Una settimana fa l’Agenzia delle entrate ha emanato la Risoluzione N. 14/E, che
obbliga i fornitori di servizi di conservazione sostitutiva a stampare e
acquisire nuovamente via scanner i file fattura ricevuti dai propri clienti
(vedi Per dematerializzare si deve
materializzare il dematerializzato di Manlio Cammarata).
In pratica, l’effetto netto sarà di rendere molto più costoso il servizio, e
quindi molto meno conveniente per le imprese dematerializzare le proprie
fatture, che si continueranno tranquillamente a conservare in tradizionali - ma ben rodati - archivi cartacei. Lo svantaggio maggiore lo avrà probabilmente
la stessa Agenzia delle entrate, visto che un archivio elettronico rende molto
più efficace, veloce e meno invasiva l’attività ispettiva e di controllo.
Difficile capire quali siano le ragioni che hanno spinto l’Agenzia a uscire
con un provvedimento così anti-intuitivo e discutibile. D’altra parte nessuna
norma obbliga le imprese a passare alla archiviazione sostitutiva, e i risparmi
potenziali legati alla dematerializzazione degli archivi cartacei sono stimati
pari a “solo” alcune centinaia di milioni di euro per anno.
Sulla fatturazione elettronica, però, le cose stanno in modo del tutto diverso.
La fatturazione elettronica è stata resa obbligatoria per le transazioni nei
confronti della Pubblica amministrazione, e i guadagni potenziali di efficienza,
inclusa anche la possibilità di ottimizzare i pagamenti, sono stimati nell’ordine
di qualche decina di miliardi di euro l’anno.
Qui ci vuole un sforzo di grande realismo e di buonsenso da parte del
legislatore. La legge finanziaria 2008 prevede infatti due ulteriori passi per
rendere concreto tale obbligo della fatturazione elettronica nei confronti della
PA.
Il primo è l’indicazione (tramite decreto, da emettere entro il prossimo mese
di marzo) dell’operatore incaricato di gestire il Sistema di interscambio che
sarà l’interfaccia fra la PA e le imprese e/o i fornitori di servizi di
fatturazione elettronica.
Il secondo passo, più delicato, è rappresentato dal decreto attuativo che
andrà a fissare le regole che le aziende dovranno seguire per inviare fatture
elettroniche alla PA.
La legge non prevede una data entro la quale il decreto attuativo dovrà
essere emesso. Dice solo che, a tre mesi dall’emissione del decreto, e al
netto di eventuali deroghe, la Pubblica amministrazione potrà pagare solo
fatture elettroniche.
In pratica è possibile che tutti i 20.000 e più fornitori “importanti”
della PA, se tali vogliono rimanere, debbano attrezzarsi per inviare fatture
elettroniche nel corso dei prossimi dodici mesi.
Di fatto definire un limite piuttosto breve per l’applicazione della legge
e, assieme, una sanzione assolutamente draconiana in caso di non ottemperanza,
rappresenta forse l’unico modo per riuscire a traghettare le aziende alla
fatturazione elettronica.
Non dimentichiamo che si tratta quasi di una “prima mondiale”, un passo
coraggioso che potrebbe fruttare al sistema Italia un importante – e quanto
mai necessario – impulso di produttività.
La fatturazione elettronica non ha ancora preso piede in nessun paese del
mondo. In Danimarca (il solo paese ad avere imposto l’obbligo della
fatturazione elettronica nei confronti della PA) non c’è l’obbligo di
firmare elettronicamente le fatture, con un'interpretazione ragionevole della
direttiva 2001/115/CE (sul punto vedi
ancora Per dematerializzare si deve
materializzare il dematerializzato).
Il nostro legislatore, avendo deciso di concedere solo tre mesi alle imprese,
si è di fatto auto-obbligato a creare, con il decreto attuativo, condizioni per
rendere realmente agevole il passaggio alla fatturazione elettronica - anche e
soprattutto per le PMI, che rappresentano oltre il 95% delle aziende italiane.
