(Vedi anche La memoria digitale dell'Italia
non si conserva in PDF e Nuove tecnologie per l'interoperabilità
del documento informatico)
Premessa
La conservazione del documento digitale è un'operazione
complessa e rischiosa. Complessa perché continua nel tempo a fronte di una
innumerevole serie di variabili, rischiosa perché ogni intervento finalizzato
alla conservazione (copiatura, migrazione, addirittura anche il semplice
accesso, etc.) mette intrinsecamente a repentaglio il documento stesso nella sua
forma originaria. In più, il quadro normativo italiano risulta ancora instabile
- siamo infatti in attesa della quinta redazione delle regole sulla
archiviazione ottica sostitutiva - e a volte contraddittorio, al punto che non
aiuta ad operare nella piena certezza giuridica.
Pare dunque necessario affrontare il tema in questa sede sotto due punti di
vista. In primo luogo il documento che nasce digitale; in secondo luogo
verificheremo lo stato dell'arte sul documento che nasce cartaceo e che viene
trasformato in una copia digitale.
Il documento che nasce digitale
L'informatica ha messo in crisi uno dei concetti
fondamentali della diplomatica, cioè la distinzione tra originale e copia. In
ambiente digitale, infatti, si tratta di concetti assurdi, poiché un bit si
replica sempre uguale a se stesso, nella indistinguibilità tra originale e
copia. Soltanto i vari tipi di metadati possono eventualmente qualificare un
documento in un contesto determinato, primi fra tutti quelli del contesto
tecnologico e giuridico-amministrativo di produzione. Di conseguenza, per
conservare nel tempo e nello spazio un documento che nasce digitale bisogna
conservare nel tempo e nello spazio una serie di informazioni relative al
documento, con lo scopo di mantenerne nel tempo gli elementi necessari per
rilevare la sua eventuale autenticità, vero problema del documento informatico.
Quali informazioni? Ad esempio, le informazioni relative al sistema operativo,
al tracciato di un database, alla versione del software utilizzata, alla unità
organizzativa responsabile, al responsabile del procedimento amministrativo, all'autore,
all'indice di classificazione, al numero di protocollo, etc., in una parola
quelle ignorate dal legislatore in questi ultimi dieci anni. Infatti, le regole
sull'archiviazione ottica italiane si sono concentrate sul modo di conservare
(e di considerare) il documento come un oggetto informatico completo in se
stesso. Invece, la vera sfida della conservazione in ambiente digitale sarà
vinta quando sarà possibile conservare gli strumenti per riprodurre in forma
autentica la copia di un documento digitale, visto che sussiste, allo stato dell'arte
e secondo quando appurato dal progetto Interpares (www.interpares.org), l'impossibilità
di conservare il documento originale, se non in copia autentica frutto di una
serie continua e inevitabile di migrazioni.
Il primo ostacolo sotto il profilo probatorio di un documento nato digitale è
dunque la rimozione dal suo contesto di produzione, cioè la copiatura su un
supporto esterno senza il mantenimento della descrizione archivistica, dei
metadati relativi al protocollo, alla classificazione, al fascicolo. Per
comprendere meglio questo passaggio cruciale, utilizziamo un esempio semplice e
disarmante al tempo stesso. Se con un atto di pirateria qualcuno rimuovesse da
un computer o dal un sito web tutte le directory e ricopiasse tutti i files
nella radice, cioè aggregando tutti i files in C:\ o nel dominio, il sistema
funzionerebbe ugualmente?
Si noti che nessuno ha distrutto un solo documento o alterato un solo file. Sono
state invece distrutte le evidenze sul modo in cui quella memoria si è
sedimentata, cioè il corretto ordine per funzionare e per essere intelligibile.
Allo stesso modo, se qualcuno togliesse dai fascicoli tutti i documenti presenti
in un archivio e li riponesse sopra un tavolo, anche in ordine di protocollo, si
riuscirebbe comunque ad essere efficienti nell'azione amministrativa?
Certamente no, perché ora risulterebbe rimosso il legame che univa quei
documenti al loro contesto di produzione ed esecuzione (C:\Windows;
C:\Documenti), così come le "cartelle d'archivio" evidenziavano il
complesso dei documenti relativi a un procedimento e conservati in un fascicolo
rendendone riconoscibile l'argomento, la funzione procedimentale, il vincolo
tra di loro. Questo permetteva alle carte di generare un'informazione o, più
semplicemente, di far esercitare il diritto di accesso con pienezza giuridica su
tutto il fascicolo e non sul singolo documento, così come previsto dall'art.
5 del DPR 352/1992.
Per evidenziare questi vincoli, indispensabili per mantenere la intelligibilità
del contesto di produzione del documento e quindi di conseguenza del documento
stesso, gli archivisti utilizzano due strumenti in particolare: il titolario di
classificazione e il repertorio dei fascicoli.
Ma serve ancora la classificazione archivistica nell'era dell'informatica?
Sì. Anzi, proprio l'informatica ha acuito l'esigenza di strumenti altamente
professionali come i titolari di classificazione e i repertori dei fascicoli, la
cui funzione è fornire il contesto giuridico-procedimentale di produzione di un
documento. Una sequenza occasionale di bit non assume in sé alcun significato;
serve invece una sequenza organizzata di bit, in modo tale da poter produrre un
significato, ovvero il byte. Tanti bit sparsi qua e là nelle memorie del
computer non costituiscono informazioni, anche se rappresentano, in quanto "dati",
una componente essenziale dell'informazione.
