soggetto diverso, in quanto andrebbe
incontro a possibilità di arbitrio e sorgerebbero indubbiamente più questioni
di quelle che invece sorgono con la attuale disciplina ed interpretazione".
Si tratta di un ragionamento che non può essere condiviso: palesemente è
fondato su valutazioni di opportunità - estranee all'attività giurisdizionale
- e non giuridiche.
D'altronde Trib. Modena 7 dicembre 2000 e Trib. Brescia 11 ottobre 2000 cit
sembrano ispirati ad un ben diverso atteggiamento nei confronti della RA.
In realtà - a giudizio del Tribunale - la RA , in ragione della sua stessa
funzione "istituzionale" pone in essere una condotta causalmente
rilevante rispetto alla attivazione del sito con il domain name illecito.
D'altronde è intuitivo che la registrazione costituisce l'atto in forza del
quale il domain name entra nella realtà di Internet.
Resta da stabilire se la RA risponda dell'illecito contraffattorio, ma anche
della concorrenza sleale, direttamente, allo stesso modo del provider, o se si
realizza una fattispecie di concorso.
Potrebbe anche affermarsi che la RA, per le peculiarità del suo ruolo (soggetto
imparziale, espressione di un ente pubblico, preposto all'assegnazione dei
domain names secondo regole generali) risponda non alla stregua della normativa
industrialistica, ma esclusivamente a titolo di responsabilità
extracontrattuale, ex art. 2043 c.c.
La dottrina - pur non avendo particolarmente approfondito la questione- tende ad
affermare la responsabilità per colpa grave della RA almeno nel caso di
registrazione di marchio che gode di rinomanza.
In ogni caso la RA non potrebbe opporre al terzo danneggiato le limitazioni di
responsabilità che discendono dagli atti negoziali intercorrenti tra la RA
stessa, il titolare del sito e il provider.
La RA neanche può affermare di operare alla stregua delle regole di naming,
poste da autorità diverse dalla RA stessa.
A parte infatti il rilievo che sia RA che Na fanno capo al CNR, resta il dato
ovvio che la prima opera, "liberamente" (si è pur sempre in ambito
solo privatistico), in base alle norme poste dalla seconda, sicchè finisce per
rispondere anche delle carenze delle norme in questione.
Infatti le regole di naming sono inadeguate, proprio perché- come accennato -
non prevedono alcun utile filtro, volto a prevenire la registrazione come domain
name di marchi registrati ed altri segni dell'impresa.
Ciò pure se le regole di naming prevedono la possibilità della interferenza in
questione: si veda la stessa previsione (come condizione per l'assegnazione del
domain name) di una lettera di assunzione di responsabilità da parte del
richiedente e di una procedura di contestazione (è anche richiamata
espressamente la possibilità che un terzo affermi che il domain name sa tale da
indurre confusione con il proprio marchio).
Anche a livello internazionale si è raccomandato di non consentire la
registrazione di domain name coincidenti con marchi celebri, se non ai loro
titolari.
In definitiva il procedimento italiano di registrazione ha favorito il
cybersquatting e la cyberpiracy, e ha reso - in caso di conflitto (come
nella specie) quasi fisiologico il ricorso all'autorità giudiziaria.
Alla stregua di quanto sopra, e anche a voler adottare l'interpretazione più
benevola per la RA, questa nella specie (poco rilevando il rispetto di norme a
loro volta inadeguato) mai avrebbe dovuto consentire la registrazione del domain
name Playboy, agevolmente riconoscibile come non nella titolarità (come marchio
o altro segno distintivo) del Giannattasio.
Da qui allora, la configurabilità della colpa grave della RA .
Questa poi non può opporre al provider che agisce in garanzia la limitazione di
responsabilità di cui al contratto del 29 aprile 1998 cit. , in quanto tale
clausola si pone in palese contrasto con l'art. 1229 1° comma c.c.
In definitiva, nel caso di specie, la domanda di garanzia della CS non avrebbe
potuto considerarsi infondata, ove fosse stata accolta pienamente la domanda
della società attrice nei confronti del convenuto in parola.
G) CONCORRENZA SLEALE
30) Domain name e repressione della concorrenza sleale
L'azione c.d. reale a tutela dell'esclusiva sul segno distintivo, ex legge
marchi, e quella personale di concorrenza sleale, possono essere infatti
proposte congiuntamente (Cass. 3 luglio 1992, GADI 2751).
Peraltro, proposta l'azione ex legge marchi, l'ambito di tutela assicurato dalla
previsione dell'art. 2598 c.c. è ristretto, considerando anche che il Tribunale
ha adottato un criterio di valutazione in concreto - e non in astratto - del
rischio di confusione tra i marchi.
Così, nella specie, la normativa sulla concorrenza sleale ha una rilevanza
sostanzialmente marginale.
In ogni caso, la giurisprudenza in materia di domain name richiama sovente anche
la disciplina della concorrenza sleale, talora anche in via esclusiva, sempre
beninteso che vi sia un rapporto di concorrenza in concreto tra due imprenditori
(v. Trib. Verona 10 gennaio 2001, Galli, 68).
Viene evidentemente in considerazione soprattutto l'ipotesi di cui al n. 1)
dell'art. 2598, l'uso di segni distintivi idonei a produrre confusione con
quelli altrui (ma la giurisprudenza richiama anche la concorrenza sleale per
appropriazione di pregi, e per violazione del canone residuale di cui al n. 3
art. 2598 c.c.).