In caso contrario la norma fallirà inesorabilmente, e passerà nel
dimenticatoio come un’ennesima grida manzoniana.
Il diritto informatico rappresenta forse il settore dove il legislatore ha
maggiore tendenza ad eccedere in complicazione con il frequente risultato
che gli strumenti di cui il legislatore vuole promuovere l’uso non vengono
adottati dal mercato (si pensi alla firma elettronica e alla PKI).
La maggior parte delle leggi è pensata per regolare una fattispecie che esiste già, di
cui si conoscono abbastanza bene i comportamenti dei diversi soggetti, che
evolve con i ritmi lenti e governabili del mondo “reale”, e che, infine, è
possibile provare a normare paese per paese.
La normativa IT è molto diversa. Si vuole regolamentare una realtà che non
esiste ancora (e che probabilmente non esisterà mai, se la legge è fatta
male), in cui è difficilissimo prevedere i comportamenti dei diversi soggetti,
e che evolve in modo veloce e assolutamente incontrollabile.
Inoltre si tratta di problematiche globali per definizione, dove vige la regola
che oramai la “terra è piatta” e che i tentativi di un paese di governare
un fenomeno andranno frustrati se altri paesi adottano politiche di segno
diverso.
Si pensi al tema, essenziale, della fattura elettronica cross border
(cioè che viaggia tra paesi diversi). Alcuni paesi, come in particolare la
Germania, hanno adottato un approccio del tipo “solo quello che si fa secondo
le leggi del mio paese va bene”, con il risultato di creare un serio, e ancora
irrisolto, problema di interoperabilità.
In definitiva, cosa vorremmo aspettarci dal decreto? Di fissare condizioni
che permettano ad imprese e PA di scambiarsi fatture con un “massimo
ragionevole” di sicurezza e di vantaggi.
Non il “massimo teoricamente possibile” – la “sicurezza della NASA”
unita alla ricchezza di dati della fattura EDIFACT utilizzata in filiere
industriali sofisticate come l’automotive.
Nel mondo dell’ICT, e non solo, la sicurezza assoluta non esiste.
Esiste solo la sicurezza ragionevole rapportata alla possibile minaccia.
Chiedere la massima sicurezza teoricamente possibile significa introdurre
livelli di complessità e di costo assolutamente incompatibili con le esigenze
delle PMI e, pertanto, con gli obiettivi della legge.
Medesimo discorso vale per la “ricchezza informativa” della fattura.
Il legislatore deve mettere le basi per l’evoluzione del sistema verso il
nirvana dello straight through processing. Deve però avere la serena
consapevolezza del fatto che buona parte delle aziende e degli enti pubblici non
saranno in grado né (come fornitori) di generare fatture complete di tutti i
dati necessari per una gestione straight through processing da parte del
cliente, né (come clienti) di implementare un sistema di straight through
processing delle fatture passive.
Questo non significa che la fatturazione elettronica non potrà portare
guadagni considerevoli già nel breve termine, ma solamente che ci vorrà un po’
più di tempo (e tanti investimenti) per giungere a generalizzare i 20-40 euro
di risparmio a fattura che già oggi si ottengono in alcune filiere industriali
fortemente integrate.
Sarebbe quindi egualmente sbagliato puntare al “minimo indispensabile”
rappresentato dalla semplice fattura elettronica in formato PDF inteso come “immagine”
(quindi non accompagnata dal substrato del file strutturato XML) che consente
solo di eliminare l’archivio cartaceo.
Eliminare l’archivio cartaceo significa risparmiare qualche decina di
centesimi, al massimo un euro, a documento. Avere un file strutturato che può
essere utilizzato per alimentare un gestionale permette di ottenere risparmi
superiori almeno di un ordine di grandezza.
Non è questa la sede per definire in dettaglio cosa si intende per massimo
ragionevole. Peraltro è facile capire, al contrario, quando un determinato
adempimento non è coerente con questo principio e aggiunge inutile
complessità.