Trasferito questo concetto in ambiente documentale, potremmo dire che il singolo
documento slegato dal contesto rappresenta un bit, che diventa invece un byte
quando è ordinato e collegato agli altri bit, secondo una sequenza logica e
necessaria. Una sorta, dunque, di vincolo informatico.
Riassumendo potremmo dire che un bit sta ad un byte come un documento sta ad
un fascicolo e formulare così la seguente equazione:
bit : byte = documento : fascicolo
A voler essere rigorosi, andrebbe invero precisato che il
byte è già di per sé una sequenza ordinata di bit e che, pertanto, non
potrebbe ipotizzarsi una sequenza disordinata. L'informatica è dunque ordine
ferreo. Proprio come l'archivistica. E allora non si capisce come mai
quando si tratta di applicare la prima alla seconda, l'ordine ferreo debba
essere solo informatico.
Il secondo ostacolo è la firma digitale. Essa infatti, oltre ad essere una
firma che firma non è - quanto piuttosto un sigillo, un marchio, etc. - non
può strutturalmente essere conservata nel tempo. Non cinque o sei anni, ma
cinque decenni oppure sei secoli. Insomma, la firma digitale non è in grado di
essere "tramandata" nel tempo perché tecnicamente non migra assieme
al documento. La migrazione, infatti, verso sistemi informatici diversi da
quelli del contesto di produzione (ad es. un file MS Word 5.5 su DOS passato a
Word XP) comporta la variazione del numero di bit. Al contrario, il valore
probatorio della firma digitale si basa proprio sul mantenimento e sulla
inalterabilità della sequenza di bit originaria, requisito impossibile da
conservare in ambiente digitale.
Il documento "dematerializzato"
Il CNIPA ha istituito un Gruppo di lavoro sulla cosiddetta
"dematerializzazione". Ben lontani da questioni nominalistiche, va purtroppo
rilevato che la parola scelta è scientificamente e strategicamente fuorviante.
Sotto il profilo scientifico, il documento informatico è, al pari del documento
cartaceo, una cosa contenente dei segni, cioè una "res signata". Pertanto,
essa ha una sua materialità evidente, che anzi gli permette strutturalmente e
ontologicamente di essere un documento, proprio in quanto entità materiale.
Sotto il profilo strategico quella denominazione fa evocare il mito della
eliminazione della carta, del cosiddetto "paperless office". Questo mito,
abbandonato da tempo nei paesi tecnologicamente più evoluti, come gli Stati
Uniti e il Canada, continua a far credere ai burocrati italiani che sia
possibile eliminare la carta, addirittura bruciarla. Tutto il lessico utilizzato
in questi ultimi tempi come slogan attuativo della dematerializzazione è
sinonimo della termodistruzione della carta, utilizzando anche immagini tutto
sommato poco rassicuranti. Domanda retorica: sareste preoccupati se qualcuno
dematerializzasse un documento che vi riguarda e poi ne distruggesse l'unico
esemplare esistente?
Infine alcune considerazioni tecniche. È stato scientificamente dimostrato che
la firma digitale non è idonea ad essere conservata nel tempo. Perché allora
il legislatore italiano continua a utilizzare questo strumento per l'archiviazione
ottica sostitutiva? Perché anche per l'estensione della validità di un
documento e del suo certificato il legislatore continua a proporre l'associazione
di un'ulteriore (e periodica) firma digitale, cioè di una marca temporale?
Risulta allora evidente che la sottoscrizione di un accordo con Adobe per l'utilizzo
del formato PDF per la firma digitale, senza alcun accenno alla conservazione
nel formato PDF/a, fa emergere l'assenza di una politica nazionale in materia
di conservazione dei documenti in ambiente digitale. Mentre gli studi
internazionali di settore si concentrano sul problema del mantenimento dell'autenticità
di un documento informatico, il legislatore italiano si limita a risolvere il
problema solo nella prospettiva di un decennio. E dopo? A cosa serve conservare
un documento o, peggio, il contenuto informativo di un documento, senza essere
in grado di dimostrarne l'autenticità? E quali sono gli elementi digitali da
conservare per dimostrare nel tempo l'autenticità di un documento?
Non essendo quindi adatta alla conservazione nel tempo, la firma digitale va
utilizzata per la gestione. Non dunque per la conservazione della memoria
storica di un ente pubblico, non insomma per la long term preservation,
ma per il records management privo nel medio termine di un valore
probatorio da mantenere. Via libera quindi all'utilizzo della firma digitale
per la produzione e per la gestione di documenti a conservazione limitata e
comunque per quei documenti per i quali esistano altre fonti di prova,
desumibili "aliunde". Nel primo caso si potrà utilizzare la firma digitale
per documenti contabili (fatture, mandati, reversali), compresi i rapporti con
la tesoreria, evitando di far passare ore a dirigenti e amministratori a
perfezionarli con la firma autografa. Nel secondo caso va preliminarmente
effettuata un'accurata analisi diplomatistica e archivistica del contesto di
produzione documentaria. Questo lavoro di rigorosa e puntuale analisi manca nel
90% delle amministrazioni pubbliche. Resta quindi ancora molto lavoro da fare da
parte di archivisti, diplomatisti, scienziati dell'amministrazione, sociologi
dell'organizzazione e informatici per condividere strumenti come i titolari e
soprattutto i massimari di selezione, integrandoli con la tabella dei
procedimenti amministrativi e poter finalmente giungere alla eliminazione
naturale e legale (la vera "dematerializzazione") dei documenti dichiarati
inutili ai fini della conservazione.
|