Così Trib. Napoli 8 agosto 1997, Riv. dir. ind. 1999: « L'utilizzo di segni
distintivi appartenenti ad altra azienda. puo' ingenerare nella clientela
confusione sulla effettiva provenienza dei prodotti e sulla identita' personale
dell'imprenditore, determinando sicuramente perdita e sviamento di clientela
data la capillare diffusione del sistema telematico»;v. ancora - in quanto
particolarmente pertinente al caso di specie - Pretura Valdagno, 27 maggio 1998,
Giur. It. 1998, 2108 (è il caso Peugeot, di cui Trib. Vicenza 6 luglio 1998
cit. costituisce il reclamo) , Giur. it. 1998,1875, 2108: «Configura gli
estremi della concorrenza sleale per confusione l'utilizzo da parte di una
societa' di un marchio notorio di altra societa' per contraddistinguere un
"domain name" su Internet.» .
Trib. Genova 13 ottobre 1999, caso Altavista, Dir. Inf. 2000, 346 sottolinea poi
che «la registrazione dell'altrui marchio come domain name impedisce al
legittimo titolare del marchio di registrarlo a sua volta come domain name, e
come tale costituisce una violazione delle norme di lealtà e correttezza della
concorrenza, quanto all'accesso ai sistemi informatici integrati e alla loro
utilizzazione e quindi un atto di concorrenza sleale ex art. 2598 n. 1 e 3».
Tale provvedimento segnala anche che il mercato in cui le due società possono
essere considerate concorrenti e' quello della pubblicità via Internet.
Infine va segnalato che in giurisprudenza si è anche affermata la trasposizione
alla concorrenza sleale confusoria del rischio di associazione ex legge marchi,
v. Trib. Napoli, 11 luglio 2000, GADI, 4169: « la fattispecie normativa (ex
art. 2598 n. 1 cit.) è integrata allorchè il pubblico è indotto a trasferire
il messaggio positivo comunicato dal prodotto o dalla attività di cui è
chiesta la tutela al prodotto o alla attività di chi ha posto in essere gli
atti appunto qualificati come concorrenzialmente scorretti».
31) Il caso di specie
Nella specie la società attrice ha agito - fin dalla fase cautelare - anche
invocando l'art. 2598 c.c.
D'altronde sia la Playboy che il Giannattasio hanno la qualità di imprenditori,
in concorrenza anche per l'affinità merceologica dei prodotti/servizi forniti.
Si è già rilevato poi che la società attrice è presente anche in Internet,
ed è titolare del sito www.playboy.com. (si consideri che Trib. Velletri 20
maggio 2000, Galli 43, ha affermato che l'uso del domain name Touring
costituisce concorrenza sleale a danno del Touring Club Italiano, tenuto conto
che questi gestisce un proprio sito internet nel medesimo settore, quello
turistico).
La condotta del Giannattasio allora effettivamente integra gli estremi della
concorrenza sleale.
Peraltro qui non viene in considerazione tanto l'ipotesi della concorrenza
sleale confusoria, sostanzialmente assorbita dalla previsione di cui alla legge
marchi, quanto l'appropriazione dei pregi e dei prodotti della società attrice.
Da questo punto di vista assume significato particolare l'inserimento, nel sito
del Giannattasio, di alcune fotografie, riproducenti ragazze seminude, della
Playboy , ciò in violazione anche dei diritti patrimoniali d'autore che alla
attrice competono.
Tale valutazione in termini di concorrenza sleale è poi confermata dal fatto
che il sito del convenuto consente - tramite hyperlink (collegamento telematico)
il passaggio ad altro sito di analogo contenuto, che pure presenta foto su cui
l'attrice dispone del diritto d'autore (circostanza incontestata).
32) Responsabilità del provider per concorrenza sleale
Il provider risponde anche di concorso nell'illecito concorrenziale.
Sul punto può concordarsi con Trib. Napoli, 8 agosto 1997, cit., che ha
richiamato l'espressa previsione dell'art. 2598 n. 3 c.c., secondo cui la
concorrenza sleale può essere compiuta anche indirettamente (il rapporto
concorrenziale diretto intercorre, evidentemente, tra il titolare del sito e
l'attore in contraffazione) .
Occorre, in primo luogo, che tra l'imprenditore in concorrenza diretta (il
titolare del sito) e il terzo (il provider) esista una particolare relazione,
per effetto della quale l'attività del primo deve ritenersi svolta
nell'interesse dell'imprenditore.
Di contro, non appare corretto ancorare la corresponsabilità dell'extraneus -
provider agli stessi requisiti dell'illecito aquiliano; può richiamarsi, in
quanto espressione di un principio generale, di cui agli artt. 110 c.p.
(concorso di persone nel reato) o al più l'art. ) e 111 c.p. (cooperazione nel
delitto colposo), mentre appare del tutto inutile il richiamo a istituti di
altri ordinamenti (contributory infringment).
Ancor più radicalmente, può affermarsi che chi coopera ad un atto di
concorrenza sleale, specie se a propria volta imprenditore, come nella specie,
risponde in solido con l'imprenditore ai sensi dell'art. 2598 c.c., quindi allo
stesso titolo.