Senza pretesa di completezza, ecco qualche esempio.
A) Contenuto dati del file fattura. Bisognerebbe sforzarsi di evitare la
necessità da parte delle aziende di includere nel file strutturato che
accompagna la fattura elettronica informazioni non contenute nella fattura
cartacea che oggi viene stampata. Altrimenti le si costringe ad intervenire sul
gestionale, con costi e tempi spesso significativi.
Un codice univoco, magari generato da un ente centrale, per individuare il
compratore? Bellissimo! Ma veramente serve da subito? Non bastano, almeno all’inizio,
i dati (partita IVA) già presenti sulla fattura? Basti pensare che la partita
IVA, preceduta dal codice nazione, diventa automaticamente tale codice univoco,
quindi … già c’è!
L’indirizzo mail è un esempio di un meccanismo di identificazione non
centralizzato e pieno di limiti che farebbe orrore ad un esperto di
standardizzazione, ma che – nel suo ambito – funziona bene perché è
pratico e flessibile, anche se non del tutto sicuro. È molto probabile che un
meccanismo di indirizzamento – teoricamente imperfetto, ma semplice –
gestito dagli utenti possa funzionare anche per spedire le fatture.
Un approccio ragionevole sarebbe di limitarsi, nel decreto, a richiedere la
presenza dei campi “indice” già previsti dalla legge con l’aggiunta di
quei pochi campi che vengono generalmente utilizzati per alimentare la
contabilità, come ad esempio il “castelletto IVA”.
Per il resto lascerei ai compratori il compito di chiedere ai loro fornitori di
includere nel file strutturato anche altre informazioni utili per alimentare
automaticamente il proprio gestionale. Questo è coerente con quanto previsto da
tutta la normativa, europea e nazionale, che la fattura elettronica può essere
inoltrata solo dietro accordo con il destinatario: in tale fase di accordo si
possono quindi definire anche questi aspetti.
B) Lo standard. Ci sono diversi standard XML che funzionano sia in teoria
che in pratica. Ce ne sono poi altri (che qui non nominiamo) che per un
totalizzante desiderio di perfezione in pratica non funzionano e sono molto
difficili da implementare da parte delle PMI.
Scegliere e imporre uno standard “ex-lege” rischia di essere un errore, non
fosse altro perché non è affatto detto che gli altri paesi seguiranno il
nostro esempio. È essenziale che la normativa italiana eviti salti in avanti in
modo da porre le basi per l’interoperabilità a livello europeo, o almeno non
ostacolarla.
Tradurre un documento in uno standard XML in un altro standard XML è invece
abbastanza agevole, così come produrre un telefonino quadribanda non
rappresenta un exploit tecnologico particolarmente impressionante.
Un approccio di buon senso potrebbe essere quello di chiedere alle imprese di
inviare, assieme alla fattura in formato immagine, un file XML in uno standard
qualsiasi fra quelli meglio documentati (CBI, UBL, Finvoice, Rosetta,…).
C) La firma. La firma apposta sulla fattura non è una firma (nel senso
che non rappresenta una dichiarazione di volontà da parte di chi la appone), ma
è un sigillo che serve a dimostrare che il file non è stato modificato e
proviene effettivamente da un certo emittente. Tanto è vero che la direttiva
comunitaria proibisce agli stati membri di obbligare le imprese a firmare le
proprie fatture, e prevede specificatamente la possibilità che la firma venga
apposta da un terzo, in nome e per conto dell’azienda emittente.
Soprattutto per le PMI affidarsi ad un terzo è quasi una scelta obbligata,
poiché sobbarcarsi direttamente le attività di apposizione della firma
elettronica, di marcatura temporale e conserva sostitutiva delle fatture
comporterebbe oneri probabilmente inaccettabili.
Il terzo può utilizzare un certificato emesso a nome di un dipendente
autorizzato a firmare dall’azienda che ha emesso la fattura, oppure firmare
con un proprio certificato.
