Pagina pubblicata tra il 1995 e il 2013
Le informazioni potrebbero non essere più valide
Documenti e testi normativi non sono aggiornati

Diritto d'autore

Bollino, scopo commerciale e scopo imprenditoriale

di Daniele Minotti – 05.05.05

Sembra proprio che il tribunale di Bolzano abbia acquisito una sorta di “specializzazione” in decisioni sul diritto d’autore in un certo modo innovative e che si distinguono, come scritte dalla stessa mano, per una non comune, almeno tra i giuristi, conoscenza del mezzo tecnologico nonché per un orientamento spiccatamente liberale.

Dopo l’ordinanza del dicembre 2003 in tema di modifiche alle Playstation (detto per inciso, corretta nelle conclusioni ma fondata, tra l’altro, su non pertinenti questioni relative misure tecnologiche ex art. 102-quater LDA), questa volta, con la sentenza del 31 marzo scorso, i giudici bolzanini si sono occupati di software giungendo al proscioglimento dell’imputato sulla scorta di due ordini di importanti considerazioni (vedi anche Duplicazione abusiva se mancano scatole e manuali? di Andrea Monti).

Il primo gruppo, che caratterizza l’intera pronuncia, riguarda le regole che governano l’onere dalla prova; il secondo nucleo, purtroppo passato in secondo piano, concerne il selettore punitivo “scopo commerciale o imprenditoriale” della condotta di detenzione contemplata dall’art. 171-bis, comma 1, della legge sul diritto d’autore.

In ordine al primo profilo, non è affatto facile argomentare soltanto sulla scorta di una sentenza, variamente motivata, che, per dirla tutta, sembra aver punito più l’inerzia degli inquirenti e i “prepotenti” produttori di software (con le loro odiose “licenze a strappo”) che fissato un principio universalmente adottabile. Bisognerebbe, infatti, conoscere meglio gli atti che stanno dietro ogni decisione e che in essa possono essere soltanto brevemente richiamati e riassunti.

Ad ogni modo, piaccia o meno a giudici e commentatori, l’approccio formale degli inquirenti non è del tutto ramingo e, anzi, ha un suo preciso fondamento legislativo, trovando le sue origini, per il software, nella legge 248/2000. Certo, l’art. 181-bis LDA (comma 3) e il relativo il regolamento (DPCM. 11 luglio 2001, n. 338), disciplinando la dichiarazione identificativa in sostituzione della vidimazione, hanno fissato importanti eccezioni, ma il fulcro della disciplina sul software (come già per i prodotti audio e video – ma il regime è confermato anche per le banche di dati) è il contrassegno SIAE: aspetto meramente formale, anzi “segno distintivo di opera dell'ingegno” (art. 181-bis, comma 8, LDA).

Potrà essere inopportuno (e chi scrive non ne ha mai nascosto le propri perplessità) o, addirittura, illegittimo (si ricordi l’ordinanza del tribunale di Cesena, con la quale veniva posta in dubbio la compatibilità del contrassegno con le norme comunitarie), ma il “bollino” ha la sua centralità.

Ciò non significa, beninteso, che si debba radicare una settoriale – quanto inaccettabile - inversione dell’onere della prova. Ricordiamo tutti, oltre alle menzionate esenzioni previste del regolamento, il vero e proprio diritto alla copia di backup, ma non si può negare che l’indagato ha numerosi strumenti (anche quelli post avviso ex art. 415-bis c.p.p.) per provare, anche agevolmente, la propria innocenza e che una sua eventuale inerzia potrebbe essere intesa, psicologicamente, come un riconoscimento di colpevolezza. Ed è difficile non ritenere la sussistenza di una situazione di illegittimità nell’assenza di ogni package o, peggio, in presenza di installazioni multiple di una sola, apparente, licenza (moltiplicazione che, peraltro, inquadrerebbe la condotta in un altro, più rigoroso, alveo, cioè quello della duplicazione).

Ma la sentenza in commento, lungi dal costituire uno spunto di riflessione soltanto sulle indagini in tema di reati informatici (o che riguardano l’informatica) rappresenta, per quanto noto a chi scrive, la prima pronuncia su un aspetto non trascurabile del regime penale del software: la detenzione da parte di un professionista per l’uso nella propria attività.

Come è noto, sempre la L. 248/2000 ha profondamente influito sulle norme penali sul diritto d’autore, specie sul regime dei programmi per elaboratore in relazione agli abusi sui quali dal previgente dolo di lucro si è passati a quello di profitto richiedendo in più, per la condotta di detenzione, lo scopo commerciale (già contemplato prima della riforma) o imprenditoriale (novità del 2000). Ciò, come sanno bene coloro che hanno seguito l’iter della riforma, soprattutto per colpire senza titubanze il “risparmio di spesa” anche se sulla scorta di indicazioni di “parti” non sempre padrone di una buona tecnica legislativa, anzi non del tutto consapevoli delle implicazioni delle loro pressioni.

Si è discusso a lungo, già dal 1992, delle questioni riguardanti lo scopo commerciale nei vari passaggi legislativi: dal testo originale della direttiva 91/250/CE (che parlava di “commercial purposes”), passando per la traduzione italiana (scopo commerciale) e per la legge delega 489/92 (“detenzione per la commercializzazione”) giungendo, appunto, al finale scopo commerciale inserito nell’art. 171-bis LDA.
Qui, basti ricordare che, malgrado l’interpretazione di parte della dottrina (per tutti, G. Pica) secondo la quale per “scopo commerciale” doveva e deve intendersi la destinazione alla commercializzazione (non soltanto per la vendita), la Cassazione si era orientata per il più ampio – e diverso – uso in ambito imprenditoriale (commerciale?) saltando, peraltro, a piè pari l’imbarazzante questione sull’adombrato eccesso di delega.

Appare, però, di tutta evidenza la coincidenza con lo scopo imprenditoriale post L. 248/2000, dunque la sua (apparente) superfluità, forse il suo diverso significato. Laconica, quanto insoddisfacente, la Cassazione: “una specificazione di corretto recepimento della direttiva comunitaria”.

Sorprendentemente, il GIP di Bolzano, sembra, però, aver seguito una via molto diversa – nonché erronea – affermando che lo “scopo imprenditoriale” “si riferisce alla condotta di chi commette il fatto “esercitando in forma imprenditoriale attività di riproduzione, distribuzione, vendita o commercializzazione, importazione di opere tutelate dal diritto d'autore”.

Chi scrive, rimane dell’idea che scopo commerciale e scopo imprenditoriale (che non posso essere elementi tautologici o, con l’eufemismo della Suprema Corte, il secondo specificazione del primo) siano da distinguere: destinazione alla commercializzazione e destinazione all’uso nell’àmbito di un’impresa.

Fermo resta che, come affermato dal giudice di Bolzano, pur attraverso un percorso ben diverso, il professionista ed anche un’associazione (e, contrariamente a quanto esclamato dal GIP altoatesino, non è assurdo o inaccettabile) non potranno commettere il reato de quo in quanto figure che, come è universalmente noto, il nostro ordinamento, incontestabilmente, distingue da quella dell’imprenditore.

 

Inizio pagina  Indice della sezione  Prima pagina © InterLex 2005 Informazioni sul copyright