Così Cass. 16 aprile 1983 n. 2634, Foro It., 1983, I, 2160: «la
responsabilità del terzo rimane ancorata allo stesso titolo perchè se è vero
che le norme sulla concorrenza sleale non vincolano gli estranei alla relazione
di concorrenza.tale non può considerarsi colui che si inserisce in tale
relazione a fianco dell'imprenditore concorrente, nel cui interesse si rende
autore o coautore del comportamento vietato. Di questo risponde secondo il
principio generale della solidarietà nell'illecito, art. 2055 c.c.,
verificandosi un fenomeno non diverso da quello noto in diritto penale come
partecipazione dell'estraneo ad un reato proprio»; peraltro non è richiesto un
pactum sceleris, ma solo che l'azione del terzo sia obiettivamente collegata
all'interesse dell'imprenditore; v. anche Cass. 20 novembre 1985 n. 5708, GADI.
Si ricordi, infine, che in materia di concorrenza sleale opera la presunzione di
colpa di cui all'art. 2600 c.c.
Tanto si riscontra nella specie (quanto ai residui profili di concorrenza sleale
che si sono riconosciuti, una volta accertato l'illecito contraffattorio): si
consideri che la CS Informatica era vincolata contrattualmente al Giannattasio
e, con la propria condotta (domanda di registrazione, attivazione del
collegamento) ha reso oggettivamente possibile lo svolgimento dell'attività
illecita in questione
H) LA DOMANDA DI RISARCIMENTO DEI DANNI
33) La mancanza di prova dell'an debeatur
La società attrice ha chiesto anche il risarcimento dei danni subiti,
evidentemente sia ex art. 66 legge marchi che, per i profili di concorrenza
sleale, ex art. 2600 c.c., quantificati in conclusionale in lire 500.000.000.
E' appena il caso accennare che la dottrina e la giurisprudenza hanno
individuato diversi criteri per la liquidazione di tali danni (per una sintesi
degli orientamenti giurisprudenziali v Riv. Dir. Ind. 2001, 141 ss), che ben
possono adattarsi anche alle ipotesi di danno proveniente da contraffazione di
domain name.
Ciò specie allorchè - ed è proprio il caso di specie -l'attività delle parti
si svolga esclusivamente on line, cosicché è possibile fare riferimento alle
forniture di prodotti o servizi effettuate dal contraffattore e di quelle in
ipotesi perse dalla vittima dell'illecito (nella specie - peraltro - solo il
Giannattasio opera esclusivamente in rete).
In tal senso Trib. Ivrea, 19 luglio 2000 cit. allo stato l'unica sentenza edita
in materia.
Può solo rilevarsi, con la migliore dottrina, che l'uso dei segni distintivi su
Internet è essenzialmente pubblicitario, sicchè - nel valutare il danno, il
Giudice dovrà valutare l'impatto di quest'uso sui risultati commerciali
conseguiti dalle parti in conflitto.
Tuttavia nella specie la società attrice non ha minimamente assolto all'onere
probatorio cui era tenuta, con riferimento al quantum debeatur, ma anche allo
stesso an debeatur.
La Playboy, quanto a tale ultimo, fondamentale profilo, ha ritenuto- del tutto
affrettatamente (alla stregua di qualche non recente precedente
giurisprudenziale) - che il danno subito sussista in re ipsa, nel fatto stesso
della contraffazione.
Di contro, il danno risarcibile è di per sé autonomo, ontologicamente e
giuridicamente, dall'evento illecito eventualmente idoneo a produrlo (nella
specie la contraffazione): l'uno e l'altro sono pertanto oggetto di prova, non
potendo il primo desumersi, in mancanza di ulteriori elementi di valutazione,
dal secondo (arg. da Cass. 28 aprile 1990, n. 3604, GADI, 2472).
Così Trib. Milano 19 dicembre 1991, id., 2721, proprio in materia di
contraffazione di marchi: «la mancanza di ogni prova di concreti danni prodotti
dalla contraffazione del marchio preclude l'accoglimento della domanda
risarcitoria, dovendosi escludere la possibilità del ricorso al criterio della
liquidazione equitativa o in una somma globale che afferisca alla determinazione
del quantum e non dell'an debeatur.»; v. ancora Trib. Milano 3 giugno 1993, id.
2973, secondo cui « va rigettata la domanda di risarcimento del danno derivante
dalla contraffazione di marchio e dalla concorrenza sleale posta in essere dal
convenuto se l'attore non ha in alcun modo comprovato il danno sofferto, né ha
indicato i parametri per una valutazione equitativa del danno medesimo», in
termini - tra i tanti - v. Trib. Milano 11 gennaio 1996, id. 3455; App Milano 4
febbraio 1997, id. 3886; 12 settembre 1997, id. 3892; Trib. Milano 25 settembre
1997, id. 3774; Trib. Catania 9 ottobre 1997, id. 3778; Trib. Bolzano 23 giugno
1998, id. 3822; con specifico riferimento alla concorrenza sleale v. anche Trib.
Torino 12 giugno 1998, id. 3819 .
Anche parte della giurisprudenza richiamata da parte attrice individua il danno
risarcibile in re ipsa non semplicemente nel fatto della contraffazione, ma in
un quid pluris, quale è la illecita captazione di clientela che dalla
contraffazione deriva, fatto che a sua volta è oggetto di prova, v. Trib.
Prato, 21 febbraio 1994, id. 3110.
V. al riguardo anche Trib Torino 14 agosto 1989, id. 2440, che reputa sì che il
danno in oggetto sia in re ipsa nel fatto illecito, ammettendone la liquidazione
equitativa, ma indica una serie di parametri oggettivi, la cui prova incombe
evidentemente all'attore: entità del fenomeno, dimensioni dell'impresa che ha
commesso l'abuso, natura dei prodotti, prezzi di mercato ecc.
Né l'attrice si è limitata a chiedere una condanna generica, che comunque pure
implica la prova dell'an debeatur (così Trib. Ivrea 19 luglio 2000 cit.)
Già alla stregua di tale considerazione la pretesa della Playboy può essere
disattesa.
34) La mancanza di prova del quantum debeatur
Per completezza, deve rilevarsi che la "prova" del quantum debeatur
offerto dalla attrice non ha in realtà pregio giuridico.
Infatti - ad avviso del Tribunale - la Playboy ha preferito soffermarsi - non
brevemente - sulle difficoltà di quantificazione, in generale, del danno da
illecito contraffattorio
L'attrice ancora si duole dell'inadeguatezza dei risarcimenti spesso liquidati
dai tribunali, che si risolvono in una sorta di rischio calcolato per il
contraffattore, pur se va affermandosi la tendenza - più favorevole ai
danneggiati - a considerare come punto di riferimento l'utile realizzato dal
contraffattore; la Playboy, infine, richiama l'art. 58 bis legge marchi,
introdotto dalla novella del 1996 in attuazione dei TrIPs, e che ha
rivoluzionato la materia dell'esibizione dei documenti.
Rilievi tutti interessanti, e ampiamente condivisi dal Tribunale: e tuttavia la
società attrice non ha colto nel segno, in quanto - nel caso concreto (l'unico,
evidentemente, che qui interessa) non ha offerto alcun elemento a sostegno della
domanda risarcitoria, anche in ordine al quantum debeatur.
In citazione la Playboy, ex art. 58 bis legge marchi ha chiesto ordinarsi ai
convenuti l'esibizione dei tabulati deli istituti emittenti le carte di credito
utilizzate per il pagamento degli abbonamenti al fine di determinare con
esattezza assoluta l'ammontare dell'importo che i convenuti medesimi hanno
realizzato a danno dell'attrice.
Tuttavia alcuna richiesta istruttoria è stata formulata in corso di causa, pur
avendo il GI fissato l'udienza ex art. 184 c.p.c., stabilendo i relativi
termini; sicchè la richiesta ex art. 58 bis cit deve ritenersi oggetto di
rinunzia (né è stata richiamata in conclusionale), evidentemente perché
l'attrice ha ritenuto sufficiente indicare i criteri che saranno in prosieguo
esaminati.
In ogni caso l'istanza di discovery - di cui all'art. 58 bis - non avrebbe
comunque potuto essere accolta, in quanto - come rilevato - l'attrice non aveva
fornito alcun elemento, anche indiziario, sulla fondatezza della propria domanda
risarcitoria, come invece richiesto dalla norma in parola.
L'attrice - in realtà - ha abbandonato l richiesta di discovery in quanto ha
ritenuto che sussista la prova documentale per l'esatto calcolo del danno
subito, o almeno di parte di esso.
Ha infatti esibito il supplemento della rivista L'Espresso, L'espresso On Line
del 10 dicembre 1998. E' qui pubblicata, nell'ambito di un articolo con più
ampio oggetto, una dichiarazione riferita a Gilda Cosenza, della CS Informatica:
«I siti erotici rappresentano solo il 20% della nostra attività. ma proprio
da questi arrivano praticamente tutte le transazioni che gestiamo, per un cifra
tra uno e due milioni al giorno» ; l'articolo osserva ancora che «messi
insieme i siti ospitati dalla CS informatica gestiscono un traffico di poco meno
di un milione di accessi al mese con 10.000 abbonamenti».
Partendo da queste affermazioni la società attrice reputa che sia possibile
determinare l'ammontare del danno subito; in sintesi ha calcolato che il sito
Playboy abbi generato 1428 abbonamenti (i 10.000 dichiarati diviso per il numero
dei siti gestiti dalla CS), considerando poi che il costo medio dell'abbonamento
è di lire 89.000 (media tra il coso di abbonamento mensile e trimestrale) ha
dedotto un guadagno, per il sito in oggetto, di lire 127.092.000.
E' agevole replicare che tale computo costituisce il frutto di mere illazioni, e
non certo di un corretto ragionamento presuntivo.
La giurisprudenza - con ragionamento agevolmente estensibile al caso di specie -
afferma infatti che il danno in oggetto non coincide con le vendite del
contraffattore - perché non può ritenersi che tutti gli acquirenti del
prodotto contraffatto (nella specie tutti gli abbonati al sito in discussione)
avrebbero comprato i prodotti originali (nella specie avrebbero preferito
ricorrere al sito "originale" , Playboy.com), v. Trib. Torino 5
novembre 1999, GADI, 4106..
V'è di più: il ragionamento della Playboy è viziato nel fondamento fattuale
perché (a fronte di specifica contestazione della CS Informatica) alcuna
rilevanza istruttoria, anche solo indiziaria, può riconoscersi all'articolo
surrichiamato.
Infatti non è giuridicamente ammissibile riferire alla Cosenza delle
dichiarazioni riportate, in parte indirettamente, dall'Espresso, ciò anche
allargando a dismisura il concetto di documento proveniente da terzi, come prova
atipica o fondamento di presunzione.
Quanto poi al danno da annacquamento, o da dilution, l'attrice reputa che il
parametro di computo sia offerto dalle spese pubblicitarie, e assume che, in
Italia, spenda a tale titolo importi rilevantissimi. Peraltro alcun elemento ha
fornito o ha indicato al riguardo (e pur se, ancora in conclusionale, si riserva
di quantificare nel prosieguo della causa le proprie spese pubblicitarie nel
1998; inoltre si è ben guardata dall'indicare in base a quale ragionamento ha
quantificato il danno nel notevolissimo importo di cui alla conclusionale)
35) La liquidazione equitativa, in generale.
Neanche può accogliersi la domanda di liquidazione equitativa, avanzata in
via subordinata dalla società attrice.
E' opportuna una premessa di carattere generale.
La giurisprudenza in materia di liquidazione equitativa è davvero ampia, ed è
giunta a conclusioni ormai univoche e ferme.
La norma di riferimento è l'art. 1226 c.c. (applicabile, ex art. 2056, anche
all'illecito extracontrattuale): «se il danno non può essere provato nel suo
preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa».
Nello stesso rito del lavoro l'art. 432 c.p.c. attribuisce al giudice il potere
di liquidare con valutazione equitativa la somma dovuta al lavoratore solo
quando sia certo il relativo diritto, e soltanto quando sia stata accertata
l'obiettiva impossibilita' di una determinazione certa dell'importo della somma
dovuta alla stregua degli elementi acquisiti al processo, v. Cass., sez. lav.,
22 agosto 2001, n. 11210, Giust. civ. Mass. 2001,1612.
Quindi, preliminarmente, il giudice deve accertare il presupposto stessa della
liquidazione in via equitativa, costituito dall'esistenza del danno risarcibile:
non può mai prescindersi dall'accertamento dell'an debeatur; così Cass. 8
settembre 1997, n. 8711, id. Mass. 1997,1646: «Il potere del giudice di
liquidare il danno con valutazione equitativa presuppone la prova in concreto
della esistenza del danno».
Inoltre il giudice deve riscontrare l'impossibilita' o la rilevante difficolta'
di fornire un qualsiasi elemento di prova sul preciso ammontare del danno stesso
In altri termini il giudice deve accertare che non sussistono elementi utili e
sufficienti per la determinazione del danno sulla base di elementi oggettivi,
Cass. 2 aprile 2001, n. 4788, id. Mass. 2001, 665; 17 maggio 2000, n. 6414, id.,
Mass. 2000,1046; 27 dicembre 1996, n. 11535 , id. Mass. 1996,1797.
Impossibilità o difficoltà di prova vanno parametrate alla peculiarita' del
fatto dannoso o alle condizioni soggettive del danneggiato, v. Cass. 27 dicembre
1995, n. 13114, Danno e resp. 1996, 354 e possono riscontrarsi anche solo per
alcune delle componenti del danno complessivo, v. Cass. 3 novembre 1994, n.
9039, id. Mass. 1994,fasc. 11.
Di particolare interesse è Cass. 14 maggio 1998, n. 4894, id. Mass.
1998,1041: «Il criterio sussidiario di valutazione equitativa del danno, di cui
all'art. 1226 c.c., e' utilizzabile - sempreche' sia certa l'esistenza di un
danno - solo se la sua precisa determinazione incorra in una impossibilita'
probatoria o, quanto meno, sia ostacolata da una rilevante difficolta', mentre
non e' sufficiente la semplice complessita', che renda necessaria l'ammissione
di una consulenza tecnica o il ricorso a valutazioni di tipo presuntivo; inoltre
il giudice, nel procedere alla liquidazione equitativa, deve innanzitutto
vagliare tutti gli elementi di prova raccolti in ordine all'ammontare del danno
(al fine di rendere la liquidazione, per quanto possibile, corrispondente alla
reale entita' del pregiudizio)»; Cass. 27 dicembre 1995, n. 13114, id. Mass.
1995,fasc. 12, esclude la possibilità della liquidazione equitativa, «quando
le risultanze della causa offrono elementi per una precisa quantificazione del
danno attraverso una consulenza tecnica, in ordine alla quale la scelta da parte
del giudice del merito e' insindacabile solo se, almeno implicitamente, motivata
in relazione all'utilita' dell'accertamento, da valutare sulla base delle
risultanze istruttorie». V. anche C.Conti reg. Sicilia sez. giurisd., 1 luglio
1997, n. 188, Riv. corte conti 1997,fasc. 6, 212, che ammette la liquidazione
equitativa quando «pur essendosi svolta un'attivita' processuale della parte
volta a fornire questi elementi, il giudice per la notevole difficolta' di una
precisa quantificazione non li abbia tuttavia riconosciuti di sicura
efficacia».
Inoltre il potere del giudice di liquidare il danno in via equitativa è
discrezionale ma non arbitrario: il giudice deve adeguatamente dare conto
dell'uso di tale facolta', indicando il processo logico - valutativo ed i
criteri seguiti, v. Cass., 27 giugno 2001, n. 8807,
Giust. civ. Mass. 2001,1282; id. 15 gennaio 2000, n. 409, Giust. civ. Mass.
2000, 64
Soprattutto deve dare conto di quali elementi della fattispecie concreta abbia
tenuto conto nel decidere equitativamente, v. Cass. 9 maggio 2001, n. 6426,
Giust. civ. Mass. 2001, 948
La stessa liquidazione del danno morale da fatto illecito, pur necessariamente
rimessa alla valutazione equitativa del giudice, deve essere compiuta
rispettando l'esigenza di una razionale correlazione tra l'entita' oggettiva del
danno e l'equivalente pecuniario, Cass. sez. lav., 19 gennaio 1999, n. 475,
Orient. giur. lav. 1999,I, 295.
D'altro canto è illegittima una valutazione equitativa compiuta al di fuori del
sistema codicistico del risarcimento espresso dagli art. 1218 e 1223 c.c., in
particolare quando essa comporti il risarcimento di un danno non imputabile o
non conseguente immediatamente e direttamente all'inadempimento, v. Cass. sez.
lav., 13 luglio 1996, n. 6366, Notiziario giur. lav. 1996, 847.
In definitiva il giudice «se non e' tenuto ad una dimostrazione minuziosa e
particolare degli eventi considerati nel formulare il giudizio complessivo
sull'entita' del nocumento risarcibile, deve tuttavia dimostrare di avere tenuto
presenti i dati di fatto acquisiti al processo come fattori costitutivi
dell'ammontare dei danni liquidati» Cass. sez. lav., 16 dicembre 1999, n.
14166, Giust. civ. Mass. 1999,2552, id. 25 settembre 1998, n. 9588, Appalti
urbanistica Edilizia 2000, 215 , id. 2 dicembre 1998, n. 12237, Giust. civ.
Mass. 1998,2524.
La giurisprudenza è poi ferma nel ritenere che la liquidazione equitativa non
può valere a supplire lacune istruttorie imputabili alla parte gravata del
relativo onere.
Così Tribunale Roma, 22 aprile 1998, Resp. civ. e prev. 1998,1471: «La
liquidazione equitativa del danno prevista dall'art. 1226 c.c. ha per
presupposto un'oggettiva impossibilita' di prova e non la mera difficolta' di
questa, specie se dovuta ad inerzia della parte gravata dall'onere della
prova»; v. ancora Giudice di pace Monza, 16 dicembre 1997, Arch. civ. 1998,
840: «L'impossibilita' di esaminare e conferire valore all'oggetto della
controversia, per fatti e colpa non imputabili all'attore, costituisce il
presupposto della quantificazione del danno in via equitativa».
Ancor più pregnante è Cass. 3 dicembre 1997, n. 12256 , Giust. civ. Mass.
1997,2321: «La parte che domanda il risarcimento del danno da fatto illecito
non puo' limitarsi ad invocare la liquidazione equitativa del danno da parte del
giudice, ma e' necessario che essa fornisca la prova del danno indicando le
componenti di esso, potendo il giudice procedere alla relativa liquidazione
equitativa in caso di impossibilita' o di grave difficolta' di dimostrare la
misura del danno».
Ed ancora, Cass. 18 febbraio 1995, n. 1799, Giust. civ. Mass. 1995, 380: «Il
potere, riconosciuto dalla legge al giudice, di liquidare il danno con
valutazione equitativa non esonera la parte istante dall'onere di fornire gli
elementi probatori ed i dati di fatto in suo possesso, al fine della precisa
determinazione del danno, che puo' essere conseguita con tutti i mezzi ammessi
dall'ordinamento giuridico».
36) .ed in materia industrialistica
In materia di contraffazione di marchi la liquidazione equitativa trova
riscontro nella disposizione dell'art. 66, comma 2° l.m.; in materia di
concorrenza sleale la stessa possibilità sussiste in base alle disposizioni
generali di cui agli artt. 2056 e 1226 c.c.
D'altronde in materia industrialistica la liquidazione equitativa estremamente
frequente, data la difficoltà di determinare un danno che, consistendo per lo
più in un mancato profitto, difficilmente si presta ad una precisa
quantificazione (e ciò spiega anche perché, in materia cautelare, si afferma
che il periculum in mora sia in re ipsa, sotteso alla stessa potenzialità
espansiva del danno: ma per una prospettiva più rigorosa, volta
all'accertamento in concreto del rischio, v. Trib. Napoli 5 luglio 2001, Gius,
2002, 3, 321).
La liquidazione equitativa, in materia di contraffazione di marchio e di
concorrenza sleale, è comunque ammissibile solo in presenza delle stesse
condizioni già indicate in via generale, ed anzi la giurisprudenza avverte con
forza l'esigenza di fondarsi su dati e riscontri positivi, che forniscano almeno
un ordine di grandezza dell'ammontare del danno.
In particolare occorre che l'attore, essendone onerato, abbia dato prova dell'an
debeatur.
Indubbiamente la perdita di guadagno di un'attivita' commerciale comporta
sovente notevole difficoltà, se non l'impossibilità, di dimostrare il danno
nel suo preciso ammontare (Cass., 27 marzo 1997, n. 2745, Giust. civ. Mass.
1997, 482).
Tuttavia la giurisprudenza è particolarmente rigorosa nell'affermare che
difficoltà o impossibilità devono discendere da ragioni oggettive, e non
soggettive, e soprattutto che la liquidazione equitativa non può mai supplire
l'inerzia dell'attore.
Questi, in primo luogo, deve indicare- sia pure approssimativamente - un
adeguato parametro liquidatorio del pregiudizio; in mancanza di tali linee
guida, infatti, la liquidazione sarebbe inevitabilmente arbitraria (v. trib.
Milano 27 gennaio 1992, ivi 2791; App. Milano 8 maggio 1992 , ivi 2825; in Trib.
Ferrara 1 settembre 1994, ivi 3150). Trib. Catania 10 luglio 1998, ivi 3825
precisa che il richiedente deve fornire gli elementi essenziali per orientare la
valutazione del giudice, al quale sarà consentito soltanto di intervenire al
fine di colmare lacune inevitabl; in termini anche Trib. Bologna 16 luglio 1999,
ivi 4089; Trib. Firenze 31 gennaio 2000, ivi 4131.
La liquidazione equitativa non può neanche valere a colmare lacune
istruttorie imputabili alla parte investita del relativo onere probatorio.
Così App. Venezia, 5 giugno 1987, GADI, 2262, assume che «va respinta la
domanda di risarcimento del danno da contraffazione di marchio quando l'attore
non abbia fornito, come pure avrebbe potuto facilmente potuto - il che esclude
la liquidazione equitativa - alcun elemento circa l'ammontare del pregiudizio
economico subito, relativo quanto meno al proprio fatturato e alla sfera
operativa del convenuto»; ancor più rigorosamente Trib. Milano 19 dicembre
1991, ivi 2721 assume che «i dati desumibili dalle scritture contabili sono
suscettibili di valutazione solo quando l'attore in contraffazione ha dedotto o
provato fatti sintomatici del danno»; in mancanza di tale prova l'esame delle
scritture contabili e dei registri del contraffattore si risolve in una mera, ed
inammissibile, esplorazione.
V ancora Trib. Roma 27 settembre 1995, GADI 3435: «va respinta la domanda di
condanna ai danni per contraffazione di marchio e per concorrenza sleale quando
l'attore non ha indicato i mezzi di prova per la dimostra del pregiudizio
subito, e si è limitato a richiedere l'esibizione delle scritture contabili
della convenuta »
Ancor più precisamente, Trib. Milano 17 dicembre 1998, ivi 3968 esclude il
risarcimento per contraffazione di marchi in mancanza di prova della contrazione
delle vendite o del fatturato a seguito dell'illecito, o se manchi ogni
riscontro probatorio su cui fondare una valutazione equitativa, essendo
insufficiente a tal scopo il solo dato delle vendite del contraffattore, in
termini Trib. Milano 4 dicembre 1998, ivi 3965; App. Bologna 3 giugno 1999, ivi
4009.
Difettando tali elementi anche la CTU è inammissibile, in quanto finirebbe
per tradursi in un incarico meramente esplorativo (Trib. Milano 21 luglio 1994,
ivi, 3249, secondo cui una CTU contabile presuppone la prova del nesso causale
tra l'illecito e la perdita della clientela; id. 11 gennaio 1996, ivi 3455; id.,
23 giugno 1997, ivi 3761,.
E' infine appena il caso di rilevare che non può farsi luogo al risarcimento da
danno industrialistico (nella specie concorrenza sleale) quando l'unico elemento
di prova è costituito dalle dichiarazioni unilaterali della parte danneggiata,
non confermate da testimonianza e da produzione di libri sociali e bilanci,
Trib. Milano 11 dicembre 1997, ivi 3787.
37) Il caso di specie
E' allora evidente come - alla stregua dei criteri sopra riportati - nella
specie non possa procedersi alla richiesta liquidazione equitativa.
Mancano, infatti, tutti i presupposti prima richiamati (anche a voler
prescindere dalla prova dell'an): in primo luogo la stessa difficoltà della
quantificazione.
Anzi, al contrario, la stessa attrice ha dedotto che il danno lamentato sarebbe
stato di agevole liquidazione, in quanto «tutte le transazioni che passano
dalla CS Informatica avvengono via carta di credito, è agevole dimostrare l
ricavato generato dagli abbonamenti al sito Playboy».
Di contro, si è già rilevato che l'attrice stessa si è ben guardata da
formulare richieste istruttorie, limitandosi a formulare deduzioni di cui si è
riscontrata l'infondatezza.
Né la Playboy - negligentemente - ha indicato linee guida, o elementi fattuali,
che possano consentire una tale liquidazione.
I) DECISIONE
38) Iliceità del domain name ex legge marchi e art. 2598 c.c.
In definitiva, la domanda della società attrice va accolta solo per quanto
di ragione.
Trattandosi, in primo luogo, di azione di contraffazione, troveranno
applicazione gli articoli 65 e 66 legge marchi, oltrechè - per i profili di
concorrenza sleale- gli articoli 2598 ss c.c.
Così, in primo luogo, va dichiarato che l'uso del termine Playboy da parte di
Mario Giannattasio come domain name, identificante il sito Internet
www.PlayBoy.it costituisce contraffazione dei marchi registrati PlayBoy, della
PlayBoy Enterprises International, inc. e della omonima denominazione sociale.
Tale uso integra altresì gli estremi della concorrenza sleale confusoria a
danno della medesima società (il richiamo anche all'art. 2598 c.c. anche nella
domanda di accertamento della attrice è indiscutibile, atteso il tenore degli
scritti difensivi, e la consequenziale ed espressa domanda di risarcimento ex
art. 2598 c.c.)
39) Misure ulteriori
Quanto alle misure ulteriori richieste dall'attrice, queste pure possono
essere - parzialmente adottate, in quanto trovano riscontro nell'art. 66 legge
marchi; va appena ricordato che l'inibitoria definitiva, singolarmente non
prevista espressamente dalla legge marchi (che conosce solo l'inibitoria
cautelare) è ritenuta sicuramente ammissibile dalla giurisprudenza.
Di conseguenza va inibito al Giannattasio l'uso del termine Playboy in qualsiasi
forma ed ambito, beninteso - atteso l'oggetto del giudizio - in ambito
industrialistico, quindi come marchio, segno, denominazione sociale, segno
atipico (ma anche - beninteso - alla stregua della normativa sul diritto
d'autore - come testata giornalistica).
Va ancora ordinato al Giannattasio la cancellazione del proprio domain name,
prima indicato, nonché di ogni riferimento - in qualsiasi forma - alla
denominazione Playboy; si accoglie così la domanda come formulata dalla
società attrice, che non ha ritenuto di estenderla nei confronti del provider
e, tanto meno, della RA italiana (non rilevando, pertanto, l'eventuale
cooperazione tecnica che queste ultime devono prestare per l'attuazione di tale
misura).
Di contro, la domanda della società attrice non può essere accolta nella parte
in cui chiede la cancellazione di ogni riferimento al marchio Playboy anche come
metatag (si tratta di codici alfanumerici, che possono formare anche parole
chiave, posti all'interno di una pagina web e non immediatamente visibili che i
motori di ricerca utilizzano per individuare ed indicizzare i testi presenti in
rete, v. Trib. Roma 18 gennaio 2001, dir. Inf. 2001, 550)
Ciò, beninteso, non perché una tale utilizzazione da parte del Giannattasio
sia ammissibile, ma perché la società attrice non ha provato in alcun modo che
un tale illecito utilizzo abbia avuto luogo (la prospettazione attorea, sul
punto, è significativamente solo ipotetica).
Va rigettata, come rilevato, la domanda di risarcimento dei danni.
Da qui l'assorbimento della domanda di garanzia del provider nei confronti della
RA italiana, che - in termini processuali, pur se atipici - si traduce in una
pronuncia di non luogo a provvedere.
Va poi dichiarata inammissibile (pur se, nella prima parte, in realtà
superflua), perché tardivamente formulata (come d'altronde eccepito dai
convenuti) la domanda di cui al n. 5) del foglio di conclusioni (peraltro solo
parzialmente riprodotta in conclusionale):
«accertato e dichiarato l'esclusivo diritto di marchio e di utilizzazione del
termine playboy da parte della Playboy Enterprises International ic., anche come
dominio, ordinare alla RA la assegnazione del dominio Playboy.it a favore della
licenziataria esclusiva europea Playboy products and services International B.V.
di Amsterdam, Olanda».
Infine - come richiesto- va disposta la pubblicazione del dispositivo della
sentenza, con le modalità che saranno ivi indicate (ciò alla stregua dell'art.
65 legge marchi).
Tale pubblicazione avrà luogo anche in Internet: in dottrina si è giustamente
osservato che «se la ratio delle norme che prevedono la possibilità per il
giudice di disporre la pubblicazione è, come si diceva, anche quella di rendere
noto al pubblico il ripristino del diritto leso, è perfettamente logico che la
pubblicazione avvenga con i mezzi di comunicazione più adeguati a conseguire
questo scopo nella fattispecie concreta».
40) Spese
Le spese - anche delle fasi cautelari- seguono la soccombenza dei convenuti e
si liquidano in dispositivo, nella misura della metà.
Ricorrono giusti motivi (tra cui l'esito del giudizio e la oggettiva
complessità delle questioni in diritto, ma anche le oggettive lacune difensive
della Playboy, ad onta della ampiezza delle difese di tale parte) per dichiarare
la compensazione delle spese per l'altra metà.
Ricorrono altresì giusti motivi per dichiarare l'integrale compensazione delle
spese tra C.S. Informatica e il C.N.R.; se da un lato, infatti, si è rilevato
che quest'ultimo - in astratto e nel caso concreto - non va esente da
responsabilità, quanto all'illecito per cui è causa, dall'altro pure va
considerata la difficoltà della causa, e il ruolo -beninteso in senso lato -
"istituzionale" della RA (che certo alcun vantaggio può trarre
dall'illecito uso del domain name).
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, così provvede:
a) dichiara che l'uso del termine PlayBoy da parte di Mario Giannattasio come
domain name, identificante il sito Internet www.PlayBoy.it costituisce
contraffazione dei marchi registrati PlayBoy, della PlayBoy Enterprises
International, inc. e della omonima denominazione sociale, nonché integra gli
estremi della concorrenza sleale confusoria a danno della medesima società.
b) Inibisce al Giannattasio l'uso di tale termine, in qualsiasi forma ed
ambito (come indicato in parte motiva).
Ordina al Giannattasio la cancellazione del proprio domain name, prima indicato,
nonché di ogni ulteriore riferimento - in qualsiasi forma - alla denominazione
Playboy.
c) Dispone la pubblicazione del presente dispositivo, a cura della società
attrice e a spese dei convenuti in solido per due volte consecutive e con
caratteri doppi rispetto al normale sui quotidiani La Repubblica, Il Corriere
della Sera, Internet News, nonché all'interno dei siti Internet www.tin.it,
www.flashnet.it
d) Rigetta la domanda di risarcimento nei confronti del Giannattasio e della
CS e dichiara per il resto inammissibili le domande attoree.
e) Dichiara non luogo a provvedere sulla domanda di garanzia della CS
Informatica nei confronti del CNR.
f) Condanna i convenuti Giannattasio e C.S. informatica in solido al
pagamento delle spese del giudizio nella misura della metà, che liquida, anche
per la fase cautelare in euro 1500 per esborsi, euro 1000 per diritti, euro 5000
per onorario di avvocato, oltre Iva e Cpa come per legge; dichiara per il resto
la compensazione delle spese.
Dichiara l'integrale compensazione delle spese tra la C.S. Informatica e il
C.N.R.
Napoli, 26 febbraio 2002
Il Giudice Monocratico