La prima ipotesi presenta una serie di contro-indicazioni pratiche, soprattutto
per le PMI. Ogni azienda deve essere dotata di uno o più certificati (i due
milioni di certificati di firma già in possesso delle aziende italiane in
pratica non vanno bene perché sono, in massima parte, gestiti da soggetti
diversi da quelli che in azienda sono responsabili della fatturazione). Poi
bisogna gestire le smartcard (che si perdono, si rompono…) o, in alternativa,
avere apparati di firma massiva (i cosidetti HSM) in grado di gestire migliaia
di certificati in sicurezza.
Nel secondo caso l’operatore firma tutti i file fattura ricevuti dai propri
clienti con un unico certificato intestato a se stesso. La firma dell’operatore
trasforma i file in fatture elettroniche vere e proprie e garantisce che le
fatture sono state correttamente “sigillate”.
L’operatore deve utilizzare un meccanismo di identificazione per essere
ragionevolmente certo che i file fattura provengono effettivamente da quella
particolare azienda, e deve apporre la firma utilizzando una infrastruttura
tecnologica sicura.
L’operatore non può evidentemente divenire responsabile del contenuto
della fattura semplicemente perché l'ha sigillata con un certificato diverso,
il proprio. Si tratta di una cosa ovvia, ma sarebbe opportuno che il decreto la
ribadisse.
Ci sono poi tutta una serie di aspetti in cui non si riesce realmente a capire
perché il legislatore dovrebbe entrare, e qui il decreto potrebbe
opportunamente ribadire la “neutralità tecnologica” della legge.
Mi riferisco, ad esempio, all’idea - criticabile – che, per stare
tranquilli, bisogna necessariamente fare transitare le fatture per una rete “sicura”,
diversa da internet. Ci si dimentica che il “primo e l’ultimo miglio”
(dall’emittenti fino all’hub e dall’hub fino al destinatario) comunque non
può che avvenire sulla “insicura” rete internet, e che comunque la firma
elettronica serve appunto di essere certo che quanto arriva è uguale a quanto
è stato spedito. Un secondo esempio, ugualmente criticabile, è che sia
assolutamente necessario utilizzare protocolli particolari – diversi insomma
da un semplice FTP, da una mail criptata e firmata, o da una trasmissione SSL -
per l’invio.
La posta certificata è una ottima cosa, ma non ha alcun senso imporre l’obbligo
di utilizzarla inviare fatture elettroniche. Oggi le fatture non si inviano mica
per raccomandata con ricevuta di ritorno.
Il decreto anche potrebbe rappresentare l’occasione giusta per togliere di
mezzo alcuni adempimenti normativi che aggiungono poco in termini di sicurezza,
ma rendono molto più ostica l’adozione della fatturazione elettronica da
parte delle imprese.
Due esempi per tutti: l’obbligo di “chiudere” la fatturazione entro 15
giorni dall’emissione della fattura tramite l’opposizione di una marca
temporale sulla fattura elettronica, e l’obbligo di conservare su supporto
elettronico le fatture elettroniche attive.
Il primo adempimento appare troppo restrittivo per molte realtà italiane che,
forse per disorganizzazione, più probabilmente perché il mercato funziona
così, trovano difficile rispettare quel limite. Estenderlo non dovrebbe
comportare un rischio particolare per l’amministrazione finanziaria.
Per chi emette poche fatture (magari utilizzando un portale web di
fatturazione, sul quale le fatture vengono immesse manualmente), o emette tante
fatture di cui solo poche nei confronti della pubblica amministrazione, l’obbligo
di aprire un sezionale separato e conservarle su supporto elettronico può
rappresentare una notevole complicazione.
Anche qui non si capisce quale sia la controindicazione a prevedere, ad esempio,
che l’obbligo per la conservazione “elettronica” scatti solo al di sopra
di un certo numero di fatture